TUTTOSCIENZE 19 agosto 92


CORROSE DAI VELENI DELL'ARIA ANTICHE VETRATE ADDIO L'ONU: disintegrate in qualche decina d'anni
Autore: ROTA ORNELLA

ARGOMENTI: CHIMICA, ECOLOGIA, INQUINAMENTO, ARTE
ORGANIZZAZIONI: ONU
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 029. Vetrate medioevali d'Europa, cattedrali, chiese

L'allarme è arrivato da una fonte autorevole, l'Onu: migliaia di splendide vetrate medioevali sono in pericolo in tutta Europa; l'anidride solforosa che minaccia i monumenti di tutto il mondo e in particolare del vecchio continente (tra le nazioni colpite l'Italia, la Grecia, la Germania, l'Inghilterra, i Paesi Bassi, la Polonia) sta attaccando in maniera virulente queste delicate opere d'arte, se non si interverrà, e con urgenza, rischiano di scomparire entro pochi decenni. Proprio mentre milioni di turisti, durante l'estate, sostano affascinati alle testimonianze del passato, è bene ricordare questo avvertimento delle Nazioni Unite, contenuto nella pubblicazione "La pollution atmospherique trasnsfrontiere", secondo volume della collana "Etudes sul la pollution atmospherique". Il potenziale corrosivo naturale nell'aria dpende strettamente dalla presenza di agenti chimici capaci di attivarlo; per esempio, osservando quel che accade alle vestigia storiche e culturali in località marine, si può constatare quanto siano diversi gli effetti del sale da quelli degli inquinanti industriali. Fra tali sostanze, le più terribili sono l'ozono, le polveri acide o acidificanti, l'anidride solforosa, gli ossidi di azoto. Questi due elementi in particolare non solo intaccano direttamente la superficie dei materiali, ma danno origine a solfati e nitrati, i quali sotto forma di pulviscolo oppure di acido solforico o nitrico sciolto nella pioggia e nella neve, non di rado percorrono grandi distanze, finendo con il deteriorare anche monumenti e costruzioni in luoghi molto lontani dalla fonte di emissione. Pur privilegiando l'adozione di misure in sede locale, è questa una delle ragioni principali per concentrare misure antinquinamento che si coordinino su scale come minimo interregionale, meglio se a livello sovrannazionale. Sulle superfici calcaree, o in arenaria, o in qualsiasi altro tipo di pietra il cui fattore agglomerante sia il carbonato di calcio, i meccanismi di danneggiamento dell'anidride solforosa e dei depositi acidi (o acidificanti) del'atmosfera consistono normalmente in una serie di reazioni che conduce alla formazione di solfato di calcio. Ciò produce lo sfaldamento della superficie, la comparsa di croste nere di solfato di calio, nonché l'avvio di una tensione meccanica tale da disintegrare, nel tempo, la struttura della pietra. Successivamente compaiono gonfiori e defoliazioni, la superficie si frantuma e, da ultimo, la costruzione finisce con il precipitare sotto le intemperie. I guasti causati a questo genere di materiali dalla cristallizzazione dei nitrati sono conosciuti da tempo. Nonostante siano essenzialmente legati alla capillarità, a volte i danni si manifestano su zone di muro molto distanti dal punto di contatto con l'umidità del suolo. Non si conoscono in quale misura gli ossidi di azoto dovuti all'inquinamento atmosferico contribuiscano al progressivo degrado; ricerche sono in corso da anni per cercare di individuare il loro grado di responsabilità, che si presume non indifferente. Lo studio dell'Onu riferisce poi alcuni esempi di deterioramento causato specificamente dall'anidride solforosa: l'Acropoli e altre vestigia storiche ad Atene, il Colosseo e l'arco di Tito a Roma, la basilica di San Marco ed alcuni edifici a Venezia (intaccati soprattutto dalle sostanze inquinanti emesse dai complessi industriali a Nord della città), i monumenti e i plurisecolari palazzi di Firenze, il duomo di Colonia, alcune cattedrali inglesi, il palazzo reale di Amsterdam, certe antiche costruzioni di Cracovia (che, sfuggite ai bombardamenti durante l'ultima guerra, rischiano di soccombere ai veleni provenienti dall'attività industriale degli stabilimenti di Nowa Huta). Ragioni di allarme ancora più grave ci sono per le vetrate medioevali. In Europa ne esistono oltre 100.000, alcune delle quali millenarie. Come risulta pure dagli archivi, la maggior parte di esse è arrivata in buono stato fino all'inizio del nostro secolo ma negli ultimi 30 anni il processo di degrado sembra essersi talmente accelerato da indurre a temere, in assenza di provvedimenti efficati e tempestivi, la loro totale scomparsa entro qualche decina di anni. Minacciate in modo molto serio le vetrate dell'ottavo e del diciassettesimo secolo perché, nel realizzarle, si urarono ossidi di potassio e di calcio in quantità maggiore che non nelle altre: la conseguenza è che, su queste superfici, l'anidride solforosa e l'acido solforico assumono ora un effetto "decapante" (cioè raschiano colori e linee). Il rivestimento igroscopico accelera la decomposizione; lo stato dipinto si squama, mentre il vetro prima si fende e poi si rompe in tanti piccoli pezzi. Dell'inquinamento atmosferico risentono persino gli oggetti custoditi all'interno di musei e archivi. Ricerche specifiche in tale settore sono state avviate nelgi ultimi anni in alcuni Paesi. L'azione delle sostanze solforose sul cuoio e sulla carta pare ormai accertata. Pelli e carta antiche reagiscono all'anidride carbonica screpolandosi e, in seguito, anche sminuzzandosi. Particolarmente delicata sembra la carta fabbricata dopo il 1750, in quanto conterrebbe impurità metalliche in grado di trasformare l'anidride carbonica in acido solforico. Ornella Rota


COME VIAGGIA LA ZANZARA TIGRE Dall'Asia a Genova dentro un copertone Forse con lo stesso mezzo ha raggiunto Usa e Brasile
Autore: STELLA ENRICO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, MEDICINA E FISIOLOGIA, ANIMALI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 029

La sua livrea zebrata bianca e nera è elegante e non priva di grazia, ma il nomignolo di "zanzara tigre" rende bene l'idea dell'aggressività e incute subito timore. Chi ne ha provato la puntura, inferta brutalmente in pieno giorno, asserisce che è molto dolorosa. Il nome specifico di questo culicide, Aedes albopictus, si ispira invece al disegno bianco che peraltro si osserva, con alcune varianti, in diversi congeneri. Il carattere distintivo più sicuro è la candida stria longitudinale che attraversa il torace, proprio al centro, dalla parte del dorso. Originario dell'Asia sud-orientale, fino a due anni fa il ditterio incriminato era sconosciuto in Italia. Il ritrovamento del primo esemplare a Genova risale al settembre 1990, ma non ha colto di sorpresa gli entomologi, ormai preparati a eventi come questo: negli ultimi 25 anni, per l'intensificarsi degli scambi commerciali, sono state introdotte accidenalmente no nostro Paese più di quaranta specie di insetti esotici, la maggior parte emitteri (soprattutto cocciniglie nocive alle piante). Tra le zanzare femmine catturate a Genova, c'era un solo esemplare di Aedes albopictus; il biologo Valter Raineri del Museo civico di storia naturale "G. Doria", ne accertava l'identità e coinvolgeva nelle successive indagini il direttore dell'Istituto di parassitologia dell'Università di Roma, Mario Coluzzi, uno dei massimi esperti mondiali di culicidi, e Adriana Sabatini, primo ricercatore dell'Istituto superiore di sanità. Si trattava di stabilire innanzitutto se il reperto fosse sporadico o se esistessero già sul posto focolai di sviluppo della zanzara asiatica. Ma per saperne di più occorreva attendere il ritorno della primavera, perché fin dall'inizio di ottobre la riduzione delle ore di luce provoca in questo insetto l'arresto del ciclo riproduttivo, mentre le uova deposte, resistenti anche al freddo, si preparano a svernare in uno stato di vita latente. Una rigorosa indagine a tappeto, svolta tra il giugno e settembre 1991, permise di catturare numerose femmine di albopictus, intente a pungere, in tredici zone di Genova, mentre venivano identificati tra focolai larvali. Nelle originarie foreste asiatiche il culicide è squisitamente arboricolo, cioè si evolve in piccole raccolte d'acqua piovana nelle cavità cariose degli alberi; ma il segreto del suo successo e della facile conquista di nuovi territori sta nella straordinaria adattabilità. Qualsiasi contenitore, come un barattolo aperto, abbandonato tra i rifiuti urbani, può trasformarsi in un'accogliente nursery per le larve. A Genova gli stadi giovanili dell'insetto avevano alloggio in un secchio, già usato per il catrame, in cui era penetrata un po' d'acqua, in un tombino a mezzo metro di profondità, e perfino nei sottovasi di piante ornamentali. Ma la diffusione della specie a grandi distanze avviene spesso in modo assai curioso, per trasporto passivo, non previto dai canoni naturali. Le uova vengono deposte su superfici umide e la schiusa può tardare di alcuni mesi, in attesa della pioggia. Tra i supporti artificiali per l'ovodeposizione, i copertoni di automezzi, esposti all'aperto, hanno assunto un ruolo primario; le uova embrionate rimangono quiescenti sulle loro pareti interne, protette appena da una vena di umidità, e grazie al commercio internazionale di pneumatici usati possono approdare presto in altri continenti. Così la zanzara tigre, dopo aver esteso i propri domini in Oriente, ha conquistato gli Stati Uniti d'America e il Brasile, probabilmente a partire dal 1983, e cinque anni fa è stata vista in Albania. Genova non è la sola città italiana interessata dall'infestazione: proprio nei giorni scorsi il giologo Gianluigi Dalla Pozza ha rivelato l'esistenza di alcune decine di focolai di albopictus in provincia di Padova, dove l'insetto era comparso già nell'estate scorsa. Si sa che la zanzara in questione è in grado di trasmettere il virus della dengue, una malattia che si manifesta talora in forma emorragica grave. Ma il rischio è remoto per il nostro Paese, dato che l'agente virale circola normalmente soltanto nelle regioni tropicali e subtropicali. E' probabile invece che si verifichi in Italia un aumento dei casi di filariosi umana. Questa affezione è causata da sottili vermi parassiti del genere Dirofilaria, che allo stato larvale (microfilarie) invadono il circolo sanguigno; colpisce soprattutto i cani, ma può essere trasmessa all'uomo, nel cui organismo induce la formazione di noduli sottocutanei, sottomucosi o polmonari. Recenti prove di laboratorio, condotte nell'Istituto di parassitologia dell'ateneo romano, da un'equipe guidata dal Gabriella Cancrini, hanno accertato che il nuovo culicide (che punge sia il cane che l'uomo) è un vettore ideale di microfilarie. La lotta contro la zanzara è in corso fin dal momento in cui se n'è scoperto il primo esemplare, ma gli esperti non sono ottimisti: l'ampia varietà di focolai larvali utilizzabili dalla specie e la resistenza delle uova all'essiccamento e al freddo rendono difficile l'impresa e fanno temere un'ulteriore avanzata del nemico nel nostro territorio. Enrico Stella Università di Roma


AD EUROPA E USA Dai russi parte un appello: mettiamoci insieme per la conquista di Marte
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: BALENOV VIACESLAV
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 029

Alle 3 e 5 minuti di lunedì 10 agosto, notte di San Lorenzo, il cielo del Kazakhstan è stato attraversato, insieme con le stelle cadenti, anche dalla capsula russa Soyuz TM-14. Era la conclusione della missione "Antares" che riportava a Terra Aleksandr Viktorenko e Aleksandr Kalery, insieme al francese Michel Tognini. Qualche ora prima si era staccata dalla stazione Mir, ora affidata ad Anatoli Soloviov e Serghei Avdeiev. Appena due giorni prima aveva atterrato a Cape Canaveral lo shuttle americano "Atlantis" di ritorno da una brillantissima missione durante la quale era stato (solo parzialmente) dispiegato il satellite Tethered. Il clamore e la comprensibile curiosità che hanno circondato in Italia la missione americanta co Franco Malerba, il nostro primo astronauta, hanno fatto passare "Antares" sotto silenzio; forse dopo il drammatico rientro a Terra alla fine di marzo di Serghei Krikaljov, " l'astronauta dimenticato", coinvolto nella fine dell'Urss e nelle beghe dei nuovi Stati della Csi che non riuscivano a mettersi d'accordo per organizzare la missione di recupero, molti si erano convinti della fine delle attività spaziali nell'ex Urss; questa missione, definita perfetta anche dai francesi che per farvi partecipare uno dei loro hanno pagato 12 milioni di dollari, mostra che gli ex sovietici non hanno nessuna intenzione di buttar via la loro supremazia in questo settore-chiave della ricerca. Le difficoltà finanziarie sono una realtà, le beghe anche; ma Mosca ha colto l'occasione di questa nuova missione per ricordare i suoi programmi e sottolineare di essere pronta a collaborare, con chiunque. L'obiettivo numero uno è Marte, per la cui espolorazione i russi sono in largo vantaggio su tutti; nel 1994 hanno in programma di inviare sul pianeta rosso due sonde automatiche. In una intervista alla Komsomolskaya Pradva il vice direttore dell'istituto scientifico di Mosca per le ricerche spaziali, Viaceslav Balebanov, ha illustrato il progetto e ha aggiunto che "sono in corso trattative con il Giappone e alcuni Paesi europei per una loro eventuale partecipazione all'organizzazione di un altro lancio di due sonde fissato per il 2001". Quanto all'esplorazione umana del pianeta, essa è prevista per il 2015 - 2017. Le lunghe permanenze di astronauti russi sulla Mir, con il record di Vladimir Titov e Musa Manarov (366 giorni) hanno proprio lo scopo di preparare il terreno al viaggio marziano, che durerà quasi tre anni. " Auspichiamo - ha concluso Balebanov - l'unione degli sforzi dell'Europa, degli Usa e dei Paesi della Csi per attuare il grandioso progetto". Vittorio Ravizza


CELLE A COMBUSTIBILE Dal metano elettricità pulita Nessuna combustione, la corrente si genera per via chimica. A Milano la prima centrale in funzione dal prossimo anno
Autore: PAPULI GINO

ARGOMENTI: ENERGIA
ORGANIZZAZIONI: ANSALDO
LUOGHI: ITALIA, MILANO (MI)
TABELLE: D
NOTE: 030

Un secolo e mezzo fa il fisico inglese William Grove, nello studiare l'elettrolisi dell'acqua con l'impiego di elettrodi di platino immersi in acido solforico diluito, si accorse che, arrestando l'alimentazione dell'energia elettrica, si verificava nel circuito una corrente in uscita, generata dalla ricombinazione dei gas (idrogeno e ossigeno) già separati. Era la prima constatazione sperimentale del principio elettrochimico che sta alla base della cella a combustibile ("fuel cell"): principio che si potrebbe definire, infatti, una "elettrolisi alla rovescia" o, anche, una " pila ad alimentazione chimica esterna" in cui si ottiene la generazione diretta di elettricità dall'energia chimica di un combustile e di un comburente. La circostanza che tale generazione avvenga con rendimento elevato e in assenza di fiamme e di emissioni inquinanti, rende il processo migliore di quelli tradizionali, ma per un insieme di ragioni che non è possibile spiegare in poche parole, le sue applicazioni pratiche hanno tardato a concretizzarsi, restando confinate nel campo spaziale, ove il fattore costo non rappresenta uno ostacolo determinante. Solo in tempi recenti, anche a causa dei sempre più gravosi problemi enegetici ed ecologici, le celle a combustibile hanno ricevuto l'attenzione che meritano; tanto che, oggi, esse sono giunte a costituire concretamente l'alternativa più valida di produzione "pulita" dell'energia elettrica. Questo giustifica gli sforzi di ricerca e di sperimentazione perseguiti da grandi gruppi industriali giapponesi, americani ed europei i quali, sviluppando tecnologie di vario tipo hanno - al momento - l'obiettivo primario della costruzione di impianti modulari con potenze dell'ordine di un megawatt. Questa dimensione sembra la più adatta a soddisfare le esigenze di una rete interconnessa basata su " centrali di quartiere" non presidiate e coordinate da una stazione comune di controllo. Il primo e più grande impianto europeo di questo tipo (1002KW elettrici), terzo nel mondo, è in montaggio a Milano ad opera dell' Ansaldo e con la collaborazione dell'Enea e della AEM (l'Azienda municipalizzata milanese cui la centrale è destinata). E' del tipo cosiddetto " ad acido fosforico", caratterizzato da temperature di funzionamento piuttosto basse e da un rendimento elettrico globale prossimo al 50%. L'acido fosforico costituisce l'elettrolita della cella, al cui anodo affluisce un gas ricco di idrogeno - ottenuto dal "reforming" del metano - ed il cui catodo utilizza l'ossigeno contenuto nell'aria. Le celle erogano corrente elettrica continua che viene convertita in alternata a 50 Hz per renderne possibile la messa in parallelo alla rete. Il calore che si genera nella reazione elettrochimica costituisce un "sottoprodotto" economicamente importante in un programma di cogenerazione quale è quello di Milano. Elevata efficienza elettrica, minimo impatto ambientale, assenza di macchine rotanti "salvo le pompe", flessibilità d'uso e dimensioni contenute rappresentano le carte vincenti del sistema. Ad esse si aggiunge la considerazione che l'impiego di molte piccole centrali al posto di poche grandi consentirebbe notevoli riduzioni nelle perdite dovute a trasformazioni di voltaggio, trasporti in rete e trasferimento del calore disponibile alle utenze. La nuova centrale di Milano, che entrerà in funzione il prossimo anno, costituisce dunque una verifica importante della fattibilità di un vasto disegno concepito dalla Clc - società formata dall'Ansaldo ( 75%) assieme alla americana Ifc e alla giapponese Toshiba - per la graduale sostituzione della produzione di energia elettromeccanica con energia elettrochimica in centrali di piccole dimensioni. Gino Papuli


QUATTRO TIPI Alla ricerca della formula migliore
Autore: G_P

ARGOMENTI: ENERGIA
ORGANIZZAZIONI: ANSALDO
LUOGHI: ITALIA, MILANO (MI)
NOTE: 030

Le celle "a combustibile" sono dispositivi generatori di energia elettrica a spese di energia chimica, senza passare attraverso lo stadio della combustione. La caratteristica della continuità di funzionamento le distingue nettamente dalle batterie elettrochimiche. Ve ne sono di più tipi. Celle alcaline. Utilizzano idrogeno puro e aria depurata di anidride carbonica; l'elettrolita è idrossido di potassio; la temperatura di funzionamento è di 60-120 gradi C. Hanno elevata efficienza e sono particolarmente adatte per potenze limitate. Vengono usate in missioni spaziali. Celle ad acido fosforico. Utilizzano gas ricco di idrogeno ed aria non trattata; l'elettrolita è acido fosforico, la temperatura di funzionamento sta tra i 150 e i 230 gradi C. Hanno ricevuto un grosso impulso di ricerca a partire dagli Anni 70 e sono, difatti, quelle la cui tecnologia è più sviluppata. Potendo usare combustibile e comburente non puri, si prestano bene ad usi industriali e mirano a dimensioni di elevata potenza. Celle a carbonati fusi. Utilizzano gas ricco di idrogeno e aria; l'elettrolita è costituito da carbonati di litio e potassio; la temperatura di funzionamento sta sui 600 - 700 gradi C. Benché ancora allo stadio sperimentale, le eccellenti prestazioni le fanno considerare come celle di seconda generazione. Celle ad ossidi solidi. Utilizzano gas, ricco di idrogeno e di ossido di carbonio, e aria; l'elettrolita e ossido di zirconio "drogato"; funzionano a temperature di 800 - 1000 gradi C. A caratteristiche molto avanzate uniscono problemi derivanti dalle elevate temperature (queste ultime, tuttavia, potrebbero dar luogo ad ulteriore produzione di energia elettrica a mezzo di vapore). Si trovano ancora nello stadio di sviluppo. g. p.


IN CALIFORNIA Usando una «rete neurale» costruita la macchina che controlla gli assegni
Autore: SCARUFFI PIERO

ARGOMENTI: ELETTRONICA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: VERIFONE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 030

Luglio 1992, la californiana Verifone, specializzata in macchine per la vendita al dettaglio, annuncia di aver costruito un "controllore" di assegni. In ogni supermercato questo apparecchio potrà ora affiancare quello già diffusissimo per la lettura del prezzo della merce e quello in fase di rapida diffusione per il controllo delle carte di credito, e rendere ancora più facile il numero degli assegni. L'apparecchio di Verifone, infatti, sarà in grado di riconoscere automaticamente il numero di serie stampato sull'assegno e di verificare se tale numero di serie è valido (ovvero se l'assegno è "buono"). Forse la Verifone passerà alla storia anche per aver resuscitato l'assegno, che sembrava destinato a scomparire; ma certamente passerà alla storia per aver introdotto il primo dispositivo per uso di massa contenente una rete neurale. Verifone impiega infatti il "Chipi" neurale inventato da Federigo Feggin e da Mead, i due prestigiosi soci della Synaptics. Faggin è uno dei padri del microprocessore, l'oggetto che ha reso possibile il personal computer e che ha cambiato la faccia della nostra società. Non è insomma nuovo a exploit di questo genere. Ci sono voluti cinque anni di sperimentazione ma Synaptics è riuscita a bruciare sul tempo altre società, centri di ricerca e università che ambivano a "piazzare" una loro rete neurale in un apparecchio di uso comune. Verifone è soltanto il primo "cliente" di Synaptics, ma le applicazioni possibili sono infinite. Una rete neurale è sostanzialmente un computer costruito a immagine e somiglianza del nostro cervello. I computer tradizionali hanno poco in comune del nostro cervello, in quanto utilizzano la logica matematica, operano su strutture zero-uno (i "bit"), ed eseguono calcoli logici su tali strutture in maniera sequenziale: qualunque compito il computer debba svolgere deve essere tradotto in una sequenza di istruzioni logiche (ovvero il computer deve essere programmato per risolvere quel compito): una rete neurale è in invece un complesso groviglio di "neuroni" elettronici che si scambiano messaggi. La rete, grazie ad appositi algoritmi, è in grado di apprendere e svolgere un certo compito, ovvero di auto-programmarsi. Tale apprendimento avviene durante una fase di "addestramento", durante la quale le vengono presentati diversi casi nei quali a fronte di una certa situazione si deve compiere una certa azione. La rete neurale, come il nostro cervello, a fronte di quelle situazioni del passato riesce a configurarsi in maniera tale da sapere come reagire in ogni situazione del futuro. In questo caso la rete di Faggin è stata addestrata a riconoscere le cifre da zero a uno. Non è la prima a riuscirci, ma è la prima ad essere miniaturizzata a livello industriale ed è la prima a compiere il riconoscimento con la rapidità dell'occhio umano. In altre parole, e ' la prima ad essere utile per uno scopo pratico. Faggin considera questo chip, e l'applicazione che ne ha derivato la Verifone, come un primo passo in direzione "occhi elettronici intelligenti" (è presto dovremmo vedere anche macchine per riconoscere le banconote e macchine per riconoscere le firme). Analogalmente sono allo studio prototipi de " orecchi elettronici intelligenti" in grado non di l"leggere", ma di " sentire" e riconoscere un suono (per esempio, quello delle monetine che cadono dentro un distributore automatico di bibite). Queste sono tutte attività che il computer tradizionale non può svolgere, ma che rappresentano invece le applicazioni naturali per una rete neurale. Se la tecnologia "neurale" ha compiuto passi da gigante in questi dieci anni, ciò non toglie che ci sia ancora molto lavoro da compiere. In particolare bisognerà portare sul mercato dei chip neurali che possano essere riprogrammati: oggi per cambiare attività bisogna buttare via il chip neurale e costruirne uno nuovo. Piero Scaruffi


CRITTOGRAFIA Il segreto viaggia nel computer Come si proteggono le informazioni riservate
Autore: PETROZZI ELVEZIO

ARGOMENTI: INFORMATICA, ELETTRONICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 030

Lo storico greco Plutarco ci ha descritto la "scitala" spartana, uno dei primi strumenti crittografici. Era una coppia di bastoni perfettamente identici sui quali veniva avvolto un nastro di papiro o di pergamena. Il messaggio veniva scritto sul nastro nel senso della lunghezza del bastone, per cui una volta srotolato presentava un'incomprensibile serie di lettere. Per interpretare il messaggio, il destinatario non faceva altro che riavvolgere il nastro sulla seconda copia del bastone ed il gioco era fatto. Oggi una "cifra" di questo tipo farebbe sorridere anche il cripto - analista meno esperto. Verso la fine del XVI secolo Blaise de Vignere, un diplomatico francese, scrisse il celebre "Traicté des chiffres", una vera e propria summa delle conoscenze crittografiche dell'epoca. In esso il de Vignere, descriveva il cifrario che aveva inventato, basato su una griglia quadrata letterale e su una parola-chiave, ovviamente personale e segreta, unico strumento per scardinare il codice da essa derivante, definito "polialfabetico". Questo cifrario venne a lungo ritenuto inattacabile e solo nel XIX secolo Friedrich Kasiski, un ufficiale prussiano in pensione, sarebbe riuscito ad individuare il metodo per lo smantellamento dei messaggi crittografati con questo sistema. Il metodo di de Vignere, però, è tornato di grande attualità negli ultimi anni, quando si è reso necessario trovare dei principi crittografici utilizzabili dai calcolatori. In effetti l'uso sempre più massiccio di mezzi elettronici per la conunicazione di dati, spesso riservatissimi, e la contemporanea diffusione capillare dei computer, hanno accentuato il bisogno di proteggere le informazioni in maniera, è il caso di dirlo, indecifrabile. La crittografia, come ai tempi di Plutarco, è rimasta l'unico mezzo pratico per trasmettere informazioni lungo canali "insicuri", quali le linee telefoniche, le onde elettromagnetiche, le tratte telegrafiche od altro. Oggi più che mai, però, è necessario che il messaggio si riveli inattaccabile alle più moderne e sofisticate procedure di analisi computerizzata. La chiave di tutto sta sempre nella "chiave", un pessimo giochetto di parole che però chiarisce quale sia il nocciolo del problema. Vi ricordare dello "Scarabeo d'oro" di E. A. Poe e della descrizione minuziosa del metodo utilizzato da William Legrand per decifrare il crittogramma del pirata Kidd? No? Non importa. Basta sapere che l'impresa alla fine riesce perché il crittogramma forniva indicazioni metodiche, una delle prime cose da evitare. E perché il testo crittografico non fornisca nessun appiglio al cripto-analista, la cosa principale è che la chiave deve assolutamente e profondamente essere casuale. E' qui che entrano in scena i computers e la loro innata capacità di generare stringhe casuali di "bit" che poi, opportunamente mescolate con i "bit" del messaggio da trasmettere, costituiscano il "testo" finale. Riguardo alla "chiave casuale" ed alla sua sicurezza, vi sono tre punti che debbono essere rispettati nella sua generazione. Primo: il periodo di eventuale ripetizione della chiave deve essere abbastanza lungo da contenere il messaggio da trasmettere. Due: la chiave deve essere di facile generazione. Tre: la composizione della chiave, "bit" dopo "bit" deve essere assolutamente imprevedibile. Rispetto al primo punto i motivi sono ovvi; in assenza della chiave il crittogramma non deve fornire nessuna informazione sul contenuto del messaggio mentre la ripetizione di un qualsiasi ciclo offre ripetizioni di serie che un esperto analista può utilizzare come base di partenza, come per il Legrand di Poe. Circa il secondo punto, è evidente che la generazione della chiave deve essere non semplice bensì rapida, onde mantenere al messaggio il carattere di immediatezza che spesso la sua decodifica richiede. Sul terzo punto vàstabilito, come norma imprescindibile, che, data una serie di enne-bit, la probabilità di indovinare il valore dell'ennesimo più uno non deve essere maggiore di un mezzo. A tutti e tre questi punti, i moderni calcolatori sono capaci di dare risposte valide ed affidabili. I programmi "generatori di sequenze casuali" più recenti, spesso basati su un polinomio algebrico, calcolano ogni nuovo "bit" sulla base di quelli precedenti e per sfuggire agli attacchi dei cripto-analisti provvedono a fondere in un'unica chiave i risultati ottenuti da più generatori messi, per così dire, in parallelo. Più in dettaglio diciamo che oggi i sistemi crittografici informatici principali sono due: "a blocchi" (block chipers) ed "a flusso" (stream chipers). Nel primo il testo originale viene suddiviso in blocchi che sono poi criptati indipendentemente, ciascuno con una chiave diversa. Nel secondo, invece, si utilizza il metodo "bit-by-bit" accennato precedentemente. Come si è detto, in entrambi i casi la chiave viene introdotta in un "generatore psudo-casuale di bit" che crea la sequenza di segnali binari, la quale viene poi mescolata con il testo originale attraverso semplici metodi informatici (per i tecnici chiariamo: con una porta XOR). A questo punto può sembrare che il sogno millenario dei crittografi sia li ' li ' per essere esaudito e che dalla scitala spartana ai " block chipers" il cammino sia giunto alle soglie del codice perfetto. Si potrebbe addirittura pensare che la crittografia abbia esaurito il suo compito, che non le si possa chiedere più nulla. Purtroppo non è così] I metodi di codifica seguono ormai infinite tecniche matematiche, i "generatori" sono sempre più impenetrabili, ma non è ancora stato trovato il criterio che garantisce la sicurezza assoluta. Elvezio Petrozzi Presidente Associazione Italiana giochi intelligenti.


GEOLOGIA Che sorsprese, il Mar Ligure Due fondali del tutto diversi, a Est e a Ovest. Arenili asimmetrici e relitti svelati dalle correnti
Autore: BINACOTTI AUGUSTO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, MARE, ARCHEOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C.
NOTE: 031

Il mar Ligure non è un'entità ben definita. Secondo alcuni, con questo nome va indicato soltanto lo specchio d'acqua compreso fra la riviera di Levante e quella di Ponente; per altri invece vi corrisonde tutto il bacino nordoccidentale del Mediterraneo. E' meglio optare per una soluzione intermedia e porre il confine occidentale lungo la direttrice compresa fra Nizza e Calvi in Corsica, quella orientale lungo il 43esimo paralleo, fra Capo Corso, la Capraia e la costa toscana. Privo di vere isole, piccolo, considerato un po' monotono, è invece pieno di sorprese. Se un'idrovora gigante bevesse tutta l'acqua che contiene fino a svelarne il fondale, scopriremmo che esistono due mari del tutto diversi, l'uno a Ovest, l'altro a Est dell'asse ideale che unisce l'apice del dito della Corsica con il promontorio di Portofino. A Occidente dell'immaginario spartiacque il mare è profondo fino a 300 metri, il pavimento abissale è inciso da canyon ripidi che divergono a raggiera verso il largo. Pare che forze immani l'abbiano tirato fino a lacerarlo in larghi tagli beanti. A Oriente la platea sottomarina s'innalza invece improvvisa, come se i sedimenti che la ricoprono fossero stati ammassati insieme fino a costituire una coltre spessa e irregolare. Questa vasta piattaforma nel tratto antistante la Versilia emergeva ancora 10.000 anni fa, e prolungava verso Ovest la pianura pisana. Oggi, dopo che la fusione dei ghiacci continentali ha sollevato ovunque il livello marino, affiora soltanto con la piccola isola della Gorgona, ma sfiora la superficie alle Secche della Meloria o al Banco di S. Lucia, e non s'immerge mai al di sotto dei 500 metri. Per capire il perché di questa conformazione occorre tornare indietro di qualche milione di anni, alla ricerca di montagne che non si sono più. Nel sistema di catene che orla il bordo sudoccidentale dell'Europa, fra le Alpi e i Pirenei c'è oggi un largo squarcio quasi pianeggiante: è il "Midi" francese, la Linguadoca, la Provenza, il delta del Rodano. Un tempo il sistema montuoso era un tutto continuo: l'attuale breccia era occupata dalle aspre alture della Corsica e della Sardegna, non ancora isole, ma saldate al bordo meridionale del continente. Poi imponenti movimenti tettonici staccarono dalla terraferma il sistema sardo-corso, lo trascinarono verso Sud-Est facendolo ruotare lungo un ampio arco fino allo spazio che ora occupa. Fu questa deriva lenta e inesorabile a lacerare la crosta terrestre là dove lo stress distensivo fu più energico, fra la costa francese, il Ponente e la Corsica. Fu la conseguenza dello stesso moto a ispessire il fondale ove si applicavano le forze di compressione dovute al fronte isolano che avanzava, fra la Corsica, il Levante e la Toscana. La seconda curiosità è rappresentata dal movimento delle correnti: le più importanti sono due e si muovono in senso opposto. Sotto costa prevale un flusso diretto da Ponente verso il Levante. Il fenomeno appare chiaro a chi dall'alto delle colline affacciate al mare osserva una delle tante falcate di spiaggia che dai Balzi Rossi a La Spezia orlano i cento golfi e le baie racchiuse dai pittoreschi promontori; la forma degli arenili in genere è asimmetrica: iniziano esili e sottili a Ponente, terminano grassi e spessi all'estremità opposta, ove va ad accumularsi la sabbia sospinta dalla corrente. Più al largo, invece, prevale una circolazione ciclonica, diretta in senso opposto da Est verso Ovest, in particolare fra la Corsica e la Riviera di Ponente. L'anno scorso fu la fortuna della Liguria dopo il naufragio della Haven in primavera. Buona parte del petrolio fuoriuscito dalle stive della nave da prima fu sospinto al largo da un provvidenziale vento di tramontana, poi la corrente esterna se ne impadronì e lo condusse fino alle coste di Antibes e di St. Raphael, in Francia, salvando così tutti i nostri arenili da Savona alla frontiera. La terza sorpresa del mar Ligure nasce dall'interazione del gioco delle correnti con i sedimenti deposti sui fondali, con l'insospettata ricchezza di reperti archeologici sommersi. Il fluire delle acque a volte cela, a volte svela antichi relitti affondati nel fronte d'acqua costiero, arenati sui banche e sulle secche, o in bilico al bordo di fosse a precipizio. Al momento sono circa 40 le principali aree dove sono stati scoperti materiali di buon interesse, tutti davanti al Ponente con l'unica eccezione di Portovenere. Sono state ripescate anfore, ancore, attrezzature da pesca, materiali da costruzione. I siti di maggiore importanza restano i relitti di navi e il loro carico, posti di norma fra il miglio e il miglio e mezzo dal litorale, a profondità non superiori ai 40 metri ( ma forse c'è anche di meglio più in basso, dove le esplorazioni sono tutte da compiere). La scoperta più importante è la nave oneraria di Albenga, segnalata una prima volta nel 1925, oggetto di seri lavori di scavo e ricerca solo a partire dal 1950. Il carico di anfore recuperato è oggi conservato nel bel museo della città ligure. Un altro relitto fu segnalato nel 1975 al largo di Diano Marina, una specie di nave cisterna adibita al trasporto di vino. Ma la zona più promettente per il futuro pare essere la rada di Vado Ligure, il Portus Vadorum Sabatium dei romani, protetto a Ponente dall'isola di Bergeggi, luogo di sosta delle imbarcazioni in trasferimento dall'Italia a Marsiglia e oltre verso la Spagna. L'elenco può continuare: a Pula presso Pegli fu recuperato un carico di ceramiche campane databili al 150 a.C., a Portovenere una quantità di laterizi del 200 a.C. uno dei pochi relitti interessanti posteriori al 1000 fu segnalato nelle acque di Varazze nel 1990: si tratta di una nave da cabotaggio che trasportava un carico di ceramiche savonesi. Perché sono così abbondanti le testimonianze romane mentre sono quasi assenti quelle medioevali e posteriori? Di certo nè si navigava nè si naufragava di meno. Forse correnti e fondali hanno congiurato insieme per nascondere sotto la sabbia il naviglio colato a picco più di recente, che seguiva rotte diverse da quelle di mille anni prima? Una volta svelato l'enigma, quali sorprese ancora ci riserverà questo mar Ligure, così domestico, così segreto? Augusto Biancotti Università di Torino


FOGLIE & SICCITA' Piante della resurrezione cioè l'arte di sopravvivere quando manca l'acqua
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA
NOMI: VAZZANA CONCETTA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 031

Esiste un piccolo gruppo di piante (circa 80) finora poco note ma interessanti in quanto hanno foglie capaci di tollerare la disidratazione completa. Queste piante possono rimanere in condizione di morte apparente per periodi anche molto lunghi e tornano a vivere con il ritorno dell'acqua: perciò si chiamano " resurrection". I meccanismi fisiologici legati allo stress idrico sono stati studiati dal gruppo dell'Università di Firenze che fa capo a Concetta Vazzana. Queste ricerche potrebbero avere una risonanza pratica mondiale, dato che in vaste aree della Terra è impossibile praticare qualsiasi coltivazione in quanto piove pochissimo - e anche in località montane note per la loro piovosità si registrano ciclicamente fenomeni di siccità. Le piante resurrection si sono sviluppate in aree geografiche molto distanti tra di loro: la Ramonda myconi viene dalla Jugoslavia, i Ceterach sono felci presenti anche in Italia nelle zone mediterranee, lo Sporobolus stapfianus, una graminacea, è presente nel Sud Africa, la Boea hygroscopica è originaria dell'Australia e fa parte della famiglia delle Gesneriacee, come la violetta africana e la gloxinia, due specie da vaso fiorito molto note e amate. Alcune di queste resurrection hanno foglie strette, a forma di lamina aghiforme, con massicce bande di fibre che corrono immediatamente sotto l'epidermide impregnata di cutina. Gli stomi sono confinati in piccole cavità in grado di chiudersi quando il contenuto idrico della foglia si abbassa al di sotto di certi limiti. Tale chiusura avviene mediante l'unione di propaggini a forma di dente, tipiche delle cellule dell'epidermide presenti sull'orlo della cavità. Tutti questi accorgimenti permettono di rallentare l'essiccamento. Vi e ' inoltre un fitoregolatore che rende la pianta capace di adattarsi alla siccità e al freddo in quanto regola la chiusura degli stomi. Quando il terreno diventa asciutto, nelle radici di piante resistenti alla siccità viene sintetizzato l'Aba, che attraverso i vasi xilimatici arriva alle foglie, dove si accumula nelle cellule di guardia poste intorno agli stomi: li fa chiudere, e così impedisce alla pianta di traspirare eccessivamente. A volte, in condizioni di stress idrico, l'Aba sintetizzato nelle radici agisce come segnale per la chiusura degli stomi anche senza arrivare fino alle foglie. Per questo i genetisti lo utilizzano come parametro su cui basare la selezione delle piante per la resistenza all'aridità. Tra i progetti, c'è anche quello di trasferire attraverso l'ingegneria genetica alcuni geni delle resurrecton nelle piante sensibili alle siccità. Elena Accati Università di Torino


TARTARUGHE MARINE Una sciagura, avere troppe virtù La caccia continua nonostante i divieti
Autore: MORETTI MARCO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI
ORGANIZZAZIONI: CITES
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 031

Il Cites, la Convenzione Internazionale per la protezione delle specie minacciate, ha vietato da alcuni anni ogni forma di commercializzazione delle diverse specie di tartarughe marine. Fra mille riserve, anche il Giappone era fra i firmatari delle convenzione. Solo nello scorso maggio, però, ha deciso di vietare l'importazione dei gusci di tartarughe marine provenienti dal Golfo del Messico. Il carapace della tartaruga costituisce, secondo i giapponesi, il materiale ideale per fabbricare montature di occhiali, portacenere e abat-jour. Nonostante il divieto, il pregiato materiale non scarseggia sul mercato di Tokyo, alimentato continuamente da una sorta di contrabbando ufficiale: chiunque si presenti alla dogana con i gusci ha diritto a introdurli nel Paese purché li dichiari souvenir e si impegni a non rivenderli. Un bluff, che il governo giapponese ha annunciato terminerà entro tre anni, quando l'importazione di gusci di tartaruga sarà completamente bloccata. Perché tre anni? Per permettere agli esperti del settore di individuare un prodotto sintetico capace di sostituire il prezioso materiale senza rovinare gli affari degli artigiani interessati. In attesa di questo sforzo tecnologico, le tartarughe marine continueranno a essere cacciate e uccise. E non solo per il loro guscio: la carne di tartaruga è un piatto da buongustai in diversi Paesi asiatici e dell'America Centrale. In Indonesia, ad esempio, due delle tre specie di tartarughe che nuotano nei mari dell'arcipelago (la tartaruga verde e quella a becco di falco) rappresentano una fonte essenziale di proteine per gli indonesiani, secondo una nota ufficiale del governo di Giakarta. Ambedue le specie, presenti in quei mari in innumerevoli esemplari, non corrono comunque rischi d'estinzione: in diverse isole, gli abitanti proteggono le uova depositate sulle spiagge, per facilitare la riproduzione della specie. Ha invece meno giustificazioni un rito praticato dagli hindu dell'isola di Bali: usano sacrificare le tartarughe, come offerte, sugli altari dei propri dei. Diversa è invece la situazione in America Centro Meridionale, dove alcune specie sono già oggi in pericolo di estinzione, in particolare la Testudo elephantopus delle isole Galapagos e la Dermochelys coriacea. Quest'ultima, inserita dalla Convenzione di Washington nell'elenco delle specie minacciate, si riproduce prorpio nel Golfo del Messico, oltre che in Guyana. E' un animale imponente: da adulto misura fino a due metri di lunghezza e pesa più di 500 chili. E' la tartaruga più grande del mondo. Le sue sorti sono seguite da alcuni anni da Jean Lescure, del Museo di Storia Naturale di Parigi: studia il processo di riproduzione sulle spiagge della Guyana. La conservazione dell'habitat è fondamentale per la protezione di tutte le specie di tartarughe marine. Come tutti i rettili, anche la tartaruga depone le uova su di un territorio asciutto. Gli animali ritornano sempre alla medesima spiaggia. Attraverso la sua ricerca, Jean Lescure ha scoperto che le settemila tartarughe che ogni anno approdano sulla spiaggia della Guyana a depositare le uova, tornano sull'arenile ogni dieci giorni per interrare ogni volta un centinaio di uova. Ma solo il 4% si schiuderanno e una sola tartaruga su diecimila diventerà adulta. Un'altra ricerca condotta dal britannico Department of Life Science del Bromley College of Technology sulle tartarughe marine che popolano diverse isole del mar dei Caraibi e dell'Oceano Atlantico, ha osservato che solitamente questi animali si riproducono sulle stesse spiagge dove sono nati. Ciò significa che distruzione dell'habitat anche di una sola isola azzera la capacità riproduttiva delle tartarughe che vi sono nate. Neanche la tartaruga di mare del Mediterraneo (Caretta caretta) gode di buona salute. In Italia, alcuni esemplari sopravvivono nelle acque della Puglia e della Calabria; è rimasto però un suolo luogo adatto alla riproduzione, l'isola di Lampedusa. Dalla nostrana Caretta fino alle specie più esotiche, le tartarughe marine sono animali che si riproducono molto lentamente: alterare il loro habitat o consumare prodotti che alimentano la caccia di queste specie significa avviare questo animale, simbolo di lentezza, verso una rapida estinzione. Marco Moretti.


ZONE UMIDE Via le paludi largo alle case cattivo baratto
Autore: FABRIS FRANCA

ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 031

Una fascia sfumata segue la linea di separazione fra l'ambiente acquatico e quello terrestre: è la cosiddetta zona umida. L'acqua rimane poco al di sopra o al di sotto della superficie del suolo. La vegetazione che cresce in questa zona particolare vive con le radici nell'acqua e la parte aerea ben illuminata e rigogliosa. Un esempio di quella fascia è il Lido di Venezia. Come per tutti gli ambienti naturali, all'abbondanza di vegetazione corrisponde un'altrettanto abbondante vita animale, sia per le forme acquatiche che per quelle terrestri. Batteri, protozoi, alghe formano un pascolo eccellente per vermi, insetti e altri invertebrati e, di conseguenza, per mammiferi, anfibi e uccelli. Questi ultimi sono gli incontrastati signori delle zone umide: anatre, folaghe, gallinelle, pivieri, beccaccini, cannereccioni. Da alcuni anni si cerca di eliminare acquitrini, canneti palustri, canne, tamerici e di prosciugare una zona del Lido d Venezia, verso Cà Bianca, per destinarla a nuovi edifici. Gli ecologisti si battono affinché le zone umide vengano invece mantenute: esse rappresentano, infatti, una grande fonte di produzione di ossigeno, un filtro all'inquinamento atmosferico e un incremento della fertilità del suolo, data la tendenza ad accumulare sali di azoto, fosforo e potassio. Il confronto fra un campo di grano e un'analoga zona umida conferma nel primo una produzione di materiale organico che va dai 3 ai 10 grammi per metro cubo al giorno, nel secondo da 10 a 25 grammi. Ma le zone umide sono anche luoghi ideali per la nidificazione e la sopravvivenza di molti uccelli. Come disse Leon Lippen: "I monumenti naturali appartengono al patrimonio dell'umanità quanto i monumenti artistici: prosciugare le marinas del Guadalquivir per coltivare il riso è assurdo come demolire la cattedrale di Chartres per coltivare patate". Franca Fabris


GENI & METABOLISMO Solo un bicchiere, siamo giapponesi Perché varia la tolleranza all'alcol e ai farmaci
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: GENETICA, BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 032

La stessa dose di una bevanda alcolica data a un giapponese, a un taiwanese, a un coreano o a un italiano non provoca necessariamente la stessa reazione. E' noto da tempo che esistono differenze connesse con il tipo etnico nel modo di reagire e di metabolizzare l'alcol etilico, differenze che sono molto probabilmente dovute a piccole a importanti differenze genetiche che determinano il modo in cui l'organismo scinde l'alcol. E' noto che alcuni orientali reagiscono con arrossamento, senso di calore al viso, aumento della pressione e della frequenza del battito cardiaco e visibili segni di intossicazione alcolica a dosi anche moderate di bevande alcoliche - che negli individui di origine caucasica, ad esempio, non provocano effetti avvertibili. Anche gli indiani del Nord America e gli esquimesi presentano differenze nella reazione all'alcol, soprattutto nella tolleranza e nel metabolismo. Studi iniziati già negli anni 70 hanno dimostrato che la velocità con cui l'alcol viene eliminato è più alta tra gli americani bianchi che tra gli indiani. I bianchi, ad esempio, potrebbero eliminare quasi 0,15 grammi per chilogrammo di peso ogni ora mentre gli esquimesi arriverebbero a malapena a 0,1 grammi. Tutti questi studi indicano che la differenza potrebbe esser dovuta a variazioni dell'enzima acoldeidrogenasi del fegato. Tale enzima è responsabile della prima reazione chimica che porta all'ossidazione dell'alcol e alla sua trasformazione in acetaldeide, che si localizza nel fegato. Un aumento abnorme di tale prodotto del metabolismo dell'alcol potrebbe esser responsabile di una parte dei sintomi (rossore facciale, aumento della frequenza cardiaca, mal di capo) negli individui meno provvisti dell'enzima alcoldeidrogenasi. Queste differenti reazioni all'alcol hanno implicazioni mediche e sociali. In un Paese multietnico come gli Stati Uniti è naturale che esse siano più notate e meglio studiate che altrove. Nel 1974 un giovane psichiatra taiwanese in servizio nella clinica psichiatrica dell'Università dello Stato di Washington, a Seattle, notò che la dose necessaria per trattare pazienti schizofrenici con un farmaco chiamato aloperidolo, comunemente usato anche in Europa, era almeno dieci volte più alta nei suoi pazienti bianchi rispetto a quella da lui usata in Taiwan con la popolazione locale. Nei pazienti di origine asiatica si otteneva il medesimo risultato terapeutico con un dosaggio assai minore, mentre dosi maggiori potevano esporre il paziente a rischi notevoli, data la loro maggiore sensibilità. Tali differenze erano in un certo modo correlate alla frequenza di particolari anemie mediterranee o di malattie come la Tay-Sachs, che si presenta con alta frequenza negli ebrei. Lo studio di tali malattie ha rivelato sottili ma importanti differenze di carattere genetico. Riconoscendo l'importanza sociale delle osservazioni del medico taiwanese (Keh-Ming Ling) e di altri psichiatri, l'Istituto nazionale per la salute mentale (Mimh) degli Stati Uniti ha deciso di finanziare un centro speciale per lo studio della "psicobiologia dell'etnicità "all'Università di California. Le sue ricerche dovrebbero spiegare perché due pazienti psichiatrici d origine etnica diversa reagiscano ai farmaci in maniera divera - non solo a quelli cosiddetti psicotropici e antischizofrenici come l'aloperidolo, ma anche ai tranquillanti e agli ansiolitici (benzodiazepine). Uno studio compiuto in Giappone indica che la dose di litio usata dagli psichiatri giapponesi nel trattamento di pazienti depressi è assai minore di quella usata in Usa o in Europa. L'ipotesi d Lin è che tra i vari gruppi etnici esistano differenze genetiche anche nel metabolismo e nell'utilizzazione di farmaci psicotropici, analoghe a quelle per l'alcol. Un'altra possibilità non ancora scartata è che esistano invece differenze nel grado con cui tali farmaci si legano alle proteine del sangue o addirittura ai recettori cerebrali, spostando così il discorso del fegato al sangue o al istema nervoso. Differenze di questo genere sono già note per altri tipi di farmaci, ad esempio l'anti-pirina. Studi inglesi dimostrano differenze di sensibilità a questo farmaco non solo tra soggetti britannici e soggetti danesi, ma anche tra sudanesi residenti in Gran Bretagna e sudanesi nei villaggi di origine. In tal caso, però la differenza non sarebbe più di carattere genetico, cioè ereditario, ma ambientale e probabilmente dietetico. Questo esempio illustra la complessità di definire le cause d una diversa reazione individuale a un dato farmaco. Altri esempi derivano dall'esperienza di medici inglesi con pazienti di origine indiana passati da una dieta prevalentemente o esclusivamente vegetariana a una in parte carnivora. Facendo la prova con l'antipirina, si scoprì infatti che gli indiani che avevano abbandonato la pratica vegetariana reagivano a questo farmaco esattamente come gli inglesi. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois


ECCO IL VINO ANACOLICO Tre metodi diversi, un unico risultato
NOMI: FREGONI MARIO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 032

In Italia è sceso di molto il consumo del vino (in compenso oggi si beve un prodotto qualitativamente superiore al passato). Alcuni produttori stano tentando di trovare un rimedio al calo delle vendite e hanno inventato il "vino analcolico" Recentemente a Firenze si è tenuto un convegno internazionale sul tema "Vino, bene o male?" sotto la guida del professor Mario Fregoni, direttore della cattedra di viticoltura dell'università cattolica di Piacenza, da cui è emerso che la quota di alcol da ingerire giornalmente non deve superare i 40 grammi, un bicchiere per pasto. Il vino dealcolato permetterebbe di abbattere notevolmente anche il valore calorico-energetico iniziale del prodotto originale che infatti può arrivare fino a 205 kilocalorie per litro. Ma si può chiamare vino una bevanda senza alcol? Secondo uno studioso di enologia, Pierstefano Berta, della Canei di Canelli, "per la nostra legge non è possibile, mentre in America è permesso, così come in Inghilterra; in Germania tale denominazione è vietata all'interno ma è consentita per l'esportazione". Ma come è possibile produrre vino analcolico senza manipolazioni o aggiunte di sostanze sofisticanti? Tra i metodi utilizzati i più efficaci e noti sono: l'osmosi inversa, la distillazione e l'estrazione con anidride carbonica, tutti metodi che consentono di conservare rigorosamente gli aromi del vino. L'osmosi inversa, la prima tecnica utilizzata nel 1979, è nata per la demineralizzazione delle acque salmastre o salate ed è poi passata all'industria agro-alimentare. Questo processo è basato sull'uso di membrane specifiche; alcune di esse sono in grado di ritenere costituenti come l'etanolo o alcol etilico, altre permettono il passaggio di acqua ed etanolo, trattenendo invece la maggior parte dei componenti del vino. Autori importanti affermano che l'uso dell'osmosi inversa non intacca le carratteristiche organolettiche del succo tanto che, in alcuni casi, è difficile (a parte l'alcol) riconoscere il vino analcolico da quello di partenza. Un'altra tecnologia che permette di abbassare il grado alcolico e che nel contempo dà una bevanda dotata di aromi prefermentativi e fermentativi, è la distillazione sotto vuoto, la tecnica che industrialmente ha oggi l'importanza maggiore. Essa consente di eliminare l'alcol prodotto dalla fermentazione e quindi di ottenere un prodotto fermentato con la concentrazione che si desidera di zuccheri ed eventualmente anche di alcol a basso dosaggio. L'elemento centrale è il dealcolatore, che sottrae l'alcol utilizzando una distillazione che deve avvenire alla più bassa temperatura possibile. Ad Asti il professor Usseglio-Tomaset ed i suoi collaboratori usano una apparecchiatura che permette la dealcolazione a 20[ C per la produzione di vini leggeri, con un grado alcolico intorno ai 5[. Con questa tecnologia si cerca di mantenere l'integrità organolettica del vino dealcolato abbassando la temperatura del vapore e aumentando il vuoto sotto colonna, che permette quindi di abbassare la temperatura dei vapori del bollitore e di conseguenza quella del vino. Confrontando i vini analcolici prodotti con varie tecniche ci si accorge che ogni azienda segue una propria strada, e senza standardizzare la propria metodologia e ciò ha portato ad avere prodotti con composizioni diverse fra loro. Una omogeneizzazione tecnologica arriverà solo quando il mercato aumenterà la richiesta di questa bevanda; allora tutti, quindi anche coloro che per motivi di salute non possono assumere bevande alcoliche, potranno accompagnare il proprio pasto con questo vino gradevole e privo di effetti deleteri. Giorgio Calabrese


LABORATORIO E se diventassimo tutti vegetariani? Incerti tra animali da uccidere e da proteggere
Autore: REGGE TULLIO

ARGOMENTI: BIOETICA, RICERCA SCIENTIFICA, ANIMALI, MALTRATTAMENTI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: 032

CIRCA trent'anni fa un giovane dottore mi diede in lettura una copia della tesi di laurea. Nel volumetto si spiegava in dettaglio come il bravo giovanotto di allora (ora stimatissimo professionista) avesse vivisezionato una trentina di gatti per ottenere dati di scarso valore scientifico. La maggior parte di questi esperimenti non viene pubblicizzata per ragioni ovvie: le associazioni degli animalisti sono sul piede di guerra e premono per la loro messa al bando. Non posseggo dati statistici attendibili e non so se la vivisezione serva solo a glorificare chi la pratica oppure se a volte produce risultati di rilievo. In ogni caso la vivisezione dovrebbe essere limitata a casi di provata necessità e chi la pratica dovrebbe rendere conto pubblicamente del proprio operato. Siamo giunti con questo al tema scottante del trattamento che l'uomo da sempre infligge agli animali. Penso che i tempi siano maturi per una graduale revisione del nostro atteggiamento, ma mi auguro che essa avvenga in modo organico senza indulgere in interventi settoriali clamorosi ma di scarso rilievo pratico. Macelliamo animali in enormi quantità per procurarci carni e tutti abbiamo visto transitare sulle autostrade Tir stipati di bestiame sottoposto a sofferenze inutili. Non vedo via di uscita se non una evoluzione lenta della nostra società verso una dieta vegetariana. A favore di questa tesi utopica ricorderò come, secondo il parere di esperti la riduzione di dieta carnea permetterebbe un utilizzo più efficace ed ecologico delle terre coltivate, che potrebbero essere ridotte di estensione di un fattore otto pur riuscendo a nutrire tutta l'umanità. Le foreste tropicali vengono solitamente bruciate prorpio per essere convertite in pascoli. Uccidiamo gli animali con la caccia oppure inquinando e devastando l'ambiente con una tecnologia ormai fuori controllo oppure ancora per fare pellicce. Circa il 5 per cento degli animali da prova viene ucciso per sperimentare farmaci che rappresentano a volte l'ultima speranza di chi soffre per malattie incurabili. Le aziende che eseguono questo prove portano a termine dei test specificati da direttive Cee e ministeriali, non praticano la vivisezione, usano animali appositamente allevati e sono infine soggette a ispezioni a sorpresa da parte di funzionari sia di enti pubblici sia delle aziende farmaceutiche loro clienti. Da tempo la loro attività viene confusa con quella della vivisezione e sono bersaglio di campagne denigratorie o addirittura di attentati dinamitardi. Altri propongono di eliminare interamente la sperimentazione su animali e di eseguire solamente prove in vitro, che la maggioranza degli esperti non ritiene però ancora sostitutive. Dirò subito che mi sconvolge uccidere animali sia pur per provare farmaci. Rimango tuttavia dell'opinione che la chiusura immediata di queste aziende o la restrizione alla sola sperimentazione in vitro sarebbe controproducente. Di circa 10.000 nuovi farmaci potenziali sintetizzati dall'industria farmaceutica solo 10 giungono alla sperimentazione su animali, per altro estremamente costosa. Di questi in media solo uno supera i test e viene provato su umani sani che si offrono volontari. Se non emergono dati negativi si passa alla sperimentazione clinica, che non è comunque priva di rischi. Se venissero abolite le prove su animali dovremmo eseguirle su umani, con rischi non indifferenti. Potremmo puntare direttamente alle prove cliniche o smettere di fabbricare nuovi farmaci. La morte di un paziente per carenza di farmaci ha tuttavia tutti gli svantaggi della sperimentazione senza averne i vantaggi. Meglio di una proibizione assoluta sarebbe ampliare il più possibile quei test in vitro che possono mettere immediatamente in evidenza le caratterisiche negative di un farmaco e ridurre le prove sugli animali. Infine il rapido sviluppo della biologia molecolare fa ritenere prossima la creazione di una nuova serie di farmaci mirati derivati da biomolecole attive nell'organismo umano, ad esso specifiche e per cui sarebbe inutile la sperimentazione animale. Si assisterebbe in questo modo alla scomparsa graduale della chemioterapia tradizionale. Ma già si sentono proteste contro l'ingegneria genetica, che renderebbe possibile questa evoluzione, accusata di reati immondi contro la natura e sovente da parte degli stessi gruppi di opinione che vorrebbero salvare gli animali. Quasi tutti i farmaci finora sviluppati per l'uomo vengono usati in veterinaria ma non pensiamo agli animali salvati e ci scandalizziamo solo per quei pochissimi che dobbiamo sacrificare. Uccidere suini e visoni per farne prosciutti e pellicce è certamente meno giustificato dell'uccidere un cane se ne esce poi un farmaco efficace. Dobbiamo imparare a ragionare globalmente e a scegliere il male minore senza lasciarci trascinare da polemiche inutili. Molti dedicano le loro energie a salvare cani e gatti, gli animali che sono più vicini all'uomo ma anche un suino è un'animale intelligente che può essere addomesticato, affezionarsi e obbedire al padrone quasi come un cane, e non merita il disprezzo con cui viene trattato. Esiste quindi un razzismo animale irrazionale per cui si procede caso per caso in base alle reazioni del momento. Un topino bianco può destare pietà se ben ingabbiato ma essere ucciso barbaramente se trovato in cantina. Il pollo non è protetto in quanto sta bene arrosto, ma le bianche colombe che insozzano le nostre piazze vengono difese a oltranza pur essendo veicolo di pericolose malattie. Un innocuo biscione scatena reazioni viscerali e chi lo uccide passa per eroe. Non parliamo del ribrezzo che generano i pipistrelli, animali inoffensivi. Anche gli insetti e i protozoi sono animali ma nessuno si occupa di proteggerli anche perché si tratta di impresa impossibile. Camminando su di un prato uccidiamo centinaia di piccoli esseri viventi senza avvederci del massacro. Dove poniamo la linea divisoria tra animali da proteggere e quelli che possiamo sterminare senza rimorsi? Dobbiamo salvare le farfalle e uccidere le zanzare? Manca un criterio comprensibile e razionale che dia il giusto peso ai fattori ambientali e alla posizione che l'animale ha nella scala evolutiva. Le iniquità e i pregiudizi della società umana si riflettono aggravati sugli animali e sarà impresa improba far ordine. Prego solamente gli animalisti infuriati da questo mio articolo di trattarmi come un cane. Anch'io sono un animale. Tullio Regge Università di Torino




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