TUTTOSCIENZE 8 febbraio 95


MOLECOLE DI MEMORIA I nostri ricordi sono fissati e custoditi in speciali proteine che si formano nelle cellule del cervello
Autore: CALISSANO PIETRO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: c-Amp, Creb

IL cervello è dotato di due tipi di memoria: una di breve durata, detta memoria di lavoro perché serve per i ricordi collegati con la nostra vita quotidiana, e una di lunga durata, depositaria dei nostri ricordi più stabili e remoti e quindi indispensabile per la consapevolezza di noi stessi e del mondo che ci circonda. Incominciamo ora a identificare i meccanismi chimico-molecolari tramite i quali operano queste due memorie. Ciò che sta emergendo è che la memoria di breve durata impiega meccanismi di rapidissima attuazione (secondi o meno) e di altrettanto rapida cancellazione caratterizzati da modificazioni chimiche di proteine preesistenti che in termini biochimici sono definite modificazioni post-traslazionali. La memoria di lunga durata, invece, per instaurarsi impiega meccanismi più lenti, minuti od ore, necessari perché si basano sulla sintesi di nuove proteine. Queste macromolecole, come ci ricordano spesso anche quotidiani e riviste che si occupano della nostra salute, sono i mattoni del nostro organismo. Il cervello ne possiede in numero superiore agli altri organi perché proprio sulle proteine deve basare e continuamente rimodellare quella rete di collegamenti nervosi (ve ne sono centinaia di milioni per ogni millimetro cubo di materia cerebrale) che sono alla base della unicità di ciascuno di noi. I neurobiologi sono alla ricerca dei precisi meccanismi chimici e delle particolari proteine nella fissazione dei ricordi. Il cervello ne impiega decine di migliaia di differente natura per le sue molteplici funzioni. Quali, fra queste migliaia, sono quelle impiegate nel processo di apprendimento e memorizzazione? Negli ultimi mesi sono emerse alcune risposte di estremo interesse. Anticipiamo al lettore due acronimi che dovrà fissare nella propria memoria di lavoro per seguire meglio le prossime righe: c-Amp e Creb. Per affrontare lo studio di questi processi si è adottato un approccio che viene di norma definito con il termine di riduzionismo: analizzare organismi e sistemi più semplici ed estrapolare i risultati a sistemi nervosi più complessi. Questo approccio si basa sull'ipotesi - ormai confermata da un gran numero di reperti sperimentali - che ciò che vale per un moscerino vale anche per un elefante. Tra i due organismi vi sono numerose differenze, ma i meccanismi chimici e molecolari alla base delle loro funzioni più importanti sono molto simili, spesso identici. Poiché è più semplice studiare un mollusco o un moscerino, si è sempre preferito lasciare gli elefanti nella savana e portare in laboratorio, appunto, molluschi o moscerini. E proprio dallo studio di uno di quest'ultimi (Dro sophila melanogaster) e di altri animali dotati di sistemi nervosi semplici, giungono in questi mesi risultati che hanno permesso di identificare due sostanze che, con funzioni differenti ma integrate, svolgono un ruolo determinante nel processo di fissazione dei ricordi. Le conoscenze incominciano a essere così dettagliate che non è azzardato prevedere entro qualche anno una loro applicazione per la messa a punto di farmaci indirizzati al miglioramento delle nostre facoltà mnemoniche. Tanto per convincere il lettore della bontà dell'approccio riduzionista nello studio della memoria, inizieremo questa breve descrizione partendo dal sistema più semplice. Già una decina di anni fa, un gruppo di ricercatori americani che faceva capo a Kandell presso la Columbia University di New York e che annoverava anche taluni italiani fra i quali P.G. Montarolo, aveva messo a punto un sistema costituito da due sole cellule funzionalmente collegate fra loro. Una delle due era un neurone sensoriale, devoluto a ricevere gli stimoli, l'altro era un neurone motorio, la cui funzione è quella di emettere una risposta. Questi ricercatori dimostrarono che, in determinate condizioni, questi due neuroni erano in grado di «memorizzare» uno stimolo per molte ore. Naturalmente il ricordo non riguardava una terzina della Di vina Commedia ma uno stimolo molto più semplice, diciamo il corrispettivo di un punto o di una virgola. Il fatto sorprendente era che due sole cellule, rimosse dal ganglio di un mollusco noto come Aplysia e coltivate in una piastra di coltura, avevano ricostituito un circuito sinaptico che era in grado, non solo di permettere la comunicazione fra i due neuroni, ma anche di memorizzare quella loro scarna conversazione, basata sullo scambio di segnali elettrici trasmessi con un codice che oggi sappiamo valere tanto per i neuroni di quel mollusco quanto per quelli del nostro cervello. Nel corso di quello studio si poté dimostrare per la prima volta il ruolo fondamentale che svolge nel processo di memorizzazione un composto noto come adenosin-monofosfato ciclico o c-Amp. Questa sostanza appartiene alla categoria dei secondi messaggeri cioè di molecole che servono ad amplificare, all'interno della cellula, i segnali (detti primi messaggeri) che provengono dal mondo esterno. Il fatto che il c-Amp svolgesse un ruolo cruciale fu in seguito confermato estendendo queste ricerche alla Drosophila melanogaster, particolarmente impiegate dai genetisti per la possibilità di manipolarle geneticamente e di studiarne il comportamento. Si osservò che mutanti di Dro sophila incapaci di generare o di demolire il c-Amp, presentavano profondi deficit nelle capacità di apprendimento e memorizzazione. In questa progressione di studi dal più semplice al più complesso non potevano mancare i topi, usuali rappresentanti sperimentali dei mammiferi. La generazione di topi transgenici, nei quali cioè si era indotta, tramite la manipolazione del loro genoma, un'alterazione nella via metabolica che coinvolge il c-Amp, dimostrò con altre dovizie di particolari che risparmiamo al lettore non addetto ai lavori (una eccellente panoramica è pubblicata sulla rivista Cell, vol. 79, pag. 5-8) il coinvolgimento cruciale di questo secondo messaggero nella via che conduce alla fissazione dei ricordi. Eccitanti come il té o il caffè stimolano le nostre capacità intellettive tramite un aumento nella concentrazione, appunto, del c-Amp. Affinché un dato ricordo possa iscriversi stabilmente nei nostri neuroni è necessaria la sintesi di nuove proteine su istruzione dei geni presenti nel nucleo di ogni cellula. Ora, il c- Amp svolge un importante ruolo di raccordo fra i geni e gli eventi elettrici che si verificano a livello dei collegamenti nervosi. Ma il c-Amp (le cose non sono mai semplici) non agisce direttamente sui geni, ma tramite una proteina, Creb, il cui acronimo sta appunto a significare in inglese questa funzione di intermediaria fra il c-Amp ed i geni. La sfida che ora attende i neurobiologi è quella di identificare il complesso di proteine che, sintetizzate sotto l'influenza del complesso c-Amp-Creb, è devoluto a fissare i ricordi per giorni, mesi od anni. Possiamo anticipare che alcune di queste proteine sono già nelle mani dei ricercatori. In sostanza, con il procedere a ritmo sempre più accelerato che caratterizza gli studi nelle scienze medico-biologiche odierne (con l'Italia e i suoi numerosi talenti molto spesso costretta alla finestra da scarsezza di risorse e da carenze organizzative) si vanno delineando con sempre maggiore precisione i meccanismi che presiedono all'apprendimento e alla memoria cioè di quell'insieme di processi chimico-molecolari che si possono analizzare anche in singole cellule coltivate in vitro e che sono alla base della nostra personalità e unicità di esseri umani. Pietro Calissano Università di Roma a Tor Vergata


INCHIESTA Gli italiani riabilitano la chimica
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: CHIMICA, ECOLOGIA, INCHIESTA, SONDAGGIO, STATISTICHE, AMBIENTE
NOMI: CAGLIOTI LUCIANO
ORGANIZZAZIONI: ASTRA, DEMOSKOPEA, FEDERCHIMICA
LUOGHI: ITALIA

OGNI giorno, per ognuno di noi, il primo incontro con la chimica avviene di mattina presto, quando ci laviamo. L'operazione pulizia riesce perché 18 atomi di carbonio, 35 di idrogeno e 2 di ossigeno compongono certe molecole che comunemente chiamiamo sapone e che, più tecnicamente, sono un tensioattivo anionico: una miscela di sali alcalini di acidi grassi, atta a rimuovere lo sporco che si accumula sulla nostra pelle. La frequentazione con la chimica prosegue quando tocchiamo la plastica di cui è fatto il manico dello spazzolino da denti, quando ci spruzziamo addosso una goccia di profumo o di deodorante, quando viaggiamo in auto ossidando la benzina nei cilindri del motore e depurando i gas di scarico con il platino della marmitta catalitica, quando andiamo a tavola e ci nutriamo con cibi che senza chimica non sarebbe possibile produrre in quantità sufficiente nè conservare, e così via. Per non parlare dei farmaci, dal banale acido acetilsalicilico che prendiamo per far passare il mal di testa o un po' di febbre, fino agli antibiotici più sofisticati. A fine giornata, salutiamo la chimica spegnendo la lampada alogena che sta sul comodino da notte e che, grazie al gas che contiene, ci consente di risparmiare energia, e quindi una qualche forma di inquinamento remoto, là dove una centrale termoelettrica brucia metano, carbone o derivati del petrolio affinché noi possiamo addormentarci su un libro della Tamaro. Dalla prospettiva quotidiana, passiamo a quella storica. Nell'ultimo secolo la speranza di vita nel nostro Paese è cresciuta di un terzo: oggi supera i 74 anni per gli uomini e gli 80 per le donne. In buona misura questo risultato si deve al fatto che la chimica ha migliorato la qualità della nostra esistenza in salute e in malattia. Eppure, che si guardi alla giornata o alla Storia, l'impressione è che la chimica esista soltanto quando risuonano parole come Seveso o Bophal. Così si crea, oltre tutto, una confusione grave tra una disciplina scientifica - che in quanto tale persegue soltanto la conoscenza, e quindi in sè può essere soltanto positiva - e le sue applicazioni commerciali, che possono essere buone, meno buone e cattive. Invano Luciano Caglioti scrisse negli Anni Settanta un libro dal titolo eloquente: «I due volti della chimica». Niente da fare: la chimica rimane una scienza criminalizzata. Anche perché «chimico» è diventato l'opposto di «naturale». Tutto ciò che è naturale e buono, tutto ciò che è chimico è pericoloso. Come se le molecole sintetizzate dalla chimica non fossero il più delle volte esattamente quelle naturali. Tuttavia le cose stanno lentamente cambiando. Lo indica una ricerca d'opinione condotta in sei anni, dal 1989 a oggi, dall'Astra e dalla Demoskopea. Federchimica, che l'ha commissionata, ne ha appena pubblicato i dati. Intanto, su un campione di duemila persone tra 14 e 74 anni di età rappresentativo del nostro Paese, risulta che coloro che ammettono di non sapere nulla sull'industria chimica sono diminuiti dall'80,6 per cento del 1989 al 70,4 del 1994. In secondo luogo il 67 per cento del campione dice di avere fiducia nelle informazioni che vengono fornite da scienziati ed esperti, e il 60 per cento confida anche nei documentari televisivi e nelle associazioni per la difesa del consumatore. In terzo luogo - ed è l'aspetto più interessante - negli ultimi sei anni l'immagine della chimica è molto migliorata, se è vero che il 72 per cento del campione interpellato ritiene che «l'industria determina non solo la crescita economica ma anche il raggiungimento di una elevata qualità della vita». Permane - ed è ben comprensibile - una diffusa sensazione che i problemi dell'inquinamento siano pesanti e che le informazioni sulle attività chimiche siano insufficienti e talvolta volutamente occultate. Vicende come quella dei vagoni ferroviari carichi di amianto e sparsi per l'Italia certo non gioveranno. Ma nell'insieme sembra che l'atteggiamento dei cittadini si evolva verso una maggiore razionalità. Che significa anche, per fortuna, un maggior senso critico nella sorveglianza affinché dei «due volti della chimica» prevalga sempre più nettamente quello benefico. Piero Bianucci


UNO STUDIO NEGLI USA Gli occhi non servono soltanto per vedere Scoperta: nei ciechi conservano la funzione di regolare i bioritmi
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: BIOLOGIA, RICERCA SCIENTIFICA
ORGANIZZAZIONI: HARVARD UNIVERSITY
LUOGHI: ITALIA

GLI occhi non servono solo per vedere. Lo dimostra uno studio fatto negli Stati Uniti. Oltre 200 mila italiani hanno una vista così ridotta da essere quasi ciechi. Tra questi un 10 per cento circa non ha la minima percezione della luce. Esiste però un'altra funzione degli occhi che è molto meno conosciuta, la sincronizzazione dei ritmi biologici (sonno-veglia, comportamento sessuale, funzioni endocrine). La stimolazione visiva dovuta all'effetto della luce sulla retina è l'agente sincronizzatore di quell'orologio interno chiamato pacemaker circadiano (quasi 24 ore) che risiede nella parte del cervello chiamata ipotalamo. Si è creduto finora che in mancanza della stimolazione retinica mancasse completamente nei ciechi anche la regolazione dei ritmi biologici dipendenti dall'ipotalamo. Difatti nella maggioranza il compito di regolazione è delegato a un pilota automatico che non è perfettamente sincronizzato sulle 24 ore. Per questo, malgrado una vita regolare dal punto di vista del sonno, ore di lavoro e contatti sociali, capita che il ciclo esca di fase e produca periodi di insonnia. Si è notato che in certe persone cieche il ritmo si mantiene ben sincronizzato sulle 24 ore come se il segnale luce continuasse ad agire. In tale caso bisogna postulare la presenza di altri segnali regolatori diversi dalla stimolazione retinica. Un gruppo di ricercatori americani del Centro sulle malattie del sonno e di medicina circadiana del Dipartimento di endocrinologia della Harvard University ha voluto esaminare l'ipotesi che in una parte degli individui ciechi possano continuare ad agire degli stimoli luminosi non percepiti nè dalla retina nè dalla pupilla (riflessi pupillari assenti). L'informazione convogliata dallo stimolo luminoso alla retina e da questo al nucleo soprachiasmatico viene a sua volta diretta a stimolare una ghiandola endocrina localizzata nel cervello, la ghiandola pineale, che a sua volta regola la secrezione di un ormone presente nel sangue chiamato melatonina. I livelli di melatonina sono alti durante la notte e bassi durante il giorno. La melatonina è stata pure implicata in fenomeni di depressione nelle popolazioni nordiche meno esposte alla luce solare durante i lunghi inverni. Ma apparentemente le cose non stanno così; come dimostra il lavoro degli studiosi americani su 11 persone completamente cieche e pubblicato nel New England Journal of Medicine. In tali pazienti, ciechi da 20-25 anni venne effettuata una superstimolazione luminosa mediante esposizione ad una luce intensa per 90 minuti in corrispondenza del massimo livello di melatonina misurato nel sangue. Lo stesso trattamento venne fatto a sei individui con vista normale. In seguito a questa superstimolazione si constatò una caduta significativa di melatonina del 70 per cento in tre individui ritenuti ciechi e come da aspettarsi in tutti gli individui normali. Coprendo gli occhi per proteggerli ulteriormente dall'effetto luminoso non si ottenne alcuna diminuzione della melatonina. I tre pazienti non avevano in genere problemi di insonnia e mantenevano bene il proprio ritmo circadiano al contrario degli altri. Questi dati portano alla conclusione che in una piccola parte degli individui ciechi esiste ancora la possibilità di una stimolazione luminosa non percepibile ma tale da agire come regolatrice dei ritmi biologici. Tra le conseguenze di tale osservazione c'è una maggiore cautela nell'asportare i globi oculari nei ciechi, operazione talvolta ritenuta necessaria per ragioni estetiche. Prima di procedere, sembrerebbe necessario valutare la presenza o assenza di una funzione residua della regolazione della melatonina a scanso di problemi postoperatori di insonnia e perdita totale dei ritmi. Se non siete convinti dell'importanza della luce per il vostro benessere potete fare un semplice esperimento su voi stessi la prossima volta che volerete sopra l'Atlantico e patirete per il famoso «jet-lag» dopo una perdita di sonno di molte ore che metteranno il ritmo della vostra melatonina fuori gioco. Provate a rimediare sottoponendovi all'esposizione della luce solare invece di andare a dormire in una camera buia. Noterete la differenza. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois


ASTRONOMIA Il ghiaccio nel forno Scoperto su Mercurio, con il radar
Autore: DI MARTINO MARIO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
ORGANIZZAZIONI: MARINER 10
LUOGHI: ITALIA

SEMBRA adesso confermato ciò che pareva inimmaginabile: esiste ghiaccio su Mercurio. Quando vent'anni fa la sonda americana «Mariner 10» inviò le prime immagini ravvicinate del pianeta, il paesaggio apparve del tutto simile a quello lunare: una superficie riarsa, tormentata da una miriade di crateri da impatto di varie dimensioni e percorsa da un'innumerevole serie di rugosità. La temperatura superficiale di questo pianeta inoltre, a causa della sua vicinanza al Sole (la distanza è di poco superiore a 1/3 di quella della Terra), può raggiungere nelle regioni equatoriali valori di più550C, per cui la recente conferma della presenza di ghiaccio nelle regioni polari del pianeta più interno del sistema solare ha colto di sorpresa anche gli addetti ai lavori. I primi sospetti sull'esistenza di ghiaccio su Mercurio sorsero già nel 1991 quando, grazie a osservazioni radar, furono rilevate nella regione polare settentrionale zone altamente riflettenti ai segnali inviati da terra. Più recentemente un gruppo di ricercatori americani ha confermato questa scoperta e ha inoltre annunciato di aver osservato delle zone con un alto tasso di riflettività, e quindi probabilmente ricoperte di ghiaccio, in corrispondenza del polo Sud. Queste osservazioni sono state effettuate sparando verso il pianeta onde radar di 12,5 centimetri con l'enorme antenna parabolica di Arecibo (Portorico), del diametro di 300 metri, che è stata ricavata ricoprendo di materiale radio-riflettente una piccola vallata dell'isola caraibica. Recenti studi teorici hanno inoltre dimostrato che in certe particolari zone di Mercurio le condizioni ambientali potrebbero rendere possibile la permanenza di ghiaccio per lunghissimi periodi di tempo. L'inclinazione dell'asse di rotazione del pianeta rispetto al piano della sua orbita attorno al Sole è di soli 2, per cui l'interno dei crateri nelle regioni polari oltre gli 80 di latitudine non è mai esposto direttamente all'intensissima luce solare. Dai calcoli risulta che la temperatura di certe aree pianeggianti in prossimità delle regioni polari, dove l'angolo di incidenza della radiazione solare è molto basso, dovrebbe aggirarsi intorno a -150C, mentre nelle zone più interne dei crateri, che rimangono perennemente in ombra, la temperatura sarebbe ancora inferiore e costituirebbero delle perfette «trappole fredde» sia per il vapore d'acqua eventualmente proveniente dall'interno di Mercurio sia per il ghiaccio portato sul pianeta, nel corso dei miliardi di anni della sua vita, dall'impatto di comete e asteroidi. Si è inoltre calcolato chead una temperatura intorno ai-150C il tasso di sublimazione del ghiaccio d'acqua è di circa 8 metri per ogni miliardo di anni e questo valore si dimezzerebbe per una diminuzione di circa 2C. Sebbene queste stime siano alquanto incerte, è stato possibile determinare che a temperature comprese tra -160 e -150C depositi di ghiaccio d'acqua spessi alcuni metri potrebbero rimanere stabili per miliardi di anni. La quasi certezza della scoperta sta nel fatto che i segnali riflessi siano polarizzati in un modo che è tipico del ghiaccio d'acqua - in maniera del tutto simile a quanto riscontrato negli echi radar prodotti dalla calotta polare Sud di Marte e dalla superficie ghiacciata dei satelliti galileiani di Giove. Un'altra conferma indiretta proviene inoltre dalle osservazioni della tenuissima atmosfera di Mercurio effettuate dallo spettrometro ultravioletto a bordo della sonda «Mariner 10». Furono identificate infatti tracce di idrogeno ed ossigeno, ma a quel tempo gli scienziati addetti al progetto imputarono la presenza di questi atomi ai resti di comete o asteroidi ricchi di sostanze volatili, che periodicamente si schiantano sulla superficie del pianeta. Se non altro questi risultati non escludono la presenza di ghiaccio d'acqua. L'esistenza di ghiaccio nelle regioni polari non escluderebbe comunque la sua sublimazione a causa di altri meccanismi diversi dall'esposizione alla radiazione solare. L'universo è infatti permeato di radiazione ultravioletta, che su lunghi tempi potrebbe «erodere» completamente il ghiaccio prima che questo venga nuovamente rifornito dall'impatto di qualche cometa. Un altro meccanismo di erosione del ghiaccio potrebbe essere dovuto all'azione delle particelle elettricamente cariche che, intrappolate nel campo magnetico mercuriano, colpendo la superficie del pianeta possono causare l'«evaporazione» delle molecole d'acqua che formano il ghiaccio. Questi processi potrebbero risultare però inefficienti nel caso in cui il ghiaccio fosse ricoperto da un deposito di polveri dello spessore di qualche decina di centimetri. Questa ipotesi è confermata dall'analisi degli echi radar, da cui risulta che la presenza di uno strato di materiale soffice spesso circa mezzo metro al di sopra dei ghiacciai mercuriani si accorderebbe perfettamente con le osservazioni. In realtà l'esistenza di un tale strato è molto probabile in quanto la superficie di Mercurio è bombardata da una pioggia continua di micrometeoriti ad altissima velocità. Il trucco risiede quindi nel fatto che il ghiaccio sia sufficientemente ricoperto da essere protetto, ma non abbastanza da permettere la sua osservazione per mezzo delle onde radar. Gli addetti ai lavori sono molto eccitati dalla possibilità che, essendosi il ghiaccio accumulato gradualmente nel corso del tempo, esso possa nascondere la storia dettagliata dell'evoluzione del Sistema Solare interno, allo stesso modo in cui i ghiacci antartici costituiscono l'archivio della storia climatica del nostro pianeta. Ne sapremo di più agli inizi del prossimo secolo, quando attorno a Mercurio verrà messa in orbita la sonda americana «Hermes», che avrà come compito principale quello di tracciare una mappa completa del pianeta e di confermare la presenza di ghiacci nelle regioni polari. Mario Di Martino Osservatorio astronomico di Torino


BIOCHIMICA Diagnosi lampo con il Dna
NOMI: STANGALINI DAVIDE, ROCCIO CARLO
ORGANIZZAZIONI: ISTITUTO FLEMING RESEARCH
LUOGHI: ITALIA
NOTE: Progetto genoma

UNA rivoluzione è in corso nella diagnostica di laboratorio grazie alla biologia molecolare. In aiuto ai biologi è venuta la tecnica «Pcr», o reazione polimerasica a catena, fondamentale ormai per la diagnostica delle malattie genetiche (ereditarie) e delle malattie infettive da virus, batteri o parassiti. All'Istituto Fleming Research di Abbiategrasso, che ha laboratori anche a Novara e Milano, accompagnati dal direttore, Davide Stangalini, abbiamo potuto osservare la sintesi di un frammento di catena di Dna (Primers), utilizzato nelle analisi come «innescante della reazione di amplificazione». Apparecchiature in ambienti sterili estraggono il Dna dalle cellule; altre identificano l'esatta sequenza del Dna in pochi minuti di analisi. Queste tecniche riguardano la diagnostica delle malattie infettive tramite l'esame diretto del Dna dei vari microorganismi contenuti nei materiali biologici (sangue, urine, tessuti). La diagnosi è possibile in tempi rapidi, dalle 24 alle 72 ore, mentre con i metodi classici occorrono settimane (tre settimane per il Mycobacterium tubercolosis contro 48 ore per l'indagine del Dna con Pcr). Si accorciano così i tempi di diagnosi anche per le malattie poco diffuse come la malaria e la listeriosi o le infezioni da Clamydiae o Papilloma virus, mentre è ormai acquisita l'importanza di tali indagini nella diagnostica del virus Hiv agente dell'Aids e nelle epatiti virali B, delta e C; nell'epatite C è possibile oggi tipizzare il genoma dei virus distinguendone i sottotipi più resistenti alla cura con interferone. Il Progetto Genoma, lanciato da Watson e Dulbecco, ha favorito lo studio delle malattie ereditarie localizzando le mutazioni del Dna che le causano. La Pcr aiuta la diagnosi su portatori di malattie genetiche. Sono più di 300 quelle indagabili; le più comuni, che potremmo forse curare, sono la fibrosi cistica, la talassemia, la fenilchetonuria, l'emofilia, la distrofia muscolare, la Sindrome della X fragile. Tutte le informazioni necessarie allo sviluppo cellulare sono contenute nel filamento a doppia elica del Dna. Questo polimero è composto da una sequenza di basi puriniche e pirimidiniche che vengono trascritte ordinatamente per formare Rna messaggero (mRna). Quest'ultimo viene utilizzato dalla cellula per sintetizzare le proteine (mattoni della cellula). La porzione di Dna che si trasforma in mRna e che codifica una proteina è chiamata gene. In ogni cromosoma vi sono migliaia di geni; l'alterazione di uno solo può causare malattie gravissime, per l'errore o la mancata produzione di un enzima o di una proteina regolatrice di attività metaboliche. I geni con mutazioni che daranno origine a malattie genetiche possono essere acquisiti ereditariamente, oppure subire la mutazione durante la vita dell'individuo a causa dell'ambiente (radiazioni ionizzanti, sostanze chimiche mutanti, infezioni virali), inducendo così nelle cellule trasformazioni neoplastiche (tumori). La ricerca delle anomalie cromosomiche con le tecniche citogenetiche (trisomia del cromosoma 21 che causa la sindrome di Down) è l'esame più comune, e in molti casi l'unico, che viene eseguito nella diagnosi genetica prenatale dopo avere prelevato cellule fetali con la tecnica della amniocentesi o villocentesi. Utilizzando le tecniche di genetica molecolare, spiega Carlo Roccio, direttore del Fleming di Milano, si potrebbero studiare sullo stesso campione anche altre malattie genetiche, come fibrosi cistica, talassemia, fenilchetonuria, emofilia, distrofia muscolare, sindrome della X fragile causa di ritardato sviluppo mentale. Indispensabile è la ricerca pura, che deve stabilire quali mutazioni ricercare per ogni malattia; ogni malattia infatti può essere originata da varie mutazioni, anche in geni diversi. Nel caso della fibrosi cistica, ricercando la sola mutazione delta F508, si potranno evidenziare solo il 40 per cento dei soggetti colpiti, per arrivare alla copertura di circa il 90% bisogna indagare 15 diversi siti contenenti eventuali anomalie del Dna. L'obiettivo è di arrivare alla terapia correggendo il gene difettoso. Pia Bassi


CORRENTI CONVETTIVE NEL BARATTOLO L'ascesa delle noccioline più grandi Fisici in cucina per spiegare un curioso fenomeno
Autore: ANGELA ALBERTO

ARGOMENTI: FISICA
NOMI: KNIGHT JAMES, JAEGER HEINRICH, NAGEL SIDNEY
LUOGHI: ITALIA

LA prossima volta fateci caso: quando aprite un barattolo di noccioline, quelle più grosse stanno sempre in superficie, mentre quelle più piccole e quelle rotte si trovano sul fondo. Come mai? Per anni la spiegazione di questo curioso fenomeno è stata attribuita ad un meccanismo molto semplice. Ad ogni scossone le noccioline più piccole ed i frammenti dispersi in mezzo ad esse tendono ad infilarsi nei pertugi che si creano sotto quelle più grandi. Alla fine, quindi, si assiste a una graduale separazione a seconda delle dimensioni, con le noccioline più grandi che tendono a «salire» nel barattolo, mentre quelle più piccole tendono a «discendere». Un meccanismo che è praticamente impossibile fermare, e ben lo sanno le ditte confezionatrici che preferirebbero garantire una migliore omogeneità dei loro prodotti soprattutto per battere la concorrenza. Invece quello che accade nei barattoli delle noccioline e in tutti i contenitori cilindrici di prodotti granulari (commestibili o no) sembra essere qualcosa di ben diverso. Così diverso da poter paragonare il barattolo ad una pentola di acqua che bolle con delle «correnti convettive». In altre parole ogni volta che scuotete un barattolo di noccioline provocate un movimento interno simile a quello di una fontana, con i granuli che salgono verso l'alto nella parte centrale del barattolo e poi ricadono verso il basso seguendo le pareti. A scoprire questo sorprendente meccanismo è stato un gruppo di fisici dell'Università di Chicago, James Knight, Heinrich Jaeger e Sidney Nagel con tanto di esperimenti di laboratorio. Già, ma come si spiegherebbe allora che le noccioline più voluminose rimangono in superficie? Per capire cosa accade, i tre fisici hanno simulato un barattolo di noccioline, riempiendo un cilindro con delle biglie di pochi millimetri, divise in tre strati: sopra uno strato di biglie bianche, al centro uno strato di biglie blu e sotto nuovamente uno strato di biglie bianche. Nel cuore dello strato blu hanno messo una sfera più grossa, all'incirca delle stesse dimensioni di una nocciolina americana. A questo punto è incominciato l'esperimento vero e proprio. Il cilindro riceveva uno scossone verticale ogni secondo. Risultato: le migliaia di biglie hanno cominciato a muoversi lentamente, con vere e proprie «migrazioni». Quelle blu ovviamente erano le più visibili, ed i ricercatori hanno potuto così seguirle nella loro marcia, e hanno visto che quelle periferiche precipitavano lungo le pareti come se fossero lentamente aspirate verso il fondo. Mentre quelle nella parte centrale dello strato andavano invece in direzione opposta, cioè verso l'alto, trascinando con sè la grossa biglia. Una volta giunte in superficie, migravano verso i bordi e s'immergevano verso il fondo. La grossa biglia invece non era in grado di farlo: la «corrente» discendente aveva uno spessore equivalente solo a un paio di sferette blu. Era quindi troppo voluminosa per immergersi e rimaneva a saltellare sulla superficie esattamente come fanno le noccioline più grosse in un barattolo. Cosa regola questo curioso meccanismo? La risposta è semplice: l'attrito delle pareti. Ad ogni scossone infatti tutta la «folla» delle biglie (e quindi delle noccioline in un barattolo) si alza verso l'alto per un istante, per poi ricadere. Tutte? Non proprio. Quelle a contatto con le pareti non riescono a farlo, perché l'attrito le tiene immobili. Il risultato è che rispetto alle altre cominciano a scendere ad ogni scossone verso il basso, ed una volta giunte sul fondo strisciano verso il centro del cilindro. Ben presto riescono a liberarsi dal contatto diretto con il cilindro e salgono verso l'alto perpetuando il ciclo. La chiave di tutto insomma è l'attrito con le pareti, ed è proprio qui che si nasconde eventualmente il trucco per realizzare barattoli «competitivi» sul mercato, in grado di garantire una ripartizione omogenea delle noccioline (o di altri prodotti). Basta infatti modificare l'angolo delle pareti in modo che non siano più verticali, per bloccare o addirittura invertire queste migrazioni interne. Se tra qualche anno vedrete barattoli dalla forma insolita (svasati, bombati, ecc.) sugli scaffali dei supermercati sarà il segnale che qualcuno ha deciso di fermare la famigerata marcia delle noccioline. Alberto Angela


AL PALASTAMPA Scienza come rock una sfida a Torino
Autore: P_B

ARGOMENTI: RICERCA SCIENTIFICA, ASTRONOMIA, MUSICA, INCONTRO, TELEVISIONE, PROGRAMMA, SOLIDARIETA'
NOMI: REGGE TULLIO, HACK MARGHERITA, PROUST DOMINIQUE, MACCHETTO DUCCIO, STRATA PIERGIORGIO, MALERBA FRANCO, CAVALLI SFROZA LUCA, FAGGIN FEDERICO, MILVA, FRACCI CARLA, BENNATO EUGENIO, FAZZUOLI FEDERICO
ORGANIZZAZIONI: AERMIG, PALASTAMPA, TELEMONTECARLO
LUOGHI: ITALIA, TORINO (TO)
NOTE: «Musica nello spazio»

NEL suo genere sarà il primo esperimento in Italia e forse nel mondo: divulgare astrofisica, ricerche sulla vita extraterrestre, studi sul cervello e sull'intelligenza artificiale davanti a un pubblico di ottomila persone, con l'intervento, accanto agli scienziati, di artisti come Milva, Carla Fracci, Eugenio Bennato. L'esperimento si svolgerà al Palastampa di Torino mercoledì 15 febbraio, dalle 20,30 alle 23. La finalità è benefica: dare un aiuto ai bambini del Terzo Mondo attraverso il Ser.Mi.G. Il Palastampa è una megastruttura sorta accanto al nuovo stadio torinese «Delle Alpi» per ospitare manifestazioni di massa. Concerti rock (lo ha inaugurato Celentano), innanzi tutto. Portarci dentro scienza e arte è una sfida. Qualcuno dirà una scommessa quasi disperata. Ma lo era anche dodici anni fa organizzare serate scientifiche nel Parco della Pellerina, lo è realizzare nove edizioni di «GiovediScienza» riempiendo per nove anni il teatro Colosseo, lo è mettere in piedi mostre come «Experimenta». Tutte iniziative torinesi, tutte centrate sulla divulgazione scientifica, e tutte di incredibile successo. In questo, si direbbe, Torino è una città speciale, diversa da tutte le altre. Lo si vide già alla fine degli Anni 70 quando Tullio Regge riempì il Palasport limitandosi a commentare un centinaio di diapositive di pianeti e galassie. Regge ora ci riprova al Palastampa. Accanto a lui, Margherita Hack dell'Osservatorio di Trieste, Dominique Proust dell'Osservatorio di Parigi, Duccio Macchetto, condirettore dello Space Telescope Institute di Baltimora (Usa), il neuroscienziato Piergiorgio Strata dell'Università di Torino, il primo astronauta italiano Franco Malerba, il biologo Enrico Alleva dell'Istituto Superiore di Sanità; e, a Los Angeles, collegati via satellite, il direttore della Specola Vaticana George Coyne, il genetista Luca Cavalli Sforza dell'Università di Stanford, l'astronauta Dick Gordon, che partecipo' al secondo sbarco sulla Luna e l'ideatore dei microprocessori Federico Faggin. «Musica nello spazio» è il titolo della serata, che sarà condotta da Federico Fazzuoli per Telemontecarlo. Non è un titolo di puro effetto. Il legame tra scienza e musica sarà reale, perché si ascolteranno anche composizioni del grande astronomo William Herschel (che scoprì il pianeta Urano nel 1781) e sarà presente Federico Monetti Amendola, che ha elaborato in alcune sue composizioni suoni provenienti dallo spazio, come il segnale radio di una pulsar (una stella collassata) e le vibrazioni prodotte dai pannelli solari del satellite«Olympus». Anche Carla Fracci, Milva, il chitarrista classico Maurizio Colonna, Eugenio Bennato, i «Nomadi» e gli altri artisti si esibiranno in performance in tema con la serata. I biglietti (20 e 70 mila lire) sono in vendita presso la Libreria della Stampa in via Roma 80 (011-6568.334), Maschio, piazza Castello 51 (011-542.722), Ricordi, piazza Cln (011- 56.11.262) e al Ser.Mi.G., via Borgo Dora 61 (011-4368.566). (p. b.)


MIMETISMO Scovami, se ne sei capace! Gli astuti raggiri di un coleottero tropicale
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
NOMI: FORSYTH ADRIAN, ALCOCK JOHN
LUOGHI: ITALIA

IL protagonista di questa storia ha un altisonante nome latino, Leistotrophus versico lor. Il nome volgare non ce l'ha proprio, per la semplice ragione che si tratta di un coleottero tropicale ignoto dalle nostre parti. Alle sue vicende si appassionano gli entomologi che hanno scoperto in lui un abilissimo mistificatore, uno che trova sempre il modo di spacciarsi per quel che non è, che sa usare mezzi e strategie ingannevoli, diverse secondo le circostanze, che sa perfino ricorrere all'omosessualità, quando ciò gli conviene. Un comportamento molto flessibile, insomma. Tutto l'opposto dell'immagine che ci siamo sempre fatta degli insetti, considerati come semplici automi, incapaci di qualunque iniziativa, imprigionati entro uno schema di rigidi comportamenti innati. Con Adrian Forsyth, il noto zoologo americano John Alcock dell'Arizona State University si è preso la briga di andare a scovare nelle foreste pluviali del Costa Rica il coleottero-fregoli che sa assumere di volta in volta sembianze diverse per ingannare la buona fede non solo delle prede ma anche dei rivali in amore. Dopo molte ricerche, ne trova uno posato sul lembo di una foglia. Non è facile distinguerlo a prima vista, perché ha tutta l'aria di un ammasso informe. Sennonché, dopo qualche minuto, da quell'ammasso si snodano le lunghe zampe, emerge una testa dai grandi occhi bruni e dalle vistose mandibole falciformi. Ed ecco ondeggiare anche il lungo addome dall'apice giallo. All'improvviso l'insetto spicca il volo. Si va a posare poco lontano su un'altra pianta e qui assume lo straordinario aspetto di un escremento di uccello. Dopo circa un'ora di assoluta immobilità, l'insetto ruota improvvisamente di 180 gradi, strofina l'estremità dell'addome contro la superficie della foglia e caccia fuori una secrezione che all'aria si fa di un rosa intenso. Poi si rigira e torna nella posizione primitiva, col risultato che la secrezione viene a formare una mezzaluna rosata proprio in corrispondenza delle affilate mandibole. E' un'esca diabolica che attira le prede come una calamita. Infatti i moscerini della frutta sentono un'irresistibile attrazione verso quell'arco rosato. Ma non appena incautamente vi si avvicinano, le grosse mandibole del coleottero li infilzano come spiedi e se li divorano. Assolutamente sconsigliabile prenderlo in mano, quell'ambiguo trasformista. Non solo sprigiona un odore nauseabondo ma, quel che è peggio, reagisce morsicando rabbiosamente. Una sensazione tutt'altro che piacevole. Ma i due ricercatori non si lasciano intimidire. Riescono ad acchiapparne un certo numero, ne individuano il sesso e, per poterli riconoscere, li marcano con macchiette colorate sul dorso. In questo modo è più facile fare i detective e seguire i soggetti nelle loro imprese di caccia e d'amore. Si scopre così che le tecniche di caccia dei coleotteri variano secondo i casi. Quando sono posati sulle foglie, emanano secrezioni profumate per attrarre chimicamente le prede, rimanendo appostati in agguato. Ma è inutile ricorrere all'esca chimica se sull'albero ci sono frutti marcescenti che già di per sè emanano profumi allettanti. Non è detto però che i Leisto trophus mangino soltanto i minuscoli moscerini delle frutta. Capitano loro bocconi ben più cospicui, come i grossi tafani tropicali. Succede quando hanno la fortuna d'imbattersi in mucchi di feci o in carcasse di animali che attirano mosche di tutte le specie. In quel caso la loro tattica cambia. Non cacciano più all'agguato, ma la loro diventa una caccia attiva. Si slanciano velocissimi nell'aria e catturano i grossi tafani in volo. Non sono eventi molto frequenti perché nella foresta tropicale feci e carogne spariscono rapidamente sotto l'assalto di una folla di necrofagi e coprofagi. Ma quando succede, allora sono molti i Leistotrophus che si danno convegno in quel punto. E' proprio in questi densi raduni che si manifestano gli approcci amorosi e si accendono le lotte tra i maschi rivali. Non appena una femmina gli cammina vicino, il maschio inizia il suo corteggiamento, battendo colpi di testa contro l'addome di lei. Se la femmina gradisce il pretendente, si ferma e abbassa l'addome, che tiene normalmente sollevato. In questo caso lui si avvolge intorno al corpo della femmina e ha luogo l'accoppiamento, un accoppiamento brevissimo al termine del quale i due si separano. Ma se capitano vicini due maschi, inizia tra loro una feroce lotta per la conquista di un miniterritorio di caccia. Di regola, dopo un breve combattimento a base di morsi, i maschi più grossi vincono e i più piccoli perdono. Ma questi ultimi hanno nel loro arsenale un'arma speciale: l'inganno. Ed è questa una delle scoperte più sensazionali dei ricercatori. Dopo aver contraddistinto alcuni individui con la macchietta colorata, gli studiosi li depongono proprio sopra un bel mucchio di feci di mammifero. Allora succede l'imprevedibile. Un grosso maschio si avvicina a un maschio piccino. Ci si aspetta che ingaggino il solito combattimento. Invece il piccolino, per salvarsi la pelle, ricorre a un trucco: si finge femmina. Si volta e solleva l'estremità dell'addome come fa la femmina vera per offrirsi al corteggiatore. Il quale non se lo fa ripetere due volte. Immediatamente incomincia a battere colpi di testa contro l'addome della presunta lei. Ma quando vuol passare alla fase decisiva, il maschio piccolino non ci sta, si sposta proprio come farebbe una femmina non recettiva. Il pretendente lo insegue, torna alla carica e questo strano approccio-fuga continua per parecchi minuti, fino a che l'inseguitore non si rende conto di avere che fare con un imbroglione e lo prende a morsi cacciandolo via. Ma la cosa più divertente è che un travestito può riuscire ad accoppiarsi con una femmina vera, mentre tira a rimorchio il suo illuso corteggiatore. E poi gli insetti li chiamano «robot»! Isabella Lattes Coifmann


IN VENEZUELA Requiem per una grotta eccezionale Prevalgono gli interessi di un cementificio
Autore: MELLONI LUIGI

ARGOMENTI: ECOLOGIA, AMBIENTE
LUOGHI: ESTERO, VENEZUELA, CUEVA DE LA LOMA DEL MEDIO

IL Venezuela è considerato una sorta di El Dorado, dove le cangianti spiagge caraibiche contrastano con il muro verde delle foreste tropicali che si dipanano accanto ai grandi corsi d'acqua amazzonici. I Tepuy, le strane montagne a «panettone», il salto Angel (la cascata più alta del mondo, con i suoi 970 metri di dislivello), le isole Los Roques, l'isola Margarita, il delta dell'Orinoco, spiccano nei depliant delle agenzie turistiche. In effetti il Venezuela conserva ancora aspetti unici e affascinanti ma purtroppo gli ambienti naturali sono compromessi e profanati dai progetti di sviluppo industriale e turistico, dalla devastante ricerca dell'oro nelle selve, dall'agricoltura itinerante che applica la tecnica agronomica del taglia-e-brucia, dall'enorme esplosione demografica: il tutto nell'indifferenza di un governo progressista ma totalmente miope in campo ambientale. Recentemente nello Stato di Aragua, in prossimità di San Sebastian, alcuni speleologi venezuelani durante una campagna di ricerche hanno scoperto una cavità naturale nella massa calcarea della formazione Guarico di epoca Paleocenica risalente a 60 milioni di anni fa, denominata Cueva de la Loma del Medio. La cavità esplorata e rilevata è risultata la più grande del centro del Venezuela. Si presenta con ampie sale alte fino a 40 metri, con singolari formazioni di stalattiti e stalagmiti, contornate da massi levigati dall'azione delle acque che qui scorrevano con uno sviluppo orizzontale di 344 metri e un dislivello di 142, con rami laterali, camere e camini. L'ingresso principale alla quota di 500 metri è contornato da associazioni vegetali uniche, con un caratteristico e gigantesco ficus davanti all'apertura. A una sommaria indagine attraverso carotaggi micropaleontologici sono emersi tra il calcare organogeno resti di alghe Corallinaceae (Lithophyllum sp.), Solenoporaceae (Parachaettes sp.), Squamariaceae (Ethelia sp.), frammenti di gasteropodi, foraminiferi e spine di echinodermi. Considerato il valore scientifico e le notevoli dimensioni della grotta, numerosi naturalisti venezuelani proponevano la salvaguardia ed eventualmente una saggia fruizione turistica, con l'interessamento del ministero dell'Ambiente e del governatore dello Stato di Aragua. Ma la grotta era destinata a ben altri scopi! Con una potente carica d'esplosivo l'entrata è stata fatta saltare da... ignoti. Così la società Cementos del La Vega, proprietaria dell'area, con finanziamenti messicani e francesi, sta avviando la costruzione di un cementificio che sorgerà nei pressi della grotta per utilizzare il calcare. Della Cueva de la Loma del Medio non rimangono che enormi massi scagliati lontano dalla deflagrazione, l'ingresso è crollato, cancellate totalmente le formazioni vegetali limitrofe. Questo è l'avvilente spettacolo che si è presentato all'equipe di studiosi che stava per avviare una campagna di ricerche geologiche, botaniche e zoologiche. Coinvolgendo l'opinione pubblica internazionale, i naturalisti venezuelani si stanno battendo per salvare la grotta: è loro intenzione aprire più a monte un'entrata artificiale e sottoporre a vincolo l'intera area per studiare i misteri che la cavità racchiude prima che finisca trasformata in cemento. Luigi Melloni


ANTIDOTI AL MALTEMPO L'antigrandine e il dissolvinebbia
Autore: PAVAN DAVIDE

ARGOMENTI: METEOROLOGIA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: WMO (ORGANIZZAZIONE METEOROLOGICA MONDIALE), TECNAGRO
LUOGHI: ITALIA

OGNI anno gli italiani prosciugano un lago. Sei miliardi di metri cubi d'acqua si consumano in usi civili: per l'alimentazione, per lavarsi o per innaffiare il giardino. Se si considerano i fabbisogni d'acqua in termini più generali, 8 miliardi di metri cubi d'acqua vengono impiegati annualmente dall'industria e ben 30 miliardi di metri cubi dall'agricoltura: basti pensare che per coltivare a ortaggi un ettaro di terreno sono necessari tra i 6 e i 9 mila metri cubi. Come accade per gli uomini, il bisogno maggiore delle piante è proprio d'estate, quando le riserve sono al minimo e le piogge scarse. Negli ultimi anni due distinti fenomeni climatici, la diminuzione costante delle precipitazioni piovose e l'aumento medio delle temperature, hanno contribuito all'acuirsi del problema: questa siccità incombente provoca ingenti danni di natura sia ambientale (la cosiddetta «desertificazione») sia economica (forti diminuzioni della produzione agricola). La grave emergenza spiega il moltiplicarsi delle ricerche che hanno per oggetto la Weather Modification (modificazione del tempo), quella branca della meteorologia che si propone di influenzare gli eventi naturali a favore dell'uomo. Per fare il punto sull'avanzamento di tali studi, poco conosciuti dall'opinione pubblica e finora circondati da un alone di scetticismo, si è svolta qualche tempo fa a Paestum la VI Conferenza Internazionale della Weather Modification, promossa dalla WMO (Organizzazione Meteorologica Mondiale) e organizzata dall'italiana Tecnagro. Fra le tecnologie presentate al congresso, la più promettente è quella per la stimolazione artificiale della pioggia mediante l'inseminazione delle nubi con particolari sali che, in presenza di alcune condizioni favorevoli, innescano la condensazione delle particelle di vapore in sospensione, provocando così la pioggia. In un Paese con forte carenza d'acqua come Israele, la «pioggia artificiale» è diventata ormai un servizio nazionale che garantisce ogni anno un incremento delle precipitazioni dell'ordine del 20-24%. Anche l'Italia è attiva in questo campo di ricerca: nel 1988 è stato avviato il «Progetto pioggia», promosso dalla Tecnagro in collaborazione con esperti israeliani e i ministeri dell'Agricoltura e della Difesa e riguardante quelle regioni meridionali che più soffrono della carenza di precipitazioni (Puglia, Sicilia e Sardegna). La sostanza adoperata per l'inseminazione, effettuata con mezzi aerei attrezzati, è lo ioduro d'argento, che viene bruciato in piccole quantità in una caldaia collocata sul velivolo, in modo da ottenere un fumo costituito da piccole particelle che vengono poi diffuse nelle nuvole. L'impatto ambientale di questa sostanza è del tutto trascurabile, in quanto ne vengono impiegati minimi quantitativi in vasti volumi atmosferici. Per l'impiego ottimale di questa tecnologia occorre comunque un'organizzazione efficiente e tempestiva, che provveda alle seguenti operazioni: segnalare l'arrivo delle formazioni nuvolose con l'aiuto di un satellite meteorologico; far partire tempestivamente i mezzi aerei, previa un'adeguata valutazione dell'opportunità dell'intervento; compiere numerose rilevazioni sulla pioggia caduta nelle varie zone e sul quadro climatico che ha accompagnato la precipitazione. I risultati di questa attività, ormai uscita dalla fase sperimentale, possono essere definiti incoraggianti e paragonabili alle esperienze israeliane. Oltre alla «pioggia artificiale», altri filoni di ricerca nel campo della «Weather Modification» si stanno sviluppando in modo promettente, come la lotta alla grandine, la prevenzione degli uragani e soprattutto il dissolvimento della nebbia. Si calcola che ogni anno, a causa della nebbia, il trasporto aereo subisca danni per un centinaio di miliardi. In Russia sono state messe a punto tecnologie che prevedono l'utilizzo negli aeroporti di bruciatori di azoto liquido che, fungendo da agente nucleante totalmente innocuo, provoca la trasformazione del vapor d'acqua della nebbia in pioggia. Nel quadro degli accordi italo-sovietici è prevista la partenza di un «Progetto nebbia» anche in Italia, ma attualmente tutto è fermo per mancanza di copertura finanziaria. Davide Pavan


IL BATTERIO DI PFEIFFER Amico del sangue e nemico dell'uomo Non causa l'influenza, come si credeva, ma gravi infezioni: c'è il vaccino
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: PFEIFFER RICHARD
LUOGHI: ITALIA

MORTE e resurrezione di un batterio. Haemophi lus influenzae: così si può sintetizzare una singolare storia, unica nel suo genere. Circa un secolo fa, nel 1899, Richard Pfeiffer, collaboratore di Koch, durante un'epidemia di influenza trovò nell'escreato di molti malati un batterio che ritenne causa della malattia e che battezzò «amico del sangue» in quanto si moltiplicava in terreni di coltura contenenti sangue. Haemophilus influenzae, dunque, e il problema, anche per l'autorevolezza dello scopritore, fu considerato risolto. Tuttavia, durante la terribile epidemia del 1918 detta «spagnola», cominciò a sorgere qualche dubbio dato che il batterio di Pfeiffer era spesso assente nei malati. Si affacciò l'ipotesi di un virus, poi identificato nel 1933. Sentenza di morte per Haemo philus. Il quale però sopravviveva nonostante sembrasse dimenticato e ora è tornato alla ribalta come causa di gravi sintomatologie, continuando a portare con sè l'attributo influenzae, che non gli compete ma che ormai fa parte della sua carta di identità. Pittman distinse sei tipi di Haemophilus, contrassegnati con le lettere da a a f. Haemophilus influenzae, specialmente del tipo b (Hib), è causa di infezioni gravi nel lattante e nel piccolo bambino: soprattutto meningiti ma anche polmoniti e bronchiti, otiti, epiglottiti, con notevole mortalità. E non sono rare setticemie nell'adulto, assai colpite le donne in gravidanza. La virulenza di Hib è dovuta in parte al fatto d'essere rivestito da una capsula protettiva. Il neonato ha anticorpi provenienti dalla madre, i quali però diminuiscono progressivamente. Nell'età da 3 mesi a 3 anni il bambino è più vulnerabile, e infatti in questo periodo l'incidenza delle meningiti da Hib è elevata. Secondo le ultime rilevazioni epidemiologiche, in Francia vi sono ogni anno nei bambini oltre 1000 casi, dei quali più di 600 meningiti con 20-30 decessi e 100 sequele neurologiche (ritardi di sviluppo, paralisi, disturbi dell'udito e dell'equilibrio). Inoltre Hib ha acquistato notevole resistenza agli antibiotici, circa il 30% dei ceppi isolati dai casi di meningite sono resistenti. La frequenza e la gravità delle infezioni da Hib nel bambino giustificavano la ricerca d'un vaccino. Nel 1984 il primo vaccino, indicato con la sigla PRP, fu preparato da H. Peltola in Finlandia ma si dimostrò poco efficace. Ora ne sono stati preparati altri coniugando PRP con una proteina. Tale associazione si è rivelata ottima, oggi ve ne sono diversi tipi: PRP-D (vaccino coniugato con anatossina difterica), PRP-HbOC (con tossina difterica mutante non tossica), PRP-OMP (con la proteina della membrana esterna del meningococco), PRP-T (con l'anatossina tetanica). Nel 1987 Eskola, in Finlandia, vaccinò 5 mila lattanti con PRP- D, mentre altri 5 mila non vaccinati fungevano da controllo: 4 casi di infezione da Hib nel primo gruppo, 35 nel secondo. Altro studio in 4500 lattanti nell'Alaska con vaccino PRP-OMP: un solo caso di infezione nei vaccinati, 22 nei non vaccinati. Negli Stati Uniti questi vaccini sono già inclusi nel programma delle vaccinazioni raccomandate, e lo stesso sta avvenendo in Europa. Essi sono di imminente registrazione anche in Italia. Si prevede una prima dose nel secondo mese di vita, una seconda nel quarto mese, una terza nel sesto, una quarta a 15-18 mesi. Ulrico di Aichelburg


CALCOLATORI OGGI E DOMANI Il computer quantistico Sarebbe miliardi di volte più veloce
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: ELETTRONICA, INFORMATICA, PROGETTO
NOMI: CASTAGNOLI GIUSEPPE, EKERT ARTUR, CUNEO GIUSEPPE, MUSSO GIORGIO, REGGE TULLIO, RASETTI MARIO
ORGANIZZAZIONI: ELSAG BAILEY
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Schema di computer e microprocessore

CON un calcolatore classico per trovare i fattori primi di un numero di 200 cifre occorrerebbero due miliardi di anni; con un calcolatore quantistico basterebbe una frazione di secondo. Nel primo caso saremmo davanti a un classico problema intrattabile, che diventa trattabile nel secondo. Con questo esempio Giuseppe Castagnoli, ingegnere, scienziato-manager della società Elsag Bailey di Genova, tenta di dare al profano un'idea della rivoluzione prossima ventura generata dal calcolo quantistico. «Nel prossimo biennio - aggiunge Artur Ekert dell'Università di Oxford - si potrà realizzare un rudimento di porta logica, primo elemento di laboratorio che potrebbe fare il primo calcolo quantistico della storia». Intorno a questa impresa, che Castagnoli definisce «ancora nello stato dell'infanzia», si lavora in tutto il mondo, soprattutto in ambito universitario; un importante ruolo di raccordo viene svolto dall'Isi, l'Istituto scientifico internazionale di Torino. Quanto alla Elsag Bailey, industria del gruppo Iri-Finmeccanica che opera nel campo dell'automazione più avanzata e che collabora da tempo con questo gruppo di ricercatori, ha preso l'iniziativa di invitare a Genova alcuni dei protagonisti più illustri di queste ricerche per un convegno che, nonostante il tema decisamente arduo, è risultato affollato oltre ogni previsione. Vi hanno partecipato, oltre a Giuseppe Cuneo e a Giorgio Musso in rappresentanza della società organizzatrice, i fisici Tullio Regge e Mario Rasetti, del Politecnico di Torino e rispettivamente presidente e segretario generale dell'Isi, Giuseppe Castagnoli direttore Elsag Bailey, Artur Ekert dell'Università di Oxford specialista di crittografia quantistica, e Sir Roger Penrose, fisico, fondatore con Stephen Hawking della teoria del Big Bang, studioso di intelligenza artificiale, diventato famoso anche fuori dalle aule universitarie per alcuni libri di successo, come The Emperor's New Mind e Shadows of the Mind; una presenza, quest'ultima, molto significativa dato che, come sottolinea Castagnoli, «se l'intelligenza artificiale ha deluso le aspettative probabilmente questo è dovuto al fatto che i suoi problemi sono tipicamente intrattabili con il calcolatore classico». Un calcolatore classico è in grado di elaborare un input alla volta, sia pure con grande rapidità; per accrescere la velocità di calcolo dei computer le dimensioni devono essere sempre più piccole in modo che i singoli componenti possano comunicare tra loro in tempi sempre più brevi. La prossima frontiera prevede di utilizzare come componenti atomi e particelle subatomiche, un livello in cui la meccanica quantista, la teoria fisica che si occupa delle interazioni delle particcelle elementari, offre possibilità sorprendenti. Secondo le premesse teoriche un calcolatore quantistico potrebbe lavorare contemporaneamente su più input in sovrapposizione. «Ciò - spiega Castagnoli - è la conseguenza del fatto che una particella "classica" è qui o là mentre una particella quantistica può essere in più posti nello stesso tempo, e quindi un calcolatore quantistico può essere in piu" 'stati" nello stesso tempo». Di qui, a pari velocità di calcolo, la sua capacità di elaborazione enormemente superiore. Quali sono le difficoltà che vi attendete di dover superare prima di giungere a risultati di rilievo pratico? «Le difficoltà saranno quelle derivanti dal controllo di oggetti microscopici, come singoli atomi, fotoni ed elettroni - affermano concordemente Campagnoli e Ekert -; bisognerà isolare le particelle dall'ambiente esterno per evitare quella che viene chiamata "perdita di coerenza quantistica". Non è solo un problema di laboratorio ma anche teorico». Ekert, comunque, si dice fiducioso di poter superare queste difficoltà entro i prossimi cinque anni. C'è un altro aspetto rivoluzionario, di grande rilievo pratico, come mostrano i quasi quotidiani episodi di pirateria informatica. Un calcolatore classico può essere spiato da estranei senza che l'interessato se ne accorga. «Al contrario - dice lo specialista Ekert - la trasmissione su fibra ottica di segnali quantistici rende immediatamente riconoscibile la presenza di un osservatore non autorizzato». Il motivo? «L'osservazione di un oggetto quantistico perturba lo stato dell'oggetto in modo che la perturbazione è immediatamente riconoscibile», spiega Castagnoli. La Elsag Bailey, in collaborazione con i fisici teorici di Oxford e con i principali laboratori europei di fisica quantistica sta avviando un programma per la realizzazione di un sistema di crittografia quantistica con caratteristiche di interesse commerciale. E l'intelligenza artificiale? Sarà il calcolo quantistico la strada per creare macchine capaci di funzionare come il cervello umano? Su questo punto Sir Penrose è categorico: «Certamente sarà possibile costruire macchine molto più avanzate. Ma il cervello umano è un'altra cosa; si può parlare di intelligenza in senso proprio solo quando vi è attività cosciente e capacità di giudizio. Un traguardo che nessun computer potrà mai raggiungere». Vittorio Ravizza


STRIZZACERVELLO Quanto vale un mantello?
LUOGHI: ITALIA

Quanto vale un mantello? Un signore promette al suo servitore, dopo un anno di servizio, 10 monete d'oro e un mantello. Dopo sette mesi lo congeda regalandogli il mantello e 2 monete d'oro. Qual era il valore del mantello? La soluzione domani, accanto alle previsioni del tempo.


LA PAROLA AI LETTORI E dopo l'8, comincia la nuova serie di numeri
LUOGHI: ITALIA

Perché in molte lingue euro pee le parole «nove» e «nuo vo» sono simili? Molte culture antiche contavano fino a quattro, sulle dita senza il pollice (e quattro oggetti erano, del resto, quelli che si potevano percepire distinti senza l'aiuto del linguaggio) e poi fino a due volte quattro, dunque otto, mentre dal numero seguente cominciava una nuova serie. Sergio Danielli, Roma Sono una ventina le lingue in cui «nove» e «nuovo» condividono la stessa etimologia, compreso il sanscrito e il persiano. Mick Salza, Brescia La diffusione tra lingue diverse della stessa radice «nove» e «nuovo» («novem» e «novus» in latino) si collega all'espansione dell'Impero romano, che esportò nelle colonie la sua lingua, alterando i precedenti linguaggi dei popoli soggiogati. Di qui derivano le lingue romanze, o più comunemente dette neolatine. Alcune di queste popolazioni hanno continuato a usare alcune parole latine, che con il tempo si sono differenziate. In questo caso però hanno mantenuto la loro originaria somiglianza. Federico Veneziano Omegna (VB) Qual è l'origine dell'espressio ne «Mangiare la foglia»? L'espressione, usata per indicare di aver capito fin dall'inizio come stanno le cose, deriva forse dall'osservazione dei bachi che, per istinto, riconoscono al primo assaggio se una foglia è commestibile oppure no. Domenico Lucci, Torino Perché i cani per i loro bisogni sono attratti dai pneumatici delle automobili? I maschi di varie specie di animali selvatici, per affermare il loro predominio su di un territorio, lo marchiano con il proprio odore. Uno dei modi per farlo è quello di orinare spesso contro oggetti sporgenti, come tronchi d'albero, rocce e così via. Altri maschi fanno successivamente la stessa cosa per coprire con il proprio odore quello del maschio precedente. Per i cani tale comportamento permane anche se probabilmente non ha più molto significato. In un ambiente urbano, dove gli alberi sono pochi, diventano adatti allo scopo pali, angoli di case e di negozi e, perché no?, le ruote delle automobili. Stefano Pittaluga, Genova Le auto, proprio perché sono mobili, rappresentano per i cani un fattore che sconvolge la geografia originaria del loro territorio. Occorre quindi marcare immediatamente questi oggetti forestieri, e quale parte è più adatta della ruota, che in genere è l'unica parte a contatto con il suolo? Spingendosi un po' oltre, si potrebbe anche pensare che il cane, in un impeto di espansione territoriale, avendo capito la potenziale mobilità dell'auto, se ne serva per allargare virtualmente il proprio potere, o almeno per garantirsi una presenza più ampia nel «panorama politico» canino. Emilio Secaliati Treville (AL) Perché, in un brano musicale, percepiamo più distintamen te il tema della voce più acu ta? Il nostro orecchio è in grado di captare, e tradurre in impulsi nervosi, onde elastiche di frequenza variante fra 20 e 20.000 cicli/sec. Nell'orecchio umano, l'amplificatore di tali onde è costituito dall'«orecchio esterno», che può essere assimilato a un tubo cilindrico chiuso a un'estremità dalla membrana timpanica. In questa struttura (il meato acustico) si verificano le condizioni di risonanza di un'onda, indispensabili per perturbare la membrana timpanica e dunque permettere la codifica in «suono». Il timpano non è una struttura rigida, ma si deforma e si adatta creando una situazione fisica che consente di percepire onde con frequenze maggiori o minori. Il massimo di udibilità si aggira intorno ai 3400 cicli/s. Se suonano insieme una chitarra e un basso, quest'ultimo sarà percepito in modo più netto perché i suoni che emette presentano frequenze che, relativamente all'insieme dei suoni emessi, sono più vicine al valore di massima risonanza. Diego Forte, Asti


CHI SA RISPONDERE?
LUOGHI: ITALIA

Q.Ho acquistato un contatore Geiger all'estero e con mia grande sorpresa i valori di radioattività che segnava sono passati da 10- 20 a terra a 300 a bordo dell'aereo. Perché? C'è pericolo per i viaggiatori? Q.Qual è l'oggetto più costoso del mondo? Q.Perché molti detersivi per i piatti sono verdi? Q.Che altezza può raggiungere una pulce saltando? ------- Risposte a «La Stampa-Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino. Oppure al fax 011-6568688




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