TUTTOSCIENZE 17 agosto 94

PROPORZIONI & FASCINO La bellezza? E' un teorema Marilyn perfetta, Lollo meglio della Schiffer
Autore: AMANDOLA GIAN PIERO

ARGOMENTI: ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA, INCHIESTA
NOMI: FIBONACCI LEONARDO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Criteri di bellezza e bruttezza

L'ESTATE, con i bagnanti seminudi sparsi su tutte le spiagge, ci porta inesorabilmente a fare i conti con il corpo, e quindi con la bellezza (e la bruttezza, ovviamente). Conti nei quali la scienza non sembra possa aiutarci. No, la scienza non «capisce» la bellezza. Il computer non sa leggere l'attrazione di un volto, gli antropologi non possono individuare lo zigomo o la pupilla che incanta, non si possono fare banche dati, campionare le narici o gli incarnati che danno le maggiori armonie al volto. Infatti le due indagini iperscientifiche, informatizzate, che la rivista inglese «Nature» ha tentato qualche mese fa provano inequivocabilmente (la prima) che la bellezza umana è data dai caratteri «medi» della popolazione, e (la seconda) che la bellezza umana è data dai caratteri «estremi» della popolazione. La cosa curiosa è che, in qualche modo, sembra sia la teologia ad azzeccare di più con la bellezza. Esiste da secoli un modo, una unità di misura sorprendentemente efficace per valutare la bellezza, ed è quella di un teologo-matematico medioevale, Leonardo Fibonacci detto «il Pisano». Lui la chiama «sectio divina», proporzione divina; già, perché Fibonacci nella bellezza cerca Dio. Lo cerca con la matematica, che allora era cabala, un insieme di segni donati dal Dio per svelare la sua volontà. Con le sue teofanie in numeri, Fibonacci scopre «il rapporto geometrico e numerico che esprime la bellezza delle forme umane e in generale della natura». Intendiamoci, non stiamo riproponendo la solita contrapposizione fra scienza e religione, fra secolarizzazione tecnologica e trascendenza. Qui la situazione è diversa: i «numeri di Dio» di Fibonacci sono già in uso nelle sale operatorie dei chirurghi estetici, nelle loro riviste di aggiornamento. Ma hanno anche un loro spazio nei saggi che si occupano del bello nell'arte, in architettura, nonché in natura. Come conferma Paolo Gotte, chirurgo estetico che dirige la clinica universitaria di Verona: «Non solo la proporzione elaborata da Fibonacci è quella che seguiamo quando col bisturi dobbiamo ricostruire l'armonia di un corpo o di un volto. Quella proporzione la si ritrova anche studiando l'arte dei templi greci o la perfezione delle farfalle o delle conchiglie». La «sectio aurea» di Fibonacci si esprime semplicemente in questa proporzione: fatta uguale a 1 la parte più corta, la parte più lunga deve essere pari a 1,618 perché ci sia il bello. Ovvero la parte corta è pari allo 0,618 della parte lunga. Quindi chi voglia sottoporsi a questo speciale «giudizio di Dio» sappia che il suo volto per essere apollineo, perfettamente bello, deve avere queste proporzioni: fatta pari a 1 la lunghezza della parte sopra l'occhio, la parte sotto, quella fra il centro dell'orecchio e il mento deve essere 1,1618. E, altro esempio, considerata pari a 1 la distanza fra le narici e il centro della bocca, dal centro della bocca al termine del mento deve esserci 1, 618 volte quella distanza. Misuratevi. E se temete di non farcela ad essere sufficientemente precisi, esiste un compasso apposito, il compasso di Goeringer, forse più ispirato dei computer di «Nature», per appurare l'esistenza o meno delle misure della bellezza. Ci si può aiutare anche con un recente numero della rivista guida della chirurgia estetica americana «Clinic in plastic surgery» che ospita un saggio del «bisturi d'oro» Ricketts, intitolato appunto «Proporzioni divine nell'estetica facciale», e teso a individuare «in modo millimetrico» le anomalie di mandibole, nasi, zigomi, dalle Fibonacci - proporzioni. Ma se qualcuno non avesse ancora capito che la bellezza è questione strana, arcana, orfica e un po' folle, aspetti di sapere come Fibonacci è arrivato a trovarne la misura. Lui è partito dai conigli, sì, studiando, non si sa perché, la riproduzione dei conigli. Sta lì, in contemplazione, di fronte a un recinto di conigli: una coppia ogni mese genera un'altra coppia che a sua volta genera un'altra coppia. E conta la progressione del numero delle coppie, rileva alcune particolarità di questa progressione, lui pensa a segnali magici di Dio. La più sorprendente è questa. Arrivati alla quindicesima tornata, le coppie di conigli sono 610, la tornata prima erano 377. Se dividiamo 610 per 377 otteniamo 1,618, bene, da questa volta in avanti, 1,618 si ripeterà sempre quando dividiamo la tornata seguente con quella precedente. Fino all'infinito. Pensare che qui ci sia il codice dell'essere è come minimo da visionario. E «il Pisano» un po' doveva esserlo, per forza. Eppure, il padre dell'astronomia, Keplero, assicura di trovare i «numeri» di Fibonacci nelle orbite dei corpi celesti. Leonardo disegna i suoi studi del corpo umano e dipinge la Gioconda seguendo la proporzione 1 sta a 1,618, come dimostrano gli studi dell'inglese Clark. Dai saggi di Colmans sull'«armonia in natura» fino a quelli di Borissavlievic sui capolavori dell'architettura, la «sectio divina» di Fibonacci la fa da padrona. Si costruiscono specie di prontuari del chirurgo estetico in cui tutto di noi è catalogato, combinato in rapporti aurei dall'«asse palpebrale» alla «rima orale», dalla «spina nasale posteriore» al «bordo inferiore del ramo mandibolare» e giù fino alle ultime falangi dei piedi, in un susseguirsi classificatorio che può dare l'idea di un'onnipotente precisione o l'angoscia di essere finiti in un labirinto che irride ogni nostra possibilità di capire. Come in un romanzo di Umberto Eco, la scientificità moderna o postmoderna ci porta dritti dritti a numerologie e teurgie medioevali. Le elaborazioni duecentesche in latino maccheronico di un teologo dei numeri, che coi suoi riti cerca l'armonia voluta da Dio, entrano nelle sofisticatissime sale operatorie dove si rifà, si rimodella l'uomo del 2000. Ma se guardiamo con l'occhio e i criteri di Fibonacci i belli per mestiere del nostro tempo (top model, attrici, attori), che cosa succede, professor Gotte? «Guardi, - spiega il chirurgo - io credo che il grande merito di Fibonacci sia quello di spiegare il mistero del mito di Marilyn, sì di Marilyn Monroe, bellezza di intramontabile culto; secondo le nostre analisi il suo è un volto che ha una elevatissima rispondenza alle proporzioni " divine" di Fibonacci, mentre invece quella che oggi si dice sia la donna più bella del mondo, e cioè Claudia Schiffer, ha una evidente sproporzione fra la mandibola troppo piccola e il resto del volto; i truccatori, che conoscano Fibonacci o no, lo vedono e infatti cercano di ridurre l'evidenza dello zigomo. Altro volto, per intenderci, che sembra abbastanza ispirato alle proporzioni auree è quello della "Venere imperiale" Gina Lollobrigida. E pur con qualche esuberanza delle parti molli, cioè dei tessuti di guance e zigomi, è abbastanza "alla Fibonacci" anche il volto di Ornella Muti. La Muti e la Lollo rientrano nelle proporzioni di Fibonacci nella misura in cui ci entrano le bellezze mediterranee, da Magna Grecia». Sarebbe interessante pensare ai «numeri di Dio» come metro di misura nei profani concorsi di bellezza o per i diabolici cachet delle top model e così via. Il chirurgo plastico Paolo Santanché cerca di porre qualche argine ai diktat di Fibonacci: «Indubbiamente chi lavora sulle ossa ha molto bisogno di avere proporzioni auree da rispettare, invece chi, come noi chirurghi plastici, interviene sulle parti molli, cioè su muscoli, carne, pelle, ha a che fare più che con perfezioni a raggiungere, con imperfezioni da assemblare. Con gli accidenti della vita e del sistema nervoso. Ha a che fare con la bulimia che gonfia o l'anoressia che svuota e così via. Il problema quindi per noi è più che altro costruire un aspetto che sia confacente alla personalità, alla psiche del paziente. E la bellezza aurea alla Fibonacci deve fare i conti con la "neuro-bellezza" con quel farsi e rifarsi il corpo a seconda degli umori, delle "lune" e delle stagioni della vita». Il fatto è però che l'implacabile Fibonacci arriva anche alla psiche umana. «Forse Dio è un geometra», titola un testo inglese di autori vari e dimostra che, universalmente, sono certe proporzioni che vediamo nelle cose e negli uomini a rasserenarci. Ed è antichissima la ricerca delle misteriose geometrie della materia che aiutano l'appagamento psichico e l'armonia esistenziale. Meglio degli psicofarmaci. Gian Piero Amandola


AMBIENTE Anche la cioccolata sotto la minaccia dell'estinzione Le varietà della pianta del cacao sono 2500 ma la deforestazione le sta sterminando
Autore: ANGELA ALBERTO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, BOTANICA, ALIMENTAZIONE
NOMI: SPENCE JOHN
LUOGHI: ITALIA

CIOCCOLATA, profiteroles, uova di Pasqua e Nutella, potrebbero in un futuro non lontano essere in serio «pericolo di estinzione», a causa della distruzione dell'habitat naturale dell'albero del cacao. Il cacao utilizzato per produrre la cioccolata non proviene da piante selvatiche (ovviamente) ma da piantagioni, come accade per il té o per il caffè. Ma l'intensa deforestazione in atto negli ambienti tropicali, eliminando le varietà selvatiche dell'albero del cacao, finirebbe per ritorcersi contro le piante coltivate. I tipi selvatici, infatti, essendo geneticamente diversi dagli alberi da piantagione, hanno grandi probabilità di aver sviluppato efficaci difese contro l'assalto di molti parassiti e microrganismi. Nel loro patrimonio genetico c'è la soluzione a possibili epidemie distruttive per le piantagioni. Se dovessero scomparire basterebbe un parassita, un fungo o un virus per spazzare via in breve tempo l'intera produzione mondiale. E con essa 500 anni di storia della cioccolata. E' solo grazie a Colombo che il cacao ha fatto la sua apparizione in Europa, dando vita a grandi tradizioni di pasticceria e a colossali giri d'affari. La parola «cioccolato», tra l'altro, deriverebbe dall'azteco «chocollatl» (che molti ritengono sia un incrocio tra «kakawatl», cioè «bevanda di cacao» e «cokoatl», «acqua che bolle»). Nel nostro vocabolario, insomma, c'è anche un po' di azteco. A lanciare l'allarme sono alcuni esperti dell'Università delle Indie Occidendali a Trinidad. Sebbene siano state contate ben 2500 diverse varietà selvatiche di questa pianta, nessuno conosce la loro situazione attuale. La pianta del cacao infatti cresce allo stato naturale solo nel continente americano, in aree sottoposte ad un intenso disboscamento tra il Centro America e l'alto Bacino Amazzonico. Il timore che assieme agli alberi abbattuti vadano perduti per sempre anche geni preziosi, con caratteristeche uniche, ha spinto John Spence, il responsabile del Centro di ricerca sul cacao di quest'Università a lanciare un appello per il reperimento di fondi. L'obiettivo è di realizzare spedizioni nelle foreste tropicali per catalogare ciò che rimane delle varietà selvatiche del cacao. La prima soluzione che viene in mente per salvare questa pianta è ovviamente quella di creare una «banca genetica» che conservi i semi delle varietà più minacciate. Un po' come accade per esempio per i semi dei numerosi tipi di grano e di granoturco, che vengono mantenuti in uno stato di vita latente per anni, a bassa temperatura e a bassa umidità. Per il cacao purtroppo ciò non è possibile: i semi muoiono dopo poche settimane. Il solo sistema per fare sopravvivere le diverse varietà selvatiche è quello di farle crescere direttamente in speciali serre. Esistono attualmente due «banche genetiche» del cacao, una a Trinidad, l'altra nella Costa Rica: entrambe possiedono alcuni esemplari cresciuti in serra. A Trinidad ve ne sono 16. Ma è ben poca cosa di fronte ai 2500 tipi diversi finora scoperti (e non è da escludere che ne esistano ancora di più). Per questo è necessario muoversi in tempi brevi. Chi è direttamente interessato alla salvaguardia del patrimonio genetico di questa pianta, oltre agli amanti della cioccolata, sono ovviamente i grossi produttori di cacao. Ma al di là di un modesto sostegno finanziario alla «banca genetica» di Trinidad, le compagnie che detengono il monopolio del mercato mondiale, secondo Spence, si sarebbero dimostrate assai poco propense ad occuparsi del problema. Il motivo è semplice: migliorando la qualità genetica delle piante, aumenterebbe la produzione globale del cacao ed i prezzi tenderebbero inevitabilmente a scendere. Del resto il pericolo di un'epidemia, sebbene reale, rimane in termini commerciali una semplice ipotesi... Il caso del cacao in fondo rispecchia ciò che accade in natura a molte altre specie viventi, dal ghepardo, alla sequoia, ai salmoni. Conservare la diversità genetica di una specie e quindi il numero di individui costituisce il solo modo per garantire la sua sopravvivenza. Questo principio non è valido solo per le singole specie ma anche per l'intero ambiente: conservare la biodiversità della natura (cioè la sua ricchezza in specie) è stata infatti la parola d'ordine emersa dalla famosa Conferenza di Rio. Alberto Angela


I SEGRETI DEL GUARINI Architettura di luce Studi sulla cappella della Sindone
Autore: PIERANTONI RUGGERO

ARGOMENTI: OTTICA E FOTOGRAFIA, EDILIZIA
NOMI: GUARINI GUARINO, ORMEZZANO FRANCO
ORGANIZZAZIONI: ORDINE DEGLI ARCHITETTI
LUOGHI: ITALIA, TORINO (TO)
TABELLE: D. Sezione della cupola del Guarini

IN questi giorni certo uno dei luoghi più freschi di Torino deve essere la Cappella della Sacra Sindone. Fresco ma molto probabilmente deserto, perché da circa due anni vi stanno conducendo lavori di restauro e la Cappella (da cui la Sindone è stata trasportata nella navata maggiore del Duomo) è chiusa al pubblico. Unico a far compagnia allo spirito di Guarino Guarini aleggiante nello spazio da lui ideato e all'imponente ponteggio che da terra raggiunge il livello degli arconi in pietra intrecciati è l'architetto Franco Rosso del Politecnico di Torino, impegnato da circa due anni nella impresa erculea di rilevare il monumento. Ho approfittato della sua amichevole pazienza e agilità (il ponteggio è avventuroso) per eseguire un rilevamento di diverso tipo, anche se infinitamente meno accurato di quello dimensionale in corso. Ecco, molto brevemente, di che si tratta. Ho eseguito misure fotometriche lungo una linea verticale che parte dal livello del terreno e raggiunge il terzo ordine di archi che ricamano in alto la cupola. La linea verticale era localizzata approssimativamente a sei metri dall'asse della cappella. L'operazione è in sostanza molto semplice. Facendo uso di un fotometro digitale che può interfacciarsi con un computer per poi trasformare i dati in un grafico, ho rilevato ad ogni piano del ponteggio il livello di luminosità in lux (o più precisamente ho misurato l'illuminanza) e a ciascun piano ho eseguito tre misure: puntando lo strumento verso il basso, poi orizzontalmente verso il centro e quindi verso l'alto. L'idea era banale: vedere come la luce si distribuisce nel volume della cupola. E più in dettaglio come la luce viene «veduta» lungo l'asse verticale. I risultati li potete trovare nella figura che rappresenta la sezione della Cappella e, affiancati, sulla stessa scala, i tre grafici. La curva più bassa, quella che parte in alto da 50 lux, dà i valori con il fotometro puntato verso il basso, la seconda, che inizia con 100 lux, riporta i dati con il fotometro tenuto orizzontale e l'ultima, la più alta, partendo già da 175 lux, rappresenta l'illuminanza con il fotometro puntato verso l'alto. Una prima osservazione rivela come la zona più luminosa la si incontri all'altezza delle grandi finestre della lanterna e, anzi, un po' più in basso a causa del forte riflesso derivante dall'anello cilindrico che corre sugli arconi di sostegno e che distribuisce attorno la luce. Un altro elemento è la curiosa forma della curva a livello dell'intreccio degli archi in pietra che sono la vera meraviglia strutturale ed estetica della Cappella. Come si vede, la illuminanza tende a restare costante sin quasi alla base della finale cupoletta emisferica che conclude il discorso. Il terzo e ultimo punto è il fortissimo attenuarsi della luce nel procedere verso il basso. Questa progressiva eclissi della luce, che raggiunge il minimo a livello del pavimento (4 lux contro i 400 al livello del tamburo e i 1200 esterni al momento della misura), non può non colpire. Le tre curve convergono verso il loro comune valore minimo con un andamento regolare e controllato. La luce, dopo l'omogenea immissione attraverso gli arconi intrecciati e la forte esplosione della cupola, viene progressivamente «spenta» sino ad immergere il piano di base in una inquieta oscurità. Guarini (1624-1683), modenese e dell'Ordine dei Teatini, aveva spirito singolare e «bizzarro». Un suo «Compendio della Sfera celeste», uno studio su Euclide, la tangenza con la nascita della Geometria Proiettiva di Desargues, e altri scritti ci suggeriscono il ritratto di una persona complessa e audace, inquieta ed esposta ai rischi dell'intelligenza. Aveva ereditato, attorno al 1666, da Amedeo di Castellamonte, il progetto di costruire in Duomo una Cappella per la Sindone. Il progetto iniziale del Castellamonte e voluto da Carlo Emanuele I viene infatti rinverdito e condotto a termine per volontà del principe Cardinale Maurizio, che diverrà Carlo Emanuele II. Dal 1668 Guarini diventa ingegnere ducale e assume l'intera reponsabilità della costruzione e inizia a scolpirvi dentro un suo volume luminoso. Questo suo erigere una fortezza contro la luce, l'immersione deliberata della Sindone nel buio, la manipolazione architettonica della luce che il filtro di pietra fa sgocciolare dentro, e che si accumula sino all'esplosione più in basso per poi venir silenziosamente dissolta: tutto ci lascia intendere che se alziamo lo sguardo verso la «gloria» che trasvola sotto la cupola finale possiamo intravedere lo spirito dell'Architetto che ci parla con incomprensibile precisione. Devo esprimere il mio ringraziamento all'architetto Franco Ormezzano, Responsabile delle fabbriche del Palazzo Reale in Torino, e all'architetto Germana Bricarello del Politecnico, cui sono debitore delle note storiche malamente contratte per adattarle allo spazio non architettonico della pagina. Ruggero Pierantoni Istituto di Cibernetica, Cnr, Genova


DALLO SHUTTLE Censimento per foreste e ghiacciai Seconda missione del radar italo-tedesco X-Sar
Autore: RIOLFO GIANCARLO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, AMBIENTE
ORGANIZZAZIONI: X-SAR, ALENIA SPAZIO, DORNIER
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D.

STA per tornare in orbita il radar italo-tedesco X-Sar per l'osservazione del nostro pianeta. Sarà ospitato nella stiva dello shuttle «Endeavour», il cui lancio è previsto in questi giorni dal Kennedy Space Centre (Cape Canaveral, Florida). E', questa, la seconda missione del sistema X-Sar. La prima si è svolta dal 9 al 19 aprile con il volo Sts 59, durante il quale l'apparecchiatura ha funzionato per 43 ore, «fotografando» trentacique milioni di chilometri quadrati della superficie terrestre. Un pieno successo. Con la seconda missione verranno ripetute le osservazioni sulle stesse aree del pianeta, in modo da rilevare le variazioni stagionali della vegetazione e dei ghiacci. Inoltre, potrebbero essere compiuti nuovi esperimenti, come prove di interferometria radar per ottenere immagini tridimensionali. In questo caso, la missione verrebbe prolungata di alcuni giorni rispetto ai dieci previsti. I radar spaziali installati sulla navetta «Endeavour» in realtà sono due, riuniti in un singolo sistema. Il primo, sviluppato dalla Nasa e costruito dal Jet Propulsion Laboratory, è uno strumento doppio in banda C e L (lunghezza d'onda di 6 e 23 centimetri rispettivamente) chiamato SIR-C (Shuttle Imagin Radar-C). Il secondo, ideato congiuntamente dagli enti spaziali tedesco e italiano, è l'X-SAR: radar ad apertura sintetica in banda X (lunghezza d'onda 3 centimetri), realizzato dalla Dornier e dall'Alenia Spazio. L'apparecchiatura opera su tre frequenze, inviando verso la Terra impulsi di energia elettromagnetica e misurando l'energia riflessa, raccolta dalla grande antenna (è lunga 12 metri) che occupa tutta la stiva dello Space Shuttle. L'elaborazione di questi segnali consente di ottenere un'immagine della zona sulla quale il radar è puntato. A differenza della fotografia, il radar può raccogliere dati giorno e notte, con qualsiasi condizione meteorologica. Le onde elettromagnetiche possono penetrare attraverso le nuvole, la vegetazione, persino la sabbia, permettendo così di esplorare anche le regioni più inaccessibili del pianeta. E' anche possibile riconoscere la consistenza della flora e il livello di umidità del suolo. La campagna di osservazioni radar della superficie terrestre condotta con il sistema Sir- C/X-Sar è la più estesa mai compiuta e servirà allo studio delle risorse del pianeta e alla tutela ambientale. In cinquanta ore di funzionamento, l'apparecchiatura raccoglie e registra su cassette di nastro magnetico una massa di dati uguale a 32 mila miliardi di bit, l'equivalente di 20 mila volumi di enciclopedia. Si tratta di informazioni «grezze», che vengono elaborate e trasformate in immagini al termine del volo da tre istituti: il Jet Propulsion Laboratory di Pasadena (California), il Dara/Dlr di Oberpfaffenhofen e il Centro di Geodesia Spaziale dell'Asi di Matera. Una piccola parte delle informazioni è invece trasmessa a Terra ed elaborata in tempo reale per controllare l'andamento della missione. Mentre il secondo volo è ormai alla vigilia della partenza, procede l'analisi dei dati raccolti ad aprile. I 591 nastri registrati, dopo essere stati sottoposti a una prima elaborazione, vengono trasferiti su 15 mila Cd-Rom. A settembre, ultimate le operazioni di taratura, inizierà l'elaborazione di precisione, che darà luogo a immagini ad alta risoluzione. Oltre che per la topografia, le immagini raccolte saranno preziose per lo studio della desertificazione di alcune aree, come le regioni sahariane. Nel corso della missione, per esempio, i radar hanno «fotografato» alcune zone del bacino idrogeologico che si trova al di sotto del grande deserto africano e che risale a più di 100 mila anni fa. Dall'esame dei nastri registrati, gli scienziati potranno raccogliere informazioni sulla geologia, sull'attività vulcanica, sulla dinamica degli oceani, sulla deforestazione. E ancora, sullo scambio d'acqua tra suolo e atmosfera e sulle riserve idriche del pianeta. Grazie al radar spaziale, questo censimento terrà conto non soltanto di fiumi e laghi, ma anche della neve e dei ghiacci. Alla seconda missione, ormai imminente, potrebbe seguirne una terza. Per organizzarla, sono in corso contatti tra la Nasa e le agenzie spaziali tedesca e italiana. Giancarlo Riolfo


IN BREVE Venezia: le origini dell'Universo
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, CONGRESSO
NOMI: WEINBERG STEVEN, BARROW JOHN, MACCHETTO DUCCIO, HACK MARGHERITA
LUOGHI: ITALIA, VENEZIA (VE)

Il premio Nobel Steven Weinberg, John Barrow, Duccio Macchetto e Margherita Hack sono alcuni dei ricercatori che parteciperanno al convegno «Le origini dell'Universo», in programma il 5 settembre alla Fondazione Cini, a Venezia. Ma non si affronterà solo l'aspetto scientifico della cosmologia. Altrettanto rilievo avranno gli aspetti filosofici e religiosi, in coincidenza con la presentazione al Festival del Cinema del film di Ermanno Olmi «Genesi - Creazione e diluvio».


IN BREVE Giornata contro il cielo inquinato
ARGOMENTI: ASTRONOMIA, INQUINAMENTO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Inquinamento luminoso del cielo

Si terrà il 1 ottobre la seconda edizione della Giornata nazionale contro l'inquinamento luminoso del cielo. L'iniziativa è dell'Unione astrofili bresciani in collaborazione con la Società astronomica italiana. Lo scopo è di combattere gli sprechi di illuminazione che finiscono con il rendere impossibile l'osservazione degli astri. In parallelo si svolgerà, promossa da Greenpeace, l'Operazione Lampadina, che tende a promuovere l'uso di lampade ad alta efficienza. Il loro uso (con 20 watt si ottiene la luce che dà una lampadina tradizionale da 100) permetterebbe di risparmiare 3,2 miliardi di kwh all'anno.


IN BREVE Trento: natura e mass media
ARGOMENTI: ECOLOGIA, AMBIENTE, CONFERENZA
NOMI: MARLETTI CARLO
LUOGHI: ITALIA, TRENTO (TN)

L'informazione sull'ambiente è spesso troppo scarsa o inesatta. Occorre più collaborazione tra giornalisti e fonti di informazione in campo ecologico. Se ne parlerà a Trento il 1 settembre. Tra gli altri interverranno il sociologo Carlo Marletti, il giornalista e ambientalista Walter Giuliano e il direttore di «Airone» Salvatore Giannella.


IN BREVE La sonda «Ulisse» sui poli del Sole
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
ORGANIZZAZIONI: LABEN
LUOGHI: ITALIA

La sonda europea «Ulisse» sta per raggiungere il punto di osservazione più favorevole sul polo Sud del Sole. E' la prima volta che questa regione della nostra stella viene studiata dallo spazio. In settembre all'Esa si terrà una conferenza stampa per presentare i primi risultati. Il sistema di trattamento dei dati a bordo di «Ulisse» è stato realizzato dall'azienda italiana Laben.


IN BREVE Chimici per l'Europa
ARGOMENTI: CHIMICA, UNIVERSITA'
LUOGHI: ITALIA, PARMA (PR)

L'Università di Parma organizza un corso di perfezionamento per chimici in base alle esigenze della Comunità europea.


NASCEVA UN SECOLO FA Lemaitre, il gesuita che conquistò Einstein Fu il primo a intuire l'espansione dell'universo seguita al Big Bang
AUTORE: GABICI FRANCO
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, ASTRONOMIA
PERSONE: LEMAITRE GEORGES
NOMI: LEMAITRE GEORGES
LUOGHI: ITALIA

IL primo a intuire l'evoluzione dell'universo fu uno sconosciuto gesuita belga, Georges Lemaitre, del quale quest'anno ricorre il primo centenario della nascita (Charleroi, 17 luglio 1894). Figlio di un vetraio di Lovanio, fin dall'infanzia si era riproposto di diventare sacerdote e scienziato. Descritto come personaggio molto aperto e socievole, su invito di Arthur Eddington intraprese un viaggio negli Stati Uniti durante il quale venne a conoscenza che Vesto Slipher, osservando le «nebulose a spirale» (che in realtà erano galassie) aveva notato uno spostamento verso il rosso delle righe spettrali, scoperta che di per sè non indicava un universo in espansione. Anzi, l'idea dell'espansione a quei tempi non era ancora stata accettata, tant'è che Einstein aveva introdotto nelle equazioni della relatività generale un termine matematico proprio per «frenare» l'universo. L'osservazione di Slipher costituì un primo importante passo di un cammino che si sarebbe concluso con la dimostrazione dell'espansione dell'universo desunta dalle osservazioni di Hubble. Tornato in patria nel 1927, Lemaitre scrisse un saggio con il quale, anticipando i tempi, collegava la relatività generale con lo spostamento verso il rosso. Purtroppo le sue idee stentarono ad affermarsi perché il saggio era stato pubblicato su una rivista poco nota e inoltre Lema°itre era snobbato dagli addetti ai lavori non appartenendo ad accademie o ad università. Quando, nel 1933, si tenne a Bruxelles il famoso Congresso Solvay, Lema°itre non riuscì a ottenere quella considerazione che invece pensava di meritare, ma fu giudicato assai severamente anche da Einstein il quale, dopo averlo ascoltato, gli disse che i calcoli erano esatti ma la sua fisica era «abominevole». In seguito Einstein ammise che la teoria di Lemaitre era la più bella e soddisfacente interpretazione che avesse mai ascoltato. Alcuni anni dopo la pubblicazione della sua memoria, i cosmologi partecipanti a un convegno organizzato dalla Royal Society di Londra tentarono, senza successo, di gettare un ponte fra la relatività generale e la scoperta della recessione delle galassie da parte di Hubble che parlava chiaramente a favore di una espansione dell'universo. Lema°itre, allora, informò Eddington dei suoi studi e questi, dopo aver trasmesso a De Sitter una copia del lavoro di Lemaitre, annunciò alla comunità scientifica che uno sconosciuto sacerdote belga aveva per primo formulato la teoria dell'espansione dell'universo. L'espansione portava come conseguenza che il nostro universo all'inizio del tempo fosse tutto concentrato in una «singolarità» che Lema°itre definì molto pittorescamente «atomo primordiale» o «uovo cosmico». Altrettanto pittorescamente Lemaitre disse che l'«atomo- uovo» cominciò ad espandersi con «grande rumore» e Fred Hoyle, sostenitore della teoria dell'universo stazionario, definì sarcasticamente il «grande rumore» di Lema°itre con il termine «big bang» senza immaginare che quella uscita ironica avrebbe avuto tanta fortuna. Lemaitre morì a Lovanio nel giugno del 1966. Come cappellano militare fu anche decorato della Croce di guerra. Due i suoi scritti importanti per la storia della cosmologia: «Discussione sull'evoluzione dell'universo» (1933) e «Ipotesi dell'atomo primitivo» (1946). Franco Gabici


MOLOCH AUSTRALIANO Ma quello è il diavolo! Aspetto orrido, indole innocua
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI
NOMI: PIANKA ERIC, PIANKA HELEN
LUOGHI: ITALIA

E' tutta questione di dimensioni. Si è parlato tante volte dell'effetto che ci farebbero gli insetti se, per qualche causa misteriosa, aumentassero di grandezza fino a diventare veri e propri mostri giganteschi. Lo stesso discorso, ancora più a proposito, si potrebbe fare per il moloch australiano (Moloch horridus), un rettile lungo soltanto dodici centimetri, ma di aspetto davvero orripilante. Se lo chiamano «diavolo del deserto», una ragione ci deve pur essere. E infatti c'è. La sua pelle scagliosa è ricoperta da dozzine di spine acuminate e taglienti. Inoltre, al di sopra degli occhi gli spuntano due spine particolarmente sviluppate simili a corna che giustificano in pieno il riferimento che se ne fa a Lucifero. Per quanto sia piuttosto comune e abbia un'ampia area di diffusione, vederlo non è tanto facile perché, con la sua colorazione che varia dal rosso arancio al giallo bruno e le chiazze sparse qua e là sulla pelle, risulta perfettamente mimetizzato con l'ambiente desertico. Come il cugino camaleonte, anche il moloch ha la sorprendente capacità di cambiare colore. L'animale, quando è freddo e inattivo, è grigio olivastro, mentre quando è in attività, e la sua temperatura aumenta, acquista una colorazione brillante. Nonostante l'aspetto impressionante, il piccolo moloch, che sta comodamente sul palmo di una mano, è assolutamente inoffensivo. Questo timido abitante dei deserti e delle steppe dell'Australia centromeridionale è pericoloso soltanto per le formiche. Le sue preferenze alimentari vanno soprattutto alle piccole formiche nere del genere Iridomirmex. Le cattura con una rapidità insospettata. Servendosi della lingua vischiosa ne ingoia venti-trenta al minuto, complessivamente circa milleottocento per ciascun pasto. Pigro e lento come una lumaca, il moloch assume una bizzarra andatura quando attraversa uno spazio aperto. Tenendo la coda eretta, cammina a passi traballanti. E se un pericolo lo minaccia, si blocca e fa il morto, un sistema passivo di difesa abbastanza diffuso nel mondo animale. Purtroppo questa tecnica difensiva risulta del tutto controproducente nei riguardi delle automobili. Quando i moloch attraversano, come spesso fanno, le strade asfaltate, molti di loro muoiono investiti dalle macchine. Con tutte le sue spine taglienti, il moloch non è un boccone facile per i predatori, che rischiano di procurarsi ferite dolorose quando lo prendono in bocca. C'è però chi riesce ad aggirare l'ostacolo, come alcuni uccelli rapaci che capovolgono il rettile e lo addentano alla pancia, l'unica zona indifesa del corpo. Il diavolo del deserto è noto alla scienza solo dal l840, da quando l'ornitologo australiano John Gould ne portò un esemplare alla Società Zoologica di Londra. E da allora gli studiosi hanno voluto indagare quale sia il misterioso meccanismo che consente a questo piccolo rettile di sopravvivere in un ambiente arido come il deserto. L'acqua è essenziale per tutti gli esseri viventi. Come se la procura il moloch in un ambiente dove le piogge sono minime e non esistono pozze d'acqua permanenti? Gli studiosi hanno scoperto che, non appena l'animale viene in qualche modo a contatto con l'acqua (che può essere anche la rugiada mattutina), quest'acqua fluisce dalle spine in una rete di sottili canali che corrono tra le squame. Lo stretto diametro dei canalicoli e le loro complesse ramificazioni permettono all'acqua di diffondersi in tutto il corpo per azione capillare. In questo modo l'acqua può circolare fino alla testa, dove raggiunge la bocca e viene bevuta. Ma c'è dell'altro. Il moloch presenta una strana gobbetta sulla nuca. La mette in evidenza quando vuole minacciare un nemico. In quel caso spinge in basso la testa vera stringendola tra le zampe anteriori, mentre espone la gobba che simula un secondo capo. Quella gobbetta, secondo alcuni studiosi, sarebbe anche una provvidenziale riserva di grassi. Bruciandoli, il rettile produce acqua nei casi di emergenza, quando più forte è la siccità. Il moloch diventa sessualmente maturo all'età di tre anni. E' la femmina che scava una tana sotterranea a una trentina di centimetri di profondità e vi depone, dopo l'accoppiamento, da sei a otto uova che cova per una quindicina di giorni. I piccoli, appena sgusciano fuori, sono repliche in miniatura degli adulti, moloch lillipuziani lunghi circa cinque centimetri. E sono completamente abbandonati a se stessi. Nè il padre, nè la madre si occupano minimamente di loro. Il moloch australiano ha molti caratteri in comune con le lucertole cornute del Nuovo Mondo appartenenti al genere Phrynosoma. Entrambi hanno il corpo ricoperto di spine, colorazione mimetica e andatura lenta. Ma fra di loro non c'è nessuna parentela. Il moloch è un agamide, i frinosomi sono iguanidi. Si tratta di un caso di «convergenza evolutiva», il fenomeno per cui specie che vivono in habitat simili, geograficamente lontani, hanno sviluppato nel corso dell'evoluzione analoghi adattamenti all'ambiente. Strano davvero è anche il frinosoma, famoso per la sua singolare tecnica difensiva. Se viene molestato, contrae le palpebre, lanciando dagli occhi un sottile getto di sangue che arriva a un metro di distanza, scindendosi in minuscole goccioline. Nulla di simile nel moloch. Gli erpetologi Eric e Helen Pianka hanno dimostrato che, malgrado le apparenze, vi sono tra moloch e frinosomi differenze notevoli. Con le difese naturali che si ritrova, il diavolo del deserto non dovrebbe correre nessun pericolo. E invece una notevole decimazione della specie la operano proprio gli uomini, che hanno sempre giudicato la sua carne particolarmente saporita e continuano a dargli la caccia. I. Lattes Coifmann


RINOCERONTI ADDIO Sono in cento Troppo pochi
Autore: MORETTI MARCO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA, ANIMALI, DEMOGRAFIA E STATISTICA
LUOGHI: ESTERO, ZIMBABWE

RINOCERONTE addio. Non sono serviti a nulla gli sforzi e le leggi per salvare il pachiderma corazzato. E' crollata anche la sua ultima fortezza: lo Zimbabwe. Negli Anni Ottanta, sulla riva meridionale del fiume Zambesi vivevano ancora tremila esemplari di rinoceronte nero (Diceros bicornis). Oggi sono ridotti a meno di cento: prossimi all'estinzione. Ai tempi delle esplorazioni ottocentesche di Li vingstone, vagavano nelle savane africane mezzo milione di rinoceronti. Nel 1960 erano ancora centomila. Dieci anni dopo, il loro numero era crollato a 20 mila. Nel 1990 erano ridotti a circa 2500 rinoceronti neri, presenti soprattutto in Zimbabwe ma anche in Namibia e Botswana; e a poche centinaia di rinoceronti bianchi (Diceros simus), limitati quasi esclusivamente al parco sudafricano di Kruger. I due animali in realtà sono del medesimo colore. La differenza sta nella bocca: arcuata per il «nero» e rettilinea per il «bianco». Si distinguono anche per la stazza: il «bianco» può raggiungere tre tonnellate, mentre il «nero» solo occasionalmente supera i 1500 chili. Per proteggerli, il governo dello Zimbabwe ha dato l'ordine ai ranger di aprire il fuoco sui bracconieri e ha introdotto la pena di morte per punire il bracconaggio. Non è servito a nulla. I cacciatori hanno continuato ad attraversare in canoa lo Zambesi (segna la frontiera fra lo Zimbabwe e lo Zambia) per abbattere l'animale, rimuovere i corni e ritornare in Zambia, dove le autorità non si sono mai preoccupate della loro attività. L'operazione, quasi sempre notturna, è facilitata dalla vulnerabilità del rinoceronte: lento e abitudinario, ripercorre le stesse piste e sosta vicino al fiume. Per individuarlo i bracconieri seguono le tracce dei suoi escrementi, che il pachiderma schiaccia con le zampe posteriori. Una volta localizzato e ucciso, l'animale viene privato dei corni: segati in dieci minuti. La principale causa del bracconaggio è la continua domanda di polvere di corno sui mercati di Taiwan, Macao e Hong Kong dove, nonostante la moratoria del Cites (Convention on International Trade in En dangered Species), che vietava in tutte le forme il commercio di prodotti derivati dal rinoceronte, il traffico non è mai cessato. La polvere di corno ha raggiunto quotazioni esorbitanti, ma è sempre richiestissima perché milioni di cinesi credono sia una sorta di panacea capace di guarire ogni male: dalla febbre all'influenza. L'ultimo tentativo di salvare la specie viene dalle game farms, fattorie per l'allevamento e la protezione delle specie minacciate d'estinzione, che si sono diffuse negli ultimi anni in Namibia, Botswana e Zimbabwe. Sono proprietà private recintate, di decine e spesso centinaia di chilometri quadrati, in cui i pochi esemplari rimasti vengono rinchiusi per essere difesi. Queste fattorie coniugano l'ecologia con le tradizionali attività agricole e di allevamento. E sfruttano il richiamo turistico del rinoceronte per trovare i fondi necessari alla sua salvaguardia. Alcune fattorie si occupano anche dell'allevamento e dell'inserimento in natura di piccoli di varie specie (leopardi, ghepardi, facoceri, iene e diversi tipi di gazzelle e di antilopi) che hanno perso la madre prima d'imparare a cacciare o a sopravvivere nella savana. Marco Moretti


PRO&CONTRO Pere mele uva alto il rischio di pesticidi
Autore: DONNHAUSER CESARE

ARGOMENTI: ECOLOGIA, BOTANICA, AGRICOLTURA, CHIMICA, INQUINAMENTO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Fitofarmaci, pesticidi

SU La Stampa del 7 agosto campeggiava il titolo «Polemica sulla frutta inquinata. Il ministro: si fa del terrorismo», che ci riporta indietro di molti anni, quando i ministri dell'Agricoltura della prima repubblica ci additavano come terroristi quando si rendevano pubblici misfatti come l'uso illegale del Temik sul pomodoro o l'inquinamento da atrazina nei pozzi e nelle falde dell'Italia centro-settentrionale. Spiace dover constatare che anche Adriana Poli Bortone, neoministro dell'Agricoltura, non si discosta da quel copione. E' nostra intenzione riportare, invece, il dibattito su un binario costruttivo e scientifico che tenga conto degli aspetti produttivi ma anche sanitari e ambientali. Le nostre elaborazioni si basano sulle rilevazioni che 76 Pmp (Presidi multizonali di prevenzione) hanno effettuato a termini di legge nel 1993, seguendo le disposizioni e le metodologie standardizzate per tutta l'Unione europea. Siamo anche qui all'inizio, in quanto i controlli sono soddisfacenti per l'Italia centro-settentrionale, mentre da Roma in giù sono praticamente inesistenti. La media nazionale di residui di pesticidi, sugli ottomila campioni di ortofrutta esaminati, è del 40 per cento e il 4,4 per cento risulta irregolare. Guidano la classifica le pere (71 per cento di residui), le fragole (66%), le mele (61%), l'uva (60%). Le irregolarità più alte, invece, si riscontrano nell'insalata (11%) e nelle fragole (10%). Particolare allarmante è la presenza di più pesticidi nello stesso campione (l'attuale normativa non prevede limiti alla somma di più residui), che nel caso delle mele e delle pere si attesta intorno al 50 per cento dei campioni esaminati. E' da sottolineare che nel caso dei fungicidi, i pesticidi più ricorrenti sono proprio quelli che l'Epa statunitense classifica come sospetti o possibili cancerogeni. Le città più a rischio sono quelle dove le Usl sono più efficaci: così in testa alla classifica degli ortofrutticoli contaminati abbiamo Trento (79%), Modena (75%), Trieste (68%), Rimini e Udine (58%). Tuttavia va segnalato che la provenienza più a rischio è quella dell'Italia del Sud (Campania, Sicilia e Puglia), dalla Spagna e dal Terzo Mondo. Questa è la realtà di ciò che mangiamo ogni giorno. I dati in possesso della Poli Bortone, invece, sono quelli dell'osservatorio del suo ministero che riguardano un campione di aziende che per l'80 per cento praticano una razionalizzazione della chimica, attraverso la difesa guidata e integrata, che per ora interessano solo 150 mila ettari di terreno, su un totale nazionale di milioni di ettari. Il problema è quello di rimuovere le cause e impostare una corretta politica agroambientale, come già è stato tracciato nel Piano Decennale dell'Ambiente. Sono a disposizione per i prossimi quattro anni, in base a due regolamenti europei, circa tremila miliardi per un'agricoltura ecocompatibile. Inoltre svariate migliaia di miliardi dei fondi europei si possono impiegare seguendo tali linee. Infine l'attuazione della direttiva 91/414 impone all'Italia compiti gravosi nel settore dei pesticidi e Legambiente chiede da anni l'istituzione di un'Agenzia che faccia piazza pulita del centinaio di pesticidi, possibili e sospetti cancerogeni, ammessi nella nostra dieta alimentare. Certo l'armonizzazione comunitaria non porta sempre novità positive, com'è il caso dell'ordinanza del ministero della Sanità del 12 luglio scorso, che ha innalzato i limiti di tre pesticidi a rischio. Nel caso del luppolo, impiegato nella preparazione della birra, i limiti dei ditiocarbammati sono stati elevati di 125 volte! L'obiettivo per rilanciare la nostra agricoltura è la qualità: importanti imprese nel campo dell'alimentazione per l'infanzia, grosse catene di produzione e di distribuzione e i Comuni nelle refezioni scolastiche impongono elevati standard di qualità attraverso la minimizzazione dei livelli dei residui, il bando di quelli sospetti cancerogeni e l'introduzione di cibi biologici. Diamoci allora l'obiettivo realistico di dimezzare i consumi dell'agrichimica da qui al Duemila, come già accade in Olanda e Danimarca; di far decollare l'agricoltura biologica a partire dal sistema delle aree protette; e di istituire l'Agenzia sui pesticidi per dare certezze ai produttori e ai consumatori. Cesare Donnhauser Segreteria nazionale Legambiente


DALL'ORTO AL PIATTO Quanti sospetti per le verdure bell'e pronte Ricerca d'avanguardia dietro le confezioni «IV gamma»
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE
LUOGHI: ITALIA, BOLOGNA (BO)

L'ESTATE è il periodo dell'anno in cui il consumo di ortaggi e frutta è maggiore; questi prodotti arricchiscono infatti la dieta di vitamine, sali minerali, fibre, acidi organici, carboidrati, sostanze pectiche, fenoli e polifenoli e sono un cibo gradevole, specialmente quando fa molto caldo. All'Università di Bologna, si stanno mettendo a punto dei prodotti ortofrutticoli la cui preparazione e confezione è denominata «IV gamma», sulla scorta di quanto già avviene in Francia. Si tratta di ortaggi freschi, prelavorati in modo da renderli idonei al consumo diretto, di uso immediato, confezionati in buste o in vaschette. Tuttavia in Italia questo genere di prodotto stenta a diffondersi. Diverse sono le motivazioni, ma si possono ricondurre alla tipologia aziendale che non sempre possiede le caratteristiche necessarie per assicurare un alto livello qualitativo e soprattutto per garantire l'aspetto igienico sanitario, tenuto conto che si tratta di prodotti dotati di notevole deperibilità. Possono, infatti, avvenire contaminazioni estranee dovute a fitofarmaci, a residui di terra, a contenuti in nitrati e in nitriti elevati, dovuti a concimazioni erronee (su questo tema esiste un interessante progetto del Consiglio nazionale delle ricerche che ha lo scopo di studiare le tecniche colturali correlandole al contenuto in nitriti e in nitrati), alla presenza di metalli pesanti derivanti dall'acqua di irrigazione, a contaminazione patogena e non patogena. Quest'ultima può verificarsi sia prima della raccolta (qualora vengano ancora usati reflui fognari urbani, o concimi organici di origine umana), sia durante la preparazione industriale. Schematicamente le fasi del processo possono riassumersi in: raccolta, che deve coincidere con la corretta fase di maturazione dei prodotti secondo quanto puntualizzato dalla ricerca che ha stabilito uno stadio di raccolta per ciascun ortaggio e frutto attraverso tabelle dotate di sequenze fotografiche (come è d'altra parte è stato realizzato pure per i fiori); quindi una prerefrigerazione ad acqua sotto vuoto o ad aria. Seguono diversi lavaggi e il risciacquo, utilizzando acqua clorata. Nel caso di ortaggi come patate e carote, che devono essere pelati o affettati, sono allo studio sistemi di taglio con apparecchiature laser, a lamine d'acqua in pressione, sistema che dovrebbe ridurre i processi di imbrunimento a base ossidativa sulle superfici di taglio. Le fasi successive comprendono lo sgocciolamento, l'asciugatura, la pesatura, il confezionamento in buste sigillate o in vaschette avvolte in fili plastici. Infine, prima del trasporto, la refrigerazione a 0-4 C, e la messa in atto della catena del freddo, in quanto l'elevata umidità delle confezioni, l'eventuale presenza di ferite, la composizione dell'aria all'interno delle confezioni possono scatenare lo sviluppo della carica microbica. Interessante è anche sapere che tra i diversi microrganismi c'è un'azione antagonista, e un effetto inibitore dello sviluppo è esercitato da spezie naturali come cipolla, aglio, chiodi di garofano, senape, cannella. Recente è la scoperta che nei succhi di carota e di radicchio rosso esiste un'attività antimicrobica. Poiché le norme attualmente in vigore non permettono l'impiego di additivi antimicrobici, si ipotizza di realizzare la stabilizzazione microbica mediante spezie o ancora miscelando diverse specie vegetali. Un'altra tematica riguarda la possibilità di prestabilire in base alla popolazione batterica e alla carica batterica la serbevolezza commerciale, espressa in giorni. Allo stesso modo si cerca di conoscere la presenza di marcatori biochimici (ad esempio, livelli di glucosio, di saccarosio, di acido acetico, ecc.) formatisi in seguito all'attività metabolica dei microrganismi per correlarli al deterioramento microbico, e risalire al microrganismo presente durante la fase di conservazione, microrganismo diverso da vegetale a vegetale. Probabilmente acquistando un semplice sacchetto di carote è difficile ipotizzare quanto stia alle spalle e come la ricerca in questo campo sia in continua evoluzione. Elena Accati Università di Torino


NEUROSCIENZE Troppe pillole Processo agli psicofarmaci
Autore: MONACO FRANCESCO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: CHARCOT JEAN MARTIN
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Neurologia

DALL'ALBA al domani» è il titolo molto suggestivo del recente simposio che ha voluto celebrare degnamente a Parigi il centenario della morte di Jean-Martin Charcot, il più grande neurologo di tutti i tempi, maestro, per un breve periodo, anche di Freud. A lui si devono la descrizione e l'inquadramento clinico della maggior parte delle malattie del sistema nervoso e ancora oggi, nonostante tutti i progressi della scienza, rimane un punto di riferimento nodale per i cultori delle neuroscienze. E questo ancor più perché la frammentazione della disciplina in varie branche (neurologia, psichiatria, neuropsichiatria infantile), ancorché dettata dallo sviluppo delle conoscenze nelle specifiche aree, ha provocato una netta e progressiva scissione (potremmo dire, paradossalmente, schizofrenica) del sapere neurologico da quello psichiatrico, con ricadute culturali negative in entrambi i campi. Certamente non è più pensabile nè auspicabile che lo specialista moderno possa gestire la neuropsichiatria nella sua globalità (dai tumori cerebrali alla depressione) alla stessa maniera enciclopedica di Charcot; tuttavia, una disposizione culturale più incline all'unità che non alla separazione favorirebbe indubbiamente l'approccio clinico al paziente e alla sua terapia. Ciò, naturalmente, senza nulla togliere agli enormi progressi nella diagnosi e cura resi possibili da un lato dall'utilizzo delle nuove tecniche strumentali (Tac e risonanza magnetica, fra le ultime) e dall'altro dall'impiego dei neuropsicofarmaci (a partire dagli Anni 60). Pare quindi opportuno fare, nel bel mezzo del «decennio del cervello» (dichiarazione Onu), il punto sullo stato dell'arte della neurologia, con le sue luci e ombre, alle soglie del 2000. E' indubbio che l'affinamento delle capacità diagnostiche permette oggi di iniziare quanto prima una terapia (medica o chirurgica), aumentando così le possibilità di guarigione del disturbo. Pensate, ad esempio, che cosa voglia dire fare diagnosi di trauma cranico in pronto soccorso ai fini neurochirurgici (intervento immediato uguale vita salvata). Vi sono innumerevoli altri esempi del genere, anche se meno drammatici, ma pur sempre rapidamente risolutori di situazioni critiche. Vorrei tuttavia soffermarmi sugli aspetti terapeutici che, in ultima istanza, sono quelli che forniscono un indice indiretto dell'avanzamento delle ricerche. La dicotomia cervello-mente è qui fortemente sbilanciata a favore della mente, poiché, come accennato prima, sono stati gli psicofarmaci (capostipite, il Valium) a modificare radicalmente l'approccio terapeutico alla patologia «psichiatrica» vera e propria (nevrosi e psicosi). A trent'anni dall'epoca rivoluzionaria che vide le prime prescrizioni di benzodiazepine (la classe chimica alla quale appartiene la maggior parte dei tranquillanti) una severa autocritica deve essere condotta da parte degli specialisti che, spinti dall'irrazionale e onnipotente desiderio del «tutto e subito», abusarono nelle quantità di sostanze somministrate ai pazienti, sostituendo così ai metodi coercitivi del triste passato una più moderna, ma non meno deprecabile, «camicia di forza chimica». Con il passare degli anni e i cambiamenti culturali della nostra società occidentale, si è transitati lentamente verso due fenomeni distinti: 1) l'abuso degli ipnoducenti (farmaci contro l'insonnia); 2) l'uso, in progressivo aumento, di farmaci contro la depressione (la «pillola della felicità»). A mio avviso, entrambe queste classi di farmaci vanno adoperate esclusivamente in caso di effettivo bisogno e, comunque, non in maniera indiscriminata. Un corretto e qualificato sostegno psicoterapeutico può essere di grande giovamento. Nel campo delle malattie organiche del sistema nervoso, ovvero di quelle con lesioni riscontrabili ai comuni esami strumentali, il discorso si fa più complesso. I più grandi progressi sono stati compiuti dalla terapia dell'epilessia e del morbo di Parkinson. Nel primo caso, essi sono stati dovuti alla scoperta di nuove molecole sintetiche che agiscono sui meccanismi di trasmissione dell'impulso nervoso (sia eccitatori che inibitori) e all'applicazione del monitoraggio plasmatico dei farmaci; nel secondo, all'introduzione in terapia della L-Dopa, sostanza che si è dimostrata carente nel cervello dei soggetti parkinsoniani. Meno brillanti sono stati invece i risultati nella terapia di altre patologie, quali le miopatie (malattie muscolari) e la sclerosi multipla, anche se l'uso sperimentale dell'interferone beta ha fornito dati incoraggianti. Ho voluto lasciare per ultimo, proprio perché è il campo socialmente più rilevante, l'invecchiamento cerebrale e le problematiche connesse (ictus, demenza). Il discorso da complesso diventa delicato in quanto, nonostante una letteratura sterminata, non è possibile affermare con certezza che esista una evidenza scientifica di provata efficacia per alcuno dei farmaci attualmente disponibili. Proprio per queste ragioni tutti i neurofarmaci indicati dalle ditte produttrici come vasculoprotettori, nootropi, cerebroattivi o con altra terminologia immaginifica, sono stati eliminati dal prontuario terapeutico. Ulteriori studi dovranno pertanto essere intrapresi per colmare le lacune terapeutiche. Ritengo, infine, che un ruolo non indifferente debba essere svolto dalla riabilitazione, sia neuromotoria che psicosociale. Una paralisi guarirà prima se la depressione conseguente verrà alleviata, e la collaborazione alla fisioterapia sarà più efficace. E, come sempre, mente e cervello agiranno insieme. Francesco Monaco Università di Sassari


VERDETTO FDA Se la nicotina è come l'eroina...
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Fumo, sigarette, dipendenza

FARMACODIPENDENZA o solo piacere? E' possibile fumare e non essere schiavi della nicotina? Ecco il dilemma dei fumatori. Secondo l'ente americano che controlla e regola l'uso dei farmaci in Usa, la Food and Drug Administration, i fumatori sarebbero veri farmacodipendenti poiché la nicotina è da considerarsi una droga, alla stregua di morfina e cocaina. Essi dovrebbero dunque sottostare a tutte le disposizioni che regolano l'uso e la vendita dei farmaci. Secondo un programma della rete televisiva Abc, i fabbricanti di sigarette avrebbero manipolato sinora il contenuto di nicotina nelle sigarette allo scopo di mantenere la dipendenza dei fumatori alla nicotina. Secondo la definizione attribuita agli stessi fabbricanti, «il fumo è senza dubbio il veicolo più efficace per la nicotina e la sigaretta rappresenta il metodo migliore di somministrazione». Ovviamente tali affermazioni vengono energicamente respinte dall'industria del tabacco. Mentre la feroce polemica continua, anche davanti alle commissioni parlamentari, i farmacologi specialisti dell'effetto della nicotina sono al lavoro. Essi cercano nuove soluzioni per evitare i danni e mantenere la relazione sigaretta/fumatori a un livello accettabile. Una definizione pratica di dipendenza comprende l'uso giornaliero, la difficoltà a non fumare ogni giorno e l'alta probabilità di provare un forte desiderio a riprendere, accompagnato spesso da disturbi ogniqualvolta si tenti di cessare. Secondo tale definizione, il 90 per cento circa dei fumatori cadrebbe nella zona della farmacodipendenza vera e propria mentre un 10 per cento circa, cioè coloro che non fumano giornalmente o fumano meno di 5 sigarette al giorno o perfino solo in certe situazioni, rientrerebbe nella categoria dei «salvabili». Le sigarette americane e quelle europee contengono in media 8-9 mg di nicotina. Di questa, solo il 10 per cento viene assorbito dai polmoni ed è reperibile nel sangue o nella saliva del fumatore, sotto forma di composto cotinina, il metabolita (prodotto) principale della nicotina. Qual è il livello di nicotina accettabile perché non si crei dipendenza? Due noti ricercatori dell'Università di S. Francisco e del National Institute on Drug abuse di Baltimora, N. Benowitz e J. Henningfield, hanno proposto in un recente articolo nel New England Journal of Medicine una soluzione che potrebbe soddisfare il fumatore come gusto e stimolazione senza creare una vera dipendenza dal fumo. Si tratterebbe di regolare (per legge?) il contenuto di nicotina nelle sigarette a un livello massimo di 0,15-0,17 mg per sigaretta. Tale riduzione potrebbe essere graduale, allo scopo di non rendere la vita troppo difficile ai fumatori già iniziati. Per i neofumatori giovani tale strategia eviterebbe, secondo gli esperti, l'inizio di una schiavitù irreversibile. Malgrado la proposta sia seria e allettante, non mancano certo le obiezioni. Si sa a priori che il passaggio da sigarette ad alto contenuto di nicotina a quelle a basso contenuto (tra l'altro già in atto da diversi anni) provoca come reazione un aumento del numero di sigarette consumate al giorno o lo sviluppo, da parte del fumatore, di una tecnica più efficace per estrarre mediante aspirazioni più intense il massimo di nicotina. Oltre alla nicotina, sono presenti nel fumo altre componenti dannose, come le scorie tossiche provocate dall'alta temperatura di combustione e l'ossido di carbonio. Entrambi sono già oggi evitabili mediante speciali accorgimenti sviluppati dall'industria del tabacco ma non ancora accolti dal pubblico. Gli autori dell'articolo e i proponenti della nuova strategia tengono a precisare che lo scopo non è quello di permettere a milioni di fumatori di continuare a fumare tranquillamente, ma quello diametralmente opposto di prevenire il sorgere della tossicodipendenza tra i nuovi e più giovani fumatori mediante l'uso di una sigaretta più sicura, cioè meno dannosa. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois


STORIA DELLA SANITA' Brividi alla lezione di anatomia Nel '700 dissezioni come spettacolo nelle case private
Autore: GIOCELLI ROSALBA

ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, MEDICINA E FISIOLOGIA, LIBRI
PERSONE: VANZAN MARCHINI NELLI ELENA
NOMI: ZORZI MARINO, VANZAN MARCHINI NELLI ELENA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «Dalla scienza medica alla pratica dei corpi»

LA politica sanitaria deve innanzi tutto occuparsi di preservare la salute mantenendo un equilibrio tra uomo e ambiente, al di sopra degli interessi del singolo: un suggerimento che arriva dal Quattrocento, dal tempo e dalla terra dei dogi. Il Centro Italiano di Storia Sanitaria e Ospitaliera del Veneto inizia, con un volume dedicato agli archivi marciani, la pubblicazione di una collana di fonti e manoscritti per la storia della sanità, seguita attraverso l'evoluzione della professione medica e delle leggi per l'organizzazione della vita cittadina: la raccolta dei rifiuti, la pulizia di strade e canali, la lotta alle contraffazioni alimentari. «Dalla scienza medica alla pratica dei corpi», edito da Neri Pozza a cura di Nelli-Elena Vanzan Marchini, esplora 200 codici manoscritti di grande valore e un migliaio di volumi a stampa dedicati alla scienza medica, alla botanica e alla farmacologia, appartenenti alla Biblioteca Nazionale Marciana di Venezia. E' il direttore della Marciana, Marino Zorzi, a ricostruire sul filo di queste carte il percorso del sapere medico scientifico, dalla Grecia classica e dall'Arabia attraverso traduzioni latine. Nucleo iniziale della quattrocentesca Biblioteca Marciana è la raccolta di codici donati dal cardinal Bessarione, tra cui spicca il «Gr.Z.269», che contiene gran parte dell'opera attribuita a Ippocrate di Coo, fondatore della medicina greca: è una preziosa copia manoscritta del X sec. d. C. acquisita dalla Biblioteca nel 1473. Nei successivi documenti marciani si fa spesso riferimento al «teatro anatomico» in campo S. Giacomo dell'Orio per la dissezione dei cadaveri e lo studio del corpo umano: qui una volta all'anno medici e chirurghi seguivano veri e propri corsi di aggiornamento. Fino al '700 lo studio dell'anatomia rimase ai limiti della legittimità, colpevolizzato dalla Chiesa. Era tale la curiosità che le dissezioni avvenivano persino in case private. Nell'Ottocento il «teatro anatomico» venne abbandonato e le dissezioni praticate negli ospedali: era sui corpi dei mendicanti che si cercava di cogliere il perché delle malattie, gli insuccessi di certi medicamenti. La chirurgia, assimilata al mestiere del barbiere cavadenti, venne finalmente riconosciuta come scienza. La cura della peste scatenò la guerra tra medici-chirurghi e medici-fisici, testimoniata dagli atti dei due collegi pubblicati per la prima volta. Leggiamo dallo studio di Vanzan Marchini che i chirurghi erano i più colpiti dal contagio «avendo contatti diretti con i malati... poiché rientrava nelle loro competenze il trattamento dei bubboni, (mentre), prima di entrare in casa del malato, il medico (fisico) faceva aprire porte e finestre e si faceva precedere da uno scaldino sul quale bruciavano sostanze aromatiche. Quando entrava nella stanza del cliente, teneva con una mano vicino al naso un mazzetto di erbe profumate e con l'altra un legno di ginepro acceso» per tenere lontana la pestilenza. In un trattato francese del 1548, così si consiglia al medico fisico di comportarsi durante la visita a un appestato: «Guarderete un po' da lontano il vostro paziente e lo interrogherete sul suo male. Dando la schiena al malato, con la mano gli sentirete il polso, la fronte, il cuore, tenendo sempre qualche odore vicino al naso». Il collegio medico- fisico non fece fatica a riottenere la supremazia, per superiorità numerica: a Venezia un solo chirurgo sopravvisse alla peste del 1443, due resistettero alla peste del 1630. Di prossima pubblicazione la raccolta di tutte le leggi sulla sanità della Serenissima. Rosalba Giorcelli


ARCHIVI Piccioni irriverenti
AUTORE: R_G
ARGOMENTI: STORIA DELLA SCIENZA, MEDICINA E FISIOLOGIA, LIBRI
PERSONE: VANZAN MARCHINI NELLI ELENA
NOMI: VANZAN MARCHINI NELLI ELENA
LUOGHI: ITALIA, VENEZIA (VE)
NOTE: «Dalla scienza medica alla pratica dei corpi»

Nel corso della sua ricerca di fonti per la storia della sanità, la dottoressa Vanzan Marchini ha constatato la cattiva conservazione di documenti eccezionali e racconta: «Nel 1985, mentre preparavo una mostra sull'Ospedale Civile di Venezia, ho trovato antiche cartelle cliniche coperte dagli escrementi di piccioni. Gli archivi sono tuttora sparpagliati, la parte relativa al '900 era chiusa in una chiesetta cadente, dove ho fatto l'inventario a mio rischio e pericolo, e anche lì i documenti erano coperti di incrostazioni. Adesso sono state messe delle reti per proteggere le cartelle dai piccioni, ma bisognerebbe ristrutturare la chiesa e pulire questa documentazione di estremo interesse: basti pensare alla possibilità di studiare l'incidenza delle malattie prima e dopo la costruzione del complesso industriale di Porto Marghera. Non vorrei che si ripetesse la storia degli Archivi dell'Ospedale Giustinian, finiti sotto l'acqua alta e quindi bruciati».(r. g.)


DIABETE INFANTILE La vita è più facile se c'è lo psicologo
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, BAMBINI, PSICOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

IN Italia un bambino su 3 mila è diabetico, e ogni anno, su 100 mila soggetti minori di 16 anni, sette diventano diabetici. Anche in Francia sette su 100 mila, di più nel nord dell'Europa. Circa il 15 per cento dei casi ha inizio prima dei 4 anni, il massimo di incidenza è fra 10 e 12 anni. Parliamo del diabete tipo I o insulino-dipendente, quello che deriva dalla distruzione delle cellule beta delle «isole» del pancreas, la fabbrica dell'ormone insulina: una distruzione specifica, in quanto le altre cellule non sono toccate, e progressiva, sì che in qualche anno la scomparsa è totale. Oggi si sa che il diabete è una malattia autoimmune, benché non sia chiaro il meccanismo esatto della lesione. Vi sono anomalie dell'immunità umorale, essenzialmente auto-anticorpi circolanti: anticorpi anti- isole, anticorpi anti-insulina e un anticorpo contro una proteina, la Gad o decarbossilasi dell'acido glutammico. Ma principale protagonista è l'immunità cellulare, come dimostra il trasferimento della malattia a razze di topi indenni, iniettando linfociti di topi diabetici. Gli studi sui gemelli diabetici dimostrano che le stigmate della malattia, gli anticorpi, sono presenti già anni prima della comparsa dei sintomi. Risulta inoltre che circa il 10 per cento dei casi si ripetono nella famiglia. L'insieme di geni Hla, che presiede all'immunità, è interessato nel 95 per cento dei casi; studi recenti hanno dimostrato che il diabete è legato ai gruppi Dq alfa e beta. Il dosaggio degli anticorpi nella fase silenziosa permetterebbe di svelare il rischio della malattia, ma purtroppo non si hanno mezzi per arrestare l'irreversibile distruzione delle cellule beta. Malattia non guaribile, che espone a complicazioni: questo è l'aspetto buio. Ma è anche malattia curabile, sì da poter esercitare un ottimo controllo sulla glicemia. Sono allo studio nuove insuline che agiscono quasi immediatamente e altre con azione ritardata, nonché nuove vie di somministrazione accanto a quella sottocutanea: le vie orale, nasale, rettale, intraperitoneale in determinate circostanze. Microinfusori impiantabili sotto la pelle e telecomandabili sono in uso, si studiano il pancreas artificiale e i trapianti di «isole». Certo il trattamento ideale non è per domani, ma si fanno progressi. Comunque oggi il punto essenziale è che l'obiettivo può essere raggiunto soltanto con la collaborazione del bambino e della famiglia, quindi trattamento adeguato alla realtà sociale e psicologica. Il bambino, a parte le necessità terapeutiche, può avere una vita come tutti gli altri: pressoché normali l'alimentazione, l'attività sportiva, le vacanze e viaggi. Ma il diabete è lì, con tutte le sue difficoltà e il peso negativo. Un'analisi psicologica del bambino e della struttura famigliare è utile. Il bambino e i genitori devono capire la natura della malattia e gli obiettivi della terapia, nonché talune tecniche, come la regolazione delle dosi di insulina. Medico, dietista, psicologo devono partecipare. L'Associazione per l'aiuto ai giovani diabetici, che da tempo se ne occupa, ha molte iniziative a questo scopo: corsi di formazione per genitori e bambini, incontri in gruppo di bambini con lo psicologo e il medico, soggiorni di educazione all'autocontrollo per adolescenti. Altre forme di diabete infantile, molto rare, sono dovute a lesioni del pancreas nel suo complesso, come accade nella mucoviscidosi e nell'emocromatosi. Vi sono poi casi di un particolare diabete, simile a quello dell'adulto, non insulino-dipendente, dalle cause ignote, che gli americani chiamano Mody (maturity onset diabetes in the young), caratterizzato dall'inizio precoce, prima dei 25 anni, e da un'eredità autosomica dominante. Si è dimostrato di recente che è legato a una anomalia del gene glucochinasi nel cromosoma 7. Ulrico di Aichelburg




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