TUTTOSCIENZE 1 luglio 92


"CONSULTO" A GENOVA Sui mari i pirati dell'ambiente Un tesoro da amministrare e proteggere
Autore: FAZIO MARIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, INQUINAMENTO, CONFERENZA, MARE
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Distribuzione delle principali risorse marine
NOTE: 001

L'EPOCA delle grandi esplorazioni è chiusa da un pezzo, ma non per questo possiamo dire di conoscere interamente il nostro pianeta, coperto per sette decimi dall'acqua. Le ricerche nel mondo sommerso sono relativamente recenti. Non sappiamo ancora abbastanza degli ecosistemi oceanici, dove flora e fauna diverse per ragioni naturali (profondità, temperature, salinità, sostanze nutritive) subiscono sempre più fortemente l'impatto delle attività umane. L'esservazione per mezzo di satelliti consente da alcuni anni una visione dei fenomeni che si manifestano sulla superficie e a limitate profondità, consentendo diagnosi utili per la corretta gestione delle risorse. Si possono valutare i gradi di inquinamento regionale, si può anche misurare il livello degli oceani. Nell'ultimo secolo questo si è innalzato di circa 12-15 centimetri; oggi sono rilevabili variazioni di pochi millimetri, molto temute in relazione all'effetto-serra. Pochi millimetri in più provocano disastri come la parziale distruzione delle barriere coralline, estese per 600 mila chilometri quadrati nei mari caldi. L'allarme arriva dal professor Dallas L. Peck, dell'Università di Reston (Virginia) e dal professor Eric Bird, geografo dell'Università di Melbourne. Allo sviluppo delle conoscenze non corrisponde però quello di una "scienza degli oceani" che valuti tutti i fenomeni congiuntamente, indirizzando la ricerca applicata e le politiche dei singoli Paesi in modo non settoriale. Finora è prevalsa la tendenza opposta, si tratti di ricerche petrolifere o di scaricare rifiuti d'ogni genere, senza tener conto degli effetti a catena in un mondo sommerso troppo a lungo ritenuto capace di sopportare qualsiasi intervento umano. "Gestire gli oceani" è appunto il tema di fondo della Conferenza scientifica internazionale che si è tenuta a Genova, dal 22 al 26 giugno, nel Centro congressi dell'ex Magazzino Cotoni, all'interno del porto storico recuperato per l'Expo. " Gestione dei mari significava tentare di non inquinarli troppo, di limitare l'industria della pesca, di proteggere le balene e le specie in via di estinzione. Ma il problema è molto più complesso: bisogna arrivare alla pianificazione di tutti gli usi compatibili con la tutela dell'ambiente", dice Adalberto Vallega, goegrafo marino, coordinatore della Conferenza che ha raccolto a Genova scienziati di 27 Paesi, venuti anche dalla Cina e dalle Isole Figi. Le risorse dei mari sono smisurate ed economicamente così importanti da scatenare appetiti per nulla pianificati. Diversi Paesi che si affacciano sugli oceani, come il Canada, l'Argentina, il Cile, la Nuova Zelanda, vorrebbero estendere a 200 miglia dalla costa le loro fasce di sfruttamento esclusivo. Le grandi potenze, Stati Uniti e Gran Bretagna in testa, rifiutano di sottoscrivere accordi per la limitazione dello sfruttamento minerario nel fondo del mare. Il Canada rivendica il diritto esclusivo fino a 200 miglia. La Norvegia ha già stabilito dal 1977 la propria zona di 200 miglia nel Mare del Nord. L'ex Unione Sovietica mirava a una giurisdizione estesa fino al Polo Nord. Le conseguenze della gestione unilaterale delle risorse e degli ecosistemi marini sono più immediatamente visibili nei mari semichiusi. Nel Mare del Nord è in calo la pesca del merluzzo, dopo la crisi delle aringhe e la quasi scomparsa della "razza comune". Nei fiordi norvegesi sono in difficoltà gli allevamenti di salmoni. I pesci sbarcati da pescherecci danesi e tedeschi sono in parte immangiabili. L'inquinamento è fortissimo: in un anno 4,7 milioni di tonnellate di rifiuti industriali, 5,7 milioni di tonnellate di fanghi (scaricati da apposite navi), 115 mila di fosforo, 1 milione di azoto, 11 mila di piombo, più mercurio, cadmio e 150 mila tonnellate di petrolio. Il Mare del Nord sopporta 150 piattaforme per l'estrazione di idrocarburi e un quarto del traffico portuale di tutto il mondo (attraverso la Manica passano 350 navi al giorno). Anche i mari che nell'idea comune vengono associati al sogno di vacanze in ambienti quasi vergini, come quello Caraibico, soffrono inquinamenti pesanti e sono presi di mira per lo sfruttamento di risorse sommerse. Alle risorse off-shore di petrolio si aggiungono quelle di zolfo, di rocce e di sedimenti che contengono oro, platino, nichel, cobalto. Il turismo, indubbio fattore di crescita economica nei Caraibi, provoca gravi danni agli ambienti costieri, con estesa degradazione delle dune, delle mangrovie e dei banchi di corallo. L'Antartide evoca immagini di deserti bianchi e intatti, ma già alcune baie, come quella su cui gravita la base americana di McMurdo, sono avvelenate da rifiuti e sostanze chimiche. E' minacciata la riproduzione del krill, gamberetti essenziali per la vita in quei mari. Nell'Artico le attività di maggiore impatto sono la ricerca di idrocarburi, l'estrazione di piombo e zinco, gli scarichi in mare di rifiuti e residui metallici. I sondaggi e le perforazioni nello Stretto di Davis hanno avuto effetti negativi sul delicato ambiente artico, fino a ieri solo sfiorato da attività tradizionali, come la caccia dei pochi indigeni al caribù, alla volpe, all'orso bianco. Come alla Conferenza di Rio non è stato possibile dare concretezza al progetto dello "sviluppo sostenibile" a causa del conflitto tra interessi economici e esigenze ecologiche, non sarà facile far accettare a tutti i Paesi affacciati sul mare una strategia comune per la gestione corretta delle sue risorse. Su scala regionale il Mediterraneo ne dà una prova. Ma l'evoluzione è nell'aria. I primi esempi incoraggianti vengono da Paesi-modello, come l'Olanda, che sta compiendo sforzi per una gestione integrata del mare. La Cee sta mettendo a punto un programma politico per la pesca orientata alla razionale utilizzazione delle risorse biologiche. La Conferenza di Genova "Ocean management in global change" ha almeno impresso un'accelerazione al processo di cambiamento, mettendo in evidenza l'impossibilità di continuare sulla vecchia strada. Il supporto scientifico è stato imponente: dal nostro Cnr e dall'Accademia dei Lincei alla Royal Society e allo Scott Polar Research Institute, dall'Istituto Oceanografico di Monaco all'Università del Sud Pacifico e al Center of Marine Sciences di Nanchino, per citare aluni degli istituti di cinque continenti, più l'Unep, l'Unesco, la World Meteorological Organization, la Fao. I temi di fondo più urgentemente proposti ai governi nazionali sono quelli della pesca (nel Pacifico diminuiscono i tonni in seguito alla diffusione delle micidiali reti vaganti giapponesi) e quello della ricerca e produzione off-shore di idrocarburi. Gli interessi economici sono oggi molto forti nei Mari della Cina, dove si sono moltiplicate le scoperte di giacimenti petroliferi. L'Indonesia ha vasti campi petroliferi lungo le coste, le due Coree si contendono zone costiere ricche di idrocarburi. Isole e isolette fino a ieri prive di valore diventano motivo di conflitti quando si scopre il petrolio. E' il caso delle Isole Spratly, ignorate da tutti, contese da Cina, Taiwan, Vietnam, Filippine, Malaysia. Mario Fazio


LA TARTARUGA MARINA GIGANTE Il mistero della grande tuffatrice Pesa una tonnellata, scende fino a 1200 metri
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI, MARE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 001

GLI scienziati stanno cercando di diradare il mistero che circonda la più antica delle tartarughe marine viventi, la Dermochelys coriacea, giunta fino a noi dall'epoca dei dinosauri. Oltre ad essere la più antica è anche la più grande. Il maggior esemplare conosciuto è un maschio rimasto impigliato nelle reti dei pescatori che pesava una tonnellata. La femmina, più piccola, pesa comunque almeno tre quintali. La Dermochelys coriacea è l'unica superstite di una famiglia estinta, quella dei Dermochelidi, mentre le altre tartarughe marine appartengono alla famiglia dei Chelonidi. Tuttavia, come tutte le sue simili, anche lei va a deporre le uova in terraferma. E' questa l'unica occasione in cui l'uomo ha la possibilità di vederla da vicino. E' può assistere allo spettacolo sempre straordinario dell'ovodeposizione. La femmina gravida giunge su una spiaggia tropicale in una notte buia. Sembra un mostro antiduliviano che si trascini a fatica sulla sabbia. Poi si ferma e incomincia a scavare con le grandi pinne posteriori una buca di un'ottantina di centimetri e vi fa scivolare dentro da 70 a 90 uova. Sono grandi come palle da biliardo, morbide, umide, dal guscio pergamenaceo. A quella colata di uova regolarmente fecondate (come e dove sia avvenuta la fecondazione ancora non si sa) ne fa seguito un'altra di piccoli ovetti sterili, privi di tuorlo, dalla funzione ancora oscura. Poi la madre riempie la buca di sabbia e ne livella la superficie, per nascondere l'ubicazione del nido. Ciò fatto, se ne ritorna in mare. Ma dieci giorni dopo, ritorna, come hanno scoperto il biologo Scott A. Eckert e sua moglie Karen applicando piccoli registratori elettronici a dieci femmine che avevano deposto le uova sulla spiaggia di una delle Isole Vergini, nel Mare delle Antille. Ritorna e depone un'altra covata, operazione che può ripetere fino a 11 volte durante la stagione riproduttiva, lunga 4 mesi. E' un totale di uova considerevole, come se la madre prevedesse che solo pochissime riusciranno a sopravvivere per continuare la specie. Le tartarughine che schiudono dalle uova sono esserini lunghi meno di 10 centimetri (l'adulto è lungo due metri) che corrono il più velocemente possibile verso il mare, dove una folla di predatori le attende. Qui si perdono le tracce delle misteriose dermochelidi. Le si rivedrà a terra soltanto dopo tre o quattro anni. Legittima quindi la curiosità degli studiosi di sapere qualcosa di più su questi giganti del mare. E' vero che per deporre le uova le dermochelidi scelgono le spiagge tropicali ma questo non significa affatto che vivano soltanto nei mari caldi. Le si trova anche alle latitudini temperate o in quelle fredde, come il Mare di Barents o la costa meridionale del Cile. Debbono compiere perciò lunghissimi viaggi migratori per raggiungere le località di deposizione. Nel 1970 una dermochelide femmina fu etichettata mentre deponeva le uova nel Surinam. Meno di un anno dopo fu catturata al largo della costa del Ghana, in Africa. Aveva percorso all'incirca cinquemilacinquecento chilometri. Con il sistema del monitoraggio, i coniugi Eckert, coadiuvati da alcuni ricercatori dello Scripps Institution of Oceanography, riescono a scoprire che le femmine, una volta ritornate in mare, si danno a continue immersioni in profondità. Ogni immersione dura una decina di minuti e le tartarughe ne compiono cinque all'ora, giorno e notte, senza interruzione. Fino a che profondità possono immergersi? Con grande stupore degli studiosi, una femmina si immerge fino a oltre 900 metri. Purtroppo lo strumento è inadeguato a registrare l'inatteso comportamento. Ma gli studiosi ritengono che la tartaruga abbia raggiunto una profondità di oltre 1200 metri, battendo mammiferi campioni di immersione, come le foche di Weddel, che raggiungono i 600 metri o gli elefanti di mare che s'immergono fino a 1200. Qual è il motivo che spinge queste gigantesche tertarughe a fare una continua altalena tra le acque di superficiè e quelle di profondità? Gli Eckert non hanno dubbi. Per loro il fatto dipende dalla loro dieta specializzata. Le dermochelidi si nutrono soprattutto di meduse. E quando diciamo meduse intendiamo non soltanto quelle più appariscenti che colpiscono la nostra attenzione, ma le miriadi di meduse piccolissime che fanno parte dello zooplacton, e appunto per la loro quantità formano una biomassa considerevole. Nelle acque tropicali le meduse sono più frequenti, nelle ore diurne, alle grandi profondità, in uno strato orizzontale di zooplancton che si trova sotto i 500 metri e migra in superficie durante la notte, per nutrirsi a spese del fitoplancton. Le dermochelidi seguono i movimenti migratori delle prede. Anche loro si immergono in profondità durante il giorno e si trattengono in superficie durante la notte per poter fare ricchi pasti a base di meduse. La pressione elevata delle acque profonde dovrebbe schiacciare le dermochelidi. Ma la loro corazza è totalmente diversa da quella delle altre tartarughe. E' estremamente flessibile. E' come se si fosse spezzettata in tante placchette ossee impiantate su uno spesso tessuto cartilagineo, il tutto ricoperto da una pelle robusta come cuoio. La parte ventrale non ha ossa, ma soltanto un anello di cartilagine flessibile. Un'altra particolarità di questa straordinaria tartaruga è la sua capacità di resistere alle basse temperature. La si vede nuotare perfino intorno agli iceberg. La sua temperatura corporea si mantiene sui diciotto gradi, anche quando la temperatura dell'acqua è di cinque o sei gradi, come hanno dimostrato gli zoologi. Ciò avviene perché questa tartaruga possiede una riserva di grasso bruno, capace di generare calore metabolicamente. Inoltre ha nelle grandi pinne anteriori un dispositivo vascolare simile a quello che posseggono alcuni mammiferi marini, che determina uno scambio di calore controcorrente. In altre parole, ciascuna arteria viaggia in stretto contatto con una vena, in modo che il sangue proveniente dalle estremità si riscalda, mentre si raffredda quello diretto in senso opposto. Queste tartarughe marine giganti, che si possono considerare, per i loro peculiari caratteri, le nonne dei mammiferi attuali, sono in grave pericolo. Il loro numero va progressivamente dominuendo, non solo perché molte popolazioni indigene si nutrono della loro carne, ma anche perché nel mare inquinato trovano una quantità di buste di plastica; le scambiano per meduse, le ingoiano e muoiono soffocate. Sta di fatto che solo sulle spiagge di Terengganu, nella Malaysia occidentale, i nidi di Dermochelys coriacea che erano undicimila nel 1956 si sono ridotti a 280 nel 1990. Isabella Lattes Coifmann


ASTROFISICA Neutrini, un messaggio dal Sole "Gallex", l'esperimento sotto il Gran Sasso che ha rivelato le particelle più elusive
Autore: DARDO MAURO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Spaccato dell'interno del Sole
NOTE: 002

IL Sole produce in un milionesimo di secondo una quantità di energia pari a quella consumata sulla Terra in un anno. Tutta questa energia viene prodotta nel cuore dell'astro, dove è concentrata una massa paragonabile a quella di 300 mila Terre, con una densità elevatissima (13 volte maggiore di quella del piombo), a una temperatura di 15 milioni di gradi. Questo prodigioso flusso di energia ha origine da processi di fusione nucleare che trasformano l'idrogeno in elio. Sono reazioni studiate fin dagli Anni 30 e che spiegano la produzione di energia nelle stelle. La prova sperimentale che le reazioni sono quelle immaginate dai fisici è arrivata al congresso internazionale sul neutrino di Granada (Tuttoscienze, 10 giugno '92). Il Sole costituisce un laboratorio straordinario e gli scienziati cercano di scrutare dalla Terra i fenomeni che avvengono nel suo interno. Con questo fine, i fisici hanno costruito un edificio teorico noto come modello standard del Sole. In esso convergono molte conoscenze: dalla fisica generale alla termodinamica, dalla fisica nucleare alla fisica dei plasmi e delle particelle. Il modello prevede che, oltre all'energia prodotta sotto forma di raggi gamma, il Sole emetta una grande quantità di neutrini, particelle prive di carica elettrica e con massa virtualmente nulla. Il Sole è però opaco alle radiazioni elettromagnetiche. I fotoni gamma interagiscono volentieri con la materia: quindi emergono a fatica dalla superficie dell'astro, al termine di un viaggio erratico che dura milioni di anni, sotto forma di luce visibile, che poi arriva fino a noi. Questa energia degradata è un lontano ricordo della loro origine. Il Sole è invece completamente trasparente ai neutrini. Essi interagiscono molto debolmente con la materia, attraversano l'astro come se non esistesse. Il loro flusso e la loro energia danno un'informazione immediata sulla temperatura al centro della fornace solare. Nel giro di 2 secondi essi arrivano sulla superficie solare e dopo 8 minuti giungono sulla Terra con una intensità di migliaia di miliardi su ogni metro quadrato di superficie, in ogni secondo. Su centomila miliardi di neutrini solari che attraversano la Terra, uno solo si arresta. La sfida consiste nel catturarne una manciata per avere informazioni dirette su ciò che avviene nel cuore della nostra stella. Il primo esperimento per la rivelazione dei neutrini solari è nato nel 1968 grazie a un chimico americano, Ray Davis. L'idea è molto semplice: si tratta di utilizzare la reazione di trasformazione dell'atomo di cloro 37 nell'isotopo radioattivo argon 37 causata da un neutrino solare. Dopo più di venti anni continue misure con un rivelatore costituito da 400 mila litri di un solvente contenente cloro, posto in una ex miniera di oro del Sud Dakota, in luogo di tre neutrini al giorno previsti dal modello standard, Davis ne capta non più di uno. Nasce così l'enigma dei neutrini solari. Un secondo esperimento è entrato in funzione nel 1986 a Kamioka, in Giappone. In questo caso vengono osservate le interazioni dei neutrini solari con 600 tonnellate di acqua. I risultati, presentati a Granada, confermano quelli di Davis: il flusso di neutrini misurato è molto più piccolo di quello previsto dalle teorie del modello standard delle reazioni all'interno del Sole. Questi risultati gettano una luce inquietante sul funzionamento della centrale solare. Perché la fusione dell'idrogeno non fornisce i neutrini attesi? Quali sono le soluzioni immaginate dai fisici per risolvere l'enigma? I risultati dei due esperimenti sono falsi? Il modello standard del Sole è inesatto? O i neutrini prodotti nel centro del Sole cambiano fisionomia nel viaggio verso la Terra? In effetti esiste una limitazione importante nell'esperimento di Davis e di Kamioka. Essi possono rivelare solo neutrini di energia elevata, quelli provenienti dalle reazioni del berillio e del boro, che costituiscono una parte molto piccola della grande quantità di neutrini prodotta. L'enorme maggioranza dei neutrini solari, quelli emessi nella reazione di fusione primordiale (protone-protone) non possono essere osservati in quanto hanno un'energia insufficiente per innescare le reazioni con gli atomi del materiale di cui sono costituiti i due rilevatori. Ma le cose sono cambiate negli ultimi anni grazie a due nuovi esperimenti: Sage (una collaborazione russo-americana con il rivelatore in un laboratorio sotterraneo nel Caucaso) e Gallex (un consorzio di gruppi di ricerca essenzialmente europei) il cui rivelatore è installato nel laboratorio del Gran Sasso, sotto uno spessore di roccia di 1500 metri. Utilizzando un metallo prezioso, il gallio, si riesce a captare i neutrini di bassa energia, prodotti nelle reazioni di fusione dei nuclei di idrogeno in deuterio, che sono la stragrande maggioranza. I risultati dell'esperimento Sage, presentati al congresso di Granada, non sono incoraggianti, mentre l'equipe del Gallex, dopo più di un anno di continue misure, ha dato la sensazionale notizia: il flusso di neutrini di bassa energia, prodotti nelle reazioni di fusione nucleare che generano l'energia del Sole è molto vicino al valore previsto dal modello standard. Il risultato dell'esperimento Gallex è stato dedicato a Bruno Pontecorvo, presente a Granada, che per primo aveva suggerito, 45 anni fa, il metodo per rivelare i neutrini solari. Tutti sono stati concordi nel ritenere che si è fatto un grande passo verso la soluzione dell'enigma dei neutrini solari e verso la salvezza del modello standard. Mauro Dardo Università di Torino e Cern, Ginevra


NUOVA TEORIA La massa invisibile Il cosmologo Dennis Sciama con i neutrini Tau spiega alcuni degli aspetti più misteriosi dell'universo: forse presto verrà una verifica sperimentale
Autore: PRESTINENZA LUIGI

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 002

ALL'ULTIMO congresso della Società Astronomica Italiana, svoltosi in maggio a Teramo, l'astrofisico inglese Dennis Sciama, direttore della Scuola triestina di alta specializzazione, ha esposto una sua suggestiva teoria che spiega con il decadentismo del neutrino Tau (uno dei tre tipi di neutrino noti) alcuni importanti e controversi problemi cosmologici. Dalla teoria si ricava anche un valore molto preciso della massa di questo neutrino. La tesi di Sciama potrebbe anche passare per una verifica sperimentale con l'aiuto del satellite Euve, lanciato dalla Nasa l'8 giugno. Dal decadimento del netrino Tau, ammettendo che abbia massa e che decada, verrebbe fuori una cascata di raggi gamma che a loro volta, per l'effetto Compton, vengono riconvertiti in radiazione ultravioletta: ciò spiegherebbe l'ampia e diffusa ionizzazione del mezzo interstellare, e al tempo stesso aprirebbe la via alla verifica di quella catena di effetti, affidata allo spettrografo Ides ("International Diffuse Emission Spectrometer") che sarà in grado di misurare il "fondo" ultravioletto fra 350 e 900 Angstrom e identificarvi una riga di emissione che potrebbe sovrapporsi a una delle righe dell'elio già note. Questa verifica era già stata tentata dal satellite Iue, da lungo tempo all'opera, in relazione a una precedente ipotesi dello stesso Sciama che si basava sul decadimento del fotino. L'Iue non riuscì a "vedere" questa riga, ma pose un limite abbastanza basso per la sua rivelabilità. La teoria di Sciama prende le mosse da una serie di ipotesi, le più importanti delle quali sono: 1) che tutta la ionizzazione del mezzo interstellare sia dovuta al decadimento ipotizzato (attualmente viene spiegata con l'azione di stelle molto calde, ma potrebbe derivare da altro tipo di sorgente); 2) che tutta la "massa mancante" nel computo della massa complessiva dell'universo sia dovuta al neutrino Tau. Ne deriverebbero conseguenze importanti dal punto di vista cosmologico. L'universo a questo punto si chiude: non se ne può ipotizzare un'espansione infinita perché in esso c'è tanta massa che necessariamente deve tornare a contrarsi; la costante di Hubble che ne misura l'espansione dovrebbe essere abbassata rispetto alle ultime misure, e la stima dell'età dell'universo non andrebbe oltre i 12 miliardi di anni, contrariamente a quanto finora dedotto dall'età degli ammassi globulari, stimata in 14-15 miliardi di anni. Rimane il fatto che la conoscenza attuale del mezzo interstellare, che si trova sicuramente in uno stato turbolento, non è ben definita: conosciamo abbastanza bene che cosa c'è, molto più difficile rimane stabilire, ad esempio, come si son potute formare in esso molecole molto complesse, anche organiche. C'è ancora molto da indagare sulla fisica della materia interstellare: e questo giustifica la cautela e le parziali riserve con cui la proposta di Sciama, sicuramente suggestiva, è stata accolta. Luigi Prestinenza


RISPARMIO ENERGETICO E ora ti riciclo l'elettricità Speciali lampade recuperano il calore
Autore: FURESI MARIO

ARGOMENTI: ENERGIA, RICERCA SCIENTIFICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 002

GLI apprendisti stregoni del Duemila hanno inventato un nuovo sistema per produrre energia elettrica cha sa di magia, non richiedendo il ricorso ad alcuna fonte energetica. La maggior parte dell'energia elettrica fornita per far funzionare milioni e milioni di lampade va sprecata; una lampada alogena da 90 Watt utilizza soltanto il 15 per cento dell'energia che riceve per trasformarla il luce; il rimanente 85 per cento va disperso nell'ambiente sotto forma di radiazioni infrarosse, cioè di calore. Catturare queste radiazioni e ritrasformarle in luce era, sino a poche settimane fa, considerato il sogno fantascientifico di un nucleo di ricercatori; oggi è diventato oggetto di produzione industriale. E' questo il risultato di dieci anni di ricerche ed esperimenti condotti nei laboratori di Schenectady e Cleveland della General Electric statunitense. La trasfomazione delle radiazioni infrarosse in onde luminose è stata ottenuta rivestendo la lampada con un sottilissimo strato di un composto che, funzionando da filtro, lascia passare le radiazioni luminose mentre blocca e riflette quelle infrarosse; queste ritornando all'interno della lampada, rendono incandescente il filamento o il gas facendolo ridiventare sorgente di luce. Le lampade alogene impiegate negli esperimenti finali sono costituite da due bulbi concentrici, uno dei quali, l'esterno, è di vetro mentre l'altro è di quarzo. Quest'ultimo contiene il filamento o il gas incandescenti ed è quindi la lampada vera e propria, mentre il bulbo esterno funziona da superficie riflettente delle radiazioni infrarosse. Esso viene rivestito da uno strato sottilissimo e omogeneo, in grado di resistere a temperature di tremila gradi. La sua deposizione avviene secondo una tecnica inventata dai ricercatori della General Electric e chiamata Cvd, ossia deposizione chimica allo stato di vapore; tecnica che è stata determinante per il successo delle ricerche e che si concretizza nella deposizione di una quarantina di strati di composto chimico segreto. Ogni strato ha lo spessore di un decimillesimo di millimetro ed è alternativamente dotato di un debole o di un forte indice di rifrazione. Ricordiamo che la rifrazione determina fra l'altro la riflessione totale dei raggi luminosi. La composizione chimica degli strati, il loro spessore e il loro numero sono determinanti per rendere il filtro trasparente alla luce meglio del vetro e riflettente gli infrarossi meglio di uno specchio. Le lampade alogene di questo genere diffondono la luce con la stessa intensità delle lampade ordinarie ma risparmiando il 60 per cento di energia elettrica. Alla General Electric sono in corso ricerche per estendere la capacità di riciclaggio ad ogni tipo di lampada anche se di forma diversa dal tradizionale bulbo. Mario Furesi


ORIENTAMENTO Con la bussola in testa Trovati cristalli di magnetite nel cervello umano
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: KIRSHWINK JOSEPH
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 003

ORGANI diversi in alcuni uccelli - ad esempio nei piccioni - nei pesci e persino nelle api contengono microscopici cristalli di un sale di ferro, la magnetite, che si trova, tra l'altro, nelle miniere a cielo aperto dell'Isola d'Elba. Come dice il nome, questo minerale ha proprietà magnetiche, cioè in grado di attirare oggetti contenenti ferro e di interagire con il campo magnetico terrestre. Anche certi batteri, come l'Aquaspirillum magnetotacticum, contengono cristalli di magnetite. A cosa servono? Nell'ultimo caso la risposta è semplice: i cristalli ferrosi trasformano i batteri in aghi da bussola naviganti nel fluido acquoso di altri organismi. La presenza dei cristalli di magnetite è essenziale per l'orientamento dei piccioni e dei pesci nell'aria come nell'acqua. La distruzione degli organi che li contengono porta a un semplice disorientamento. Un recente articolo pubblicato dalla prestigiosa rivista Proceedings of the National Academy of Science degli Stati Uniti, firmato da un geobiologo, Joseph Kirshwink e dai suoi colleghi del Californian Institute of Technology (Caltech), annuncia la scoperta dei cristalli di magnetite nel cervello umano. Come si è giunti a una scoperta del genere? L'ispirazione venne da risultati ottenuti usando una tecnica ormai comune nelle cliniche neurologiche di tutto il mondo, la risonanza magnetica (Mri = magnetic resonance imaging) nucleare. Con essa si ottiene un'immagine assai precisa di varie fette del cervello in un soggetto vivente. Esaminando accuratamente alcune immagini, Kirshwink giunse alla conclusione che certe ombre potevano esser causate solo da materiale ferro-magnetico. La Mri è sensibilissima ai metalli e difatti durante l'esame i pazienti vengono privati, anche per motivi di sicurezza, di ogni oggetto metallico. Per dimostrare definitivamente la presenza di cristalli ferrosi nel cervello gli scienziati svilupparono due tecniche diverse. La prima permetteva di preparare opportunamente materiale cerebrale ottenuto da autopsie o da animali evitando accuratamente ogni contaminazione prodotta da strumenti metallici o da polvere. La seconda permetteva un esame diretto sotto il microscopio elettronico di minutissimi frammenti di tessuto cerebrale ottenuti mediante centrifugazione. Sotto il microscopio elettronico apparivano corpi scuri uguali a quelli trovati precedentemente pure al Caltech in alcuni batteri. Se queste particelle sono veramente accumuli di ferro presenti nel tessuto nervoso dobbiamo cercare di capirne la funzione. Ad esempio, i campi elettromagnetici deboli generati da linee ad alta tensione sono stati incolpati di facilitare l'insorgenza di tumori, soprattutto cerebrali, e della leucemia. La questione è ancora vivamente dibattuta dagli specialisti. Potrebbero tali campi magnetici interagire anche con i cristalli di magnetite scoperti ora nel cervello? Il materiale ferroso intracerebrale pone anche la questione di minuti campi elettromagnetici generati nel medesimo tessuto e captabili appunto mediante il Mri. Quali sarebbero gli effetti biologici di questi microcampi naturali? Prima di tutto potrebbero facilitare l'interazione con altri campi magnetici esterni o avere un effetto sulle onde elettromagnetiche generate normalmente dallo stesso cervello, misurabili con l'elettromagnetogramma e usate per la diagnostica clinica. Secondo alcuni critici dei risultati di Kirshwink, il cervello conterrebbe quantità di una proteina, sufficiente a spiegare la presenza del ferro e le ombre viste con l'Mri. In altre parole la magnetite trovata dagli scienziati del Caltech non sarebbe altro che ferritina di deposito. Poiché sembra difficile trovare una funzione per la magnetite cerebrale analoga a quella di bussola naturale nei piccioni e nei pesci, ci si chiede se questi depositi ferrosi non rappresentino solo un residuo evoluzionistico lasciatoci dai nostri antenati. Disgraziatamente gli esseri umani sono molto meno abili dei pesci e degli uccelli nell'orientarsi in percorsi lunghi senza l'aiuto della vista, di carte o appunto della bussola. Visto che le migrazioni umane non richiedono questo tipo di strumento è possibile che l'evoluzione ne abbia annullata la funzione lasciandocene solo il ricordo. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois


INQUINAMENTO Quando la pianta soffoca Attraverso le foglie i veleni attaccano le cellule
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, BOTANICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 003

NON solo l'uomo e gli animali, ma anche i vegetali soffrono a causa dell'inquinamento atmosferico: chiunque possegga una pianta sempreverde sul proprio terrazzo avrà notato come le foglie si ricoprono di una spessa patina nera; questa rallenta o, addirittura, impedisce la respirazione e la fotosintesi. Fin dal 1940 sono state segnalate sulle foglie di petunia, di lattuga, di spinacio, di indivia, di bietola da orto e da coste fenomeni di vitrescenza, colorazioni argentee o bronzee attribuite genericamente allo smog di cui successivamente sono stati identificati i componenti specifici più dannosi: l'ozono e il Pan (perossiacetilnitrato) provenienti dalla reazione tra ossidi di azoto e idrocarburi non saturi. I sintomi che si manifestano sulle piante dipendono dalla maturità dei tessuti, dalla concentrazione e dalla natura della permanenza dei gas tossici nell'aria. In base alle ricerche condotte in laboratori specializzati italiani e stranieri utilizzando apposite celle in cui sono introdotti i gas che vengono studiati, e con il ricorso ad elementi mancanti, è risultato che nel caso del Pan valori compresi tra 500 e 100 pphm per trenta minuti causano il collasso dei tessuti; invece concentrazioni intorno a 10 pphm determinano clorosi. Sono state anche compilate tavole in cui sono raccolti i sintomi tipici presenti dalle varie colture. Le foglie dell'erba medica, una delle piante maggiormente sensibili, diventano gialle e gli apici bianchi, quelle del frumento presentano striature necrotiche e clorotiche sulla pagina superiore, quelle della dalia assumono un aspetto particolare come se fossero bagnate, quelle della zinnia e del crisantemo si colorano di marrone, quelle del pomodoro e dello zucchino divengono maculate di bianco, quelle dell'orzo mostrano bande di colore simile al tartaro, quelle del Kentia, una palma, assumono dimensione maggiore e colorazione verde intensa. Come agiscono i gas inquinanti? Essi penetrano attraverso gli stomi, aperture localizzate nelle foglie, e una volta raggiunta la camera sottostomatica attaccano le cellule del mesofillo. La permeabilità della foglia risulta danneggiata permettendo, come conseguenza, l'ingresso di un eccessivo quantitativo di acqua nella cellula che assume un colore brillante; quindi compaiono nel cloroplasto (organulo contenuto nelle cellule e che contiene la clorofilla) piccoli granuli visibili al microscopio; questi, in seguito, assumono aspetto cristallino alterando la forma dello stesso cloroplasto, che perde la sua integrità e va incontro alla rottura della membrana. I cambiamenti istologici e i danni visibili nelle piante sono prodotti dall'alterazione di alcuni processi metabolici quali la respirazione, la fotosintesi, la sintesi delle proteine e dei carboidrati e l'attività enzimatica. A quest'ultimo riguardo, ad esempio, viene ossidato il gruppo sulfidrilico negli enzimi che lo posseggono e viene inibita la formazione di un enzima, la fosfoglucomutasi, indispensabile per la sintesi del glucosio e di altri carboidrati costituenti la parete cellulare; la loro mancanza impedisce l'accrescimento della cellula. Inoltre è stato trovato che l'inspessimento delle pareti cellulari, e quindi la variazione di plasticità della cellula, in presenza del Pan non avviene in quanto è bloccata la sintesi della glucanidrolasi, un enzima che regola la produzione di un ormone responsabile di tutto il processo. Elena Accati


PRO & CONTRO "Trapianti? Io difendo il babbuino" Questa la posizione dei militanti animalisti
AUTORE: CAVALIERI PAOLA
ARGOMENTI: BIOETICA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 003

ALCUNI autorevoli studiosi di bioetica hanno sottolineato la distinzione tra essere "umani" in senso biologico - cioè membri della specie Homo sapiens - ed essere «umani» in senso filosofico - cioè esseri razionali, autonomi, e così via. Non solo Peter Singer, autore del saggio Liberazione animale, ma anche Michael Tooley e James Rachels hanno messo in discussione la radicata credenza che il solo fatto di appartenere a una specie diversa dalla nostra costituisca una differenza moralmente rilevante. Il babbuino che dovrebbe fornire il cuore per il trapianto su un bambino di recente ipotizzato (vedi Tuttoscienze del 17 giugno) è un essere in grado di soffrire, autocosciente, altamente dotato dal punto di vista mentale ed emozionale. Il suo utilizzo in ambito medico-scientifico gli ha già probabilmente causato la perdita di ogni legame familiare e sociale, della libertà e di qualsiasi cosa assomigli a una vita decente; se il trapianto verrà compiuto, gli causerà una morte prematura, e verosimilmente stress e angoscia, se non dolore. Ora, noi non riterremmo lecito trattare nello stesso modo un umano del medesimo grado di sensibilità ed intelligenza. Noi reputiamo che gli altri esseri umani non siano mezzi per i nostri fini, e consideriamo talmente inammissibile l'idea di utilizzarli come strumenti di ricerca o come riserve di organi da porci problemi etici anche in casi come quello di Valentina, la bambina nata anencefalica e dunque del tutto priva di coscienza. Ma se la specie non è in sè moralmente rilevante, che cosa giustifica la differenza di trattamento? Da Aristotele in poi, è riconosciuta come regola fondamentale del ragionamento morale la norma che casi simili vanno trattati in modo simile. Che cosa, a parte il fatto di non essere un membro della nostra specie, differenzia il babbuino scelto per il prelievo del cuore da un essere umano di pari livello mentale, per esempio da un ritardato mentale grave? Il principio formale di giustizia non ci dice come gli esseri vadano trattati, ma implica che ogni differenza nel loro trattamento richieda una giustificazione. Chi voglia continuare a sostenere che è lecito usare gli animali come strumenti, mentre non è lecito fare lo stesso nel caso di membri ritardati dalla nostra specie, ha di fronte a sè due possibilità. O deve argomentare che l'appartenenza di specie è sufficiente a fondare la discriminazione, nel qual caso avrà poi dei problemi ad attaccare la discriminazione basata su altre caratteristiche biologiche, quali la razza o il sesso; o deve individuare una caratteristica moralmente rilevante posseduta da tutti gli umani, inclusi i bambini come Valentina, e non posseduta da alcun animale, inclusi gli scimpanzè. Se, come credo, nessuna delle due alternative sarà percorribile, l'unica strada aperta per chi accetti una bioetica laica sarà quella di riconsiderare radicalmente lo status morale del babbuino - e di tutti i non umani. Paola Cavalieri Direttrice di "Etica e Animali"


VELENOSO Attenti a quel grosso ragno rosso-giallo-grigio che morde come un serpente
Autore: MONZINI VITTORIO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 003

IL morso è repentino e dolorosissimo, al dolore intenso seguono l'arrossamento e il rigonfiamento della zona colpita, la respirazione si fa più affannosa accompagnata da sudorazione e senso di vomito, il dolore permane fortissimo per almeno 48 ore, poi i sintomi regrediscono e scompaiono, di solito entro una decina di giorni. E' ciò che accade dopo la puntura di un ragno velenoso. Questa volta però non si parla della famigerata malmignatta o Latrodectus tredecimguttatus, giunta tristemente agli onori della cronaca per alcuni casi anche mortali in Italia, ma di un'altra specie pressoché sconosciuta anche se quasi ugualmente pericolosa studiata di recente da un'equipe dell'Università di Bologna. Chiracanthium punctorium, questo è il suo nome, è il ragno più pericoloso in Europa dopo la malmignatta, anzi per quanto riguarda l'Europa continentale e centrale è l'unico veramente pericoloso, poiché il primo come è noto è diffuso solo nella parte più meridionale del nostro continente, compresa l'Italia peninsulare. Nel nostro Paese Chiracanthium punctorium è presente pressoché ovunque, dalla pianura alla montagna fino oltre i 1000 metri, il suo habitat d'elezione è costituito da luoghi aperti e prativi, ma si spinge a anche negli orti e nei giardini delle case, persino dentro di esse soprattutto in estate da luglio a settembre quando i maschi effettuano i maggiori spostamenti in cerca delle femmine per l'accoppiamento. L'aspetto del nostro ragno è relativamente vistoso, a partire dalle dimensioni che raggiungono i 17 millimetri nelle femmine e dalla vivace colorazione rosso mattone sul prosoma (la parte anteriore) e gialla con una striscia grigia sull'epistoma (quella posteriore); i maschi di solito sono leggermente più piccoli delle femmine, ma con colorazione più vivace e soprattutto hanno i chiliceri maggiormente sviluppati, ciò non costituisce un fatto secondario poiché sono proprio i maschi i maggiori responsabili di morsi alle persone. Benché la quasi totalità delle specie di ragni conosciuti sia da considerare innocua per l'uomo, alcune di esse sono in grado di inoculare veleni a tossicità veramente elevata: l'apparato velenifero è formato da ghiandole collegate ai chiliceri da un canaletto; all'atto del morso, dopo aver conficcato le punte dei chiliceri, il ragno contrae dei muscoli che consentono di iniettare violentemente il veleno nei tessuti della vittima con un meccanismo sostanzialmente simile a quello usato dai serpenti velenosi. In Italia i casi noti di persone morse da Chiracanthium punctorium non sono molti, ma questo non corrisponde alla reale importanza di questa specie dal punto di vista sanitario; infatti spesso i soggetti colpiti non giungono neanche all'osservazione medica e anche tra quelli che vi arrivano nella maggior parte dei casi non è possibile fornire la diagnosi esatta mancando la cattura del ragno. Vittorio Monzini


Istruzione, salute, lavoro: la telematica spezza l'abbandono delle comunità isolate Il professore? Arriva via satellite Tele-lezioni all'Università delle Hawaii. Nelle isole siciliane diagnosi a mezzo video. L'inquinamento controllato a distanza.
Autore: GIORCELLI ROSALBA

ARGOMENTI: ELETTRONICA, INFORMATICA, COMUNICAZIONI
NOMI: CARASSA FRANCESCO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 004

LA collana di fiori al collo e un computer nella capanna, un hawaiano spiega ad un incredulo giornalista: "Vede, i tam tam li teniamo per fare scena: noi però per parlarci usiamo il satellite". Una barzelletta con un fondo di verità secondo Rochelle Almazor McArthur, ricercatrice dell'Università delle Hawaii. Tutto questo, tuttavia, non nasconde la realtà spesso difficile di gran parte delle piccole isole di tutto il mondo: spopolamento, gravi ostacoli per l'assistenza medica, il lavoro, lo studio. La telematica può migliorare la qualità della vita nelle piccole isole, il convegno internazionale "Isole 2000" tenutosi recentemente ai Giardini Naxos ha fatto il punto della situazione. La rete di telecomunicazioni via satellite si evolve verso sistemi in cui i costi ridotti delle stazioni a terra ne consentono l'utilizzo a piccole comunità (e l'Università delle Hawaii funziona proprio così); ma saranno le fibre ottiche il mezzo di trasmissione del futuro: utilizzando le frequenze dell'infrarosso, circa diecimila volte più alte di quelle del satellite più avanzato, posseggono una capacità di comunicazione infinita; inoltre permettono al segnale di percorrere 200-300 chilometri senza subire attenuazioni e senza bisogno di essere amplificato. Il professore Francesco Carassa, presidente dello Cselt, ne auspica una diffusione capillare e considera il progetto italiano di collegamento tra le città costiere con la posa di un cavo ottico sottomarino un passo importante per il successivo collegamento delle isole. Non solo i messaggi scritti ma addirittura voce e immagini statiche o in movimento possono essere ricondotte a sequenze numeriche trattate dagli elaboratori elettronici per essere scambiate tra gli utenti dei cosiddetti terminali multimediali. Con il completamento della rete telefonica "numerica" a fibre ottiche e con la trasmissione in tempo reale e contemporanea di messaggi multimediali la cui "copia" è una riproduzione fedelissima dell'originale, lo spostamento materiale di persone o documenti sarà sempre meno indispensabile; il telefax non è stato che un assaggio. Il prefisso "tele" accompagna un numero crescente di parole, come telelavoro, telescuola e telemedicina. Nelle piccole isole mancano ospedali e medici specialisti; pochi mesi fa il consorzio "Telemed" ha avviato il progetto "Telemism, teleemergenza per le isole minori" con il collegamento di Lampedusa, Linosa e Ustica alla Usl 58 di Palermo; finora sono stati installati sistemi di teleelettrocardiologia e teleconsulto. I sistemi di teleconsulto possono trasmettere referti medici e immagini anche complesse da utilizzare per fare la diagnosi, come radiografie e Tac che il medico può sottoporre a un collega realizzando un consulto specialistico anche a grande distanza. Questo sistema può inoltre risolvere il problema dell'aggiornamento per i medici di base. " Telemism" sarà estesa a altre isole minori italiane mentre sta per partire un analoga iniziativa in Grecia. La Sip, che partecipa al consorzio "Telemed", ha avviato la commercializzazione delle apparecchiature di telemedicina, uniformando allo standard telefonico le caratteristiche degli elementi prodotti nelle varie case costruttrici. Va aggiunto che al servizio di soccorso danno un importante contributo gli elicotteri, ormai attrezzati centri di rianimazione e pronto soccorso volanti, addirittura "sale parto" con tanto di incubatrice; oltre a costituire un mezzo di collegamento ordinario ora che alcuni modelli, come l'Eh101 dell'Agusta, possono portare fino a trenta passeggeri con bagaglio. Un sistema simile al teleconsulto medico viene utilizzato per la teledidattica, in cui la presenza dell'insegnante è "virtuale", trasmessa agli allievi da una telecamera. La telescuola può essere costituita da più classi su isole diverse che seguono il medesimo programma scolastico: è possibile teledialogare sia con il docente sia con i compagni delle classi parallele. La teledidattica è più efficace se associata all'autodidattica, con programmi software di autoapprendimento guidato. Sono già stati tenuti con queste metodologie corsi professionali nelle isole Eolie e in Sardegna. Infine vi è il telelavoro cioè l'attività che si può svolgere a casa propria o in una unità decentrata tramite un video terminale multimediale collegato con il computer centrale della azienda: due proggettisti, ad esempio, possono discutere sulla base di disegni e fotografie pur rimanendo in località distanti. Dove viene già sperimentato, come in alcune società americane, statisticamente il telelavoro è risultato più produttivo; evita la congestione del traffico cittadino, dunque è meno inquinante, meno costoso e meno " stressante". Tra le proposte di "Isole 2000" vi è la creazione di una rete politico-amministrativa di cooperazione tra regioni insulari europee, per cui esiste già un progetto di ricerca promosso dalla regione autonoma delle Azzorre con il supporto del Centro Europeo per lo sviluppo regionale: il secondo simposio internazionale dedicato a questo tema si terrà in autunno nelle Azzore. Altre idee: lo sviluppo di banche dati e di una cartografia computerizzata; l'incremento del telemonitoraggio ambientale, ossia il controllo del territorio a distanza, una politica globale per la riduzione e lo smaltimento dei rifiuti; "l'univrsità galleggiante" che salperà da Yalta a settembre per toccare i principali porti del Mediterraneo offrendo lezioni di ecologia. Rosalba Giorcelli




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