TUTTOSCIENZE 1 marzo 95


La rivincita del dirigibile
Autore: MORELLI MASSIMO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: THERMOPLANE DESIGN BUREAU
LUOGHI: ITALIA

ALLA fine di quest'anno l'Ala 600, una gigantesca aeronave da cui nell'ex Unione Sovietica si attende un contributo decisivo alla soluzione dei problemi di trasporto in Siberia, sarà finalmente condotta fuori dall'hangar per il battesimo del volo. Nel 1996 sarà invece la volta del dirigibile per la sorveglianza antimissilistica «Sentinel 5000», il cui progetto vede impegnate da circa otto anni la Westinghouse Airships e la Marina degli Stati Uniti. Ben lungi dall'essere cimeli di un'epoca gloriosa o spettacolari ma anche patetici strumenti di promozione pubblicitaria, i dirigibili sono tornati a suscitare l'interesse dell'industria aeronautica mondiale. D'altra parte, ad essere obiettivi, il dirigibile possiede molti pregi che potremmo definire «moderni»: è silenzioso, economico e con l'utilizzo dell'ininfiammabile elio anche sufficientemente sicuro. Inoltre è di fabbricazione semplice, non ha bisogno di pista di decollo e l'odierna tecnologia (motori a turbina, radionavigazione, nuovi materiali) è in grado di emanciparlo da molti dei suoi antichi handicap. L'impiego più promettente pare essere quello di «gru volante». Il dirigibile, infatti, è in grado di sollevare pesi ben maggiori di quelli che sono alla portata di un elicottero (centinaia di tonnellate) e può mantenerli sospesi nell'aria anche per molti giorni, qualità importantissime quando si tratta di trasportare carichi notevoli da località poco accessibili. Da questo punto di vista il dirigibile ha una sua specificità, che lo rende davvero unico nella soluzione di speciali problemi di trasporto aereo. Non a caso gli sforzi maggiori in questo senso sono stati prodotti dai russi nel tentativo di risolvere i gravi problemi di trasporto nel territorio siberiano. Il Thermoplane Design Bureau fu fondato nel 1980 presso l'Istituto dell'Aviazione di Mosca con l'obiettivo di mettere a punto una aeronave «ecologica» capace di traslocare carichi gravosi e ingombranti senza ingenti necessità di supporto logistico a terra (personale non viaggiante, hangar, piloni di attracco) e nelle difficili condizioni ambientali dell'inverno siberiano. Il progetto del primo modello sperimentale, denominato «Ala 40», fu sviluppato tra il 1985 e il 1989, ma per la realizzazione dei prototipi si dovette attendere il 1992, allorché un consorzio di compagnie russe petrolifere e di commercio del legname mise a disposizione i fondi necessari. L'aspetto esteriore dell'Ala 40 ricorda quello dei «dischi volanti» resi familiari da innumerevoli romanzi e film di fantascienza, con i quali tuttavia le scelte progettuali dell'equipe moscovita hanno poco da spartire: la forma lenticolare dell'involucro è stata preferita a quella tradizionale a sigaro perché consente di ottenere dimensioni e peso inferiori, oltre a una miglior solidità strutturale e distribuzione dei carichi di stress. Per il sostentamento si è optato per una soluzione a due gas: elio e aria calda. Il settore centrale del disco ospita una serie di contenitori sferici gonfiati a elio, mentre nelle aree periferiche è immagazzinata dell'aria che, riscaldata dai motori che provvedono alla propulsione, offre un ulteriore contributo al sostentamento (il volume complessivo dell'involucro è di 10.660 metri cubi, dei quali 5800 sono di elio e 4860 di aria calda). Come gondola viene utilizzato l'abitacolo di un elicottero ai cui lati sono sistemate le due eliche propulsive, azionate da due motori di 150 cavalli ciascuno; per incrementare le capacità ascensionali e di manovra dell'aeronave, lungo il perimetro dell'involucro lenticolare sono stati collocati dei piccoli propulsori addizionali. Pur essendo un modello sperimentale di dimensioni ridotte (quaranta metri di diametro e circa sei tonnellate a vuoto), l'Ala 40 è comunque in grado di trasportare dei carichi superiori alle due tonnellate a una velocità di crociera di ottanta chilometri all'ora. Ma questa avventura della seconda giovinezza dei dirigibili è solo cominciata. Forte delle indicazioni ricavate da questa prima esperienza, il Thermoplane Design Bureau sta ora lavorando alla realizzazione dell'Ala 600, un dirigibile operativo di grandi dimensioni (il diametro del disco è di 198 metri) che può trasportare oltre 600 tonnellate di carico a 140 chilometri orari di velocità di crociera ed entro un raggio d'azione di 5000 chilometri. Il primo volo di questo mastodonte dei cieli è previsto per la fine del 1995; l'entrata in servizio, invece, non prima del 2000. Un altro degli impieghi cui oggi vengono destinati i dirigibili è quello della sorveglianza antimissilistica, e in questo campo il progetto forse più notevole è quello dell'Aeronave Sentinel 5000, cui lavorano la Westinghouse e la Marina americana, nell'ambito del Naval Airship Program. L'obiettivo del programma, avviato nel 1988 con una dotazione di 169 milioni di dollari, è la realizzazione e messa a punto di un sistema di ricognizione dei missili che volano a pelo d'acqua, dotato di grande autonomia e vasto raggio d'azione. La soluzione prescelta è in essenza la stessa del primo dirigibile creato da Giffard a metà del secolo scorso, e quando nel 1996 compirà il primo volo, il Sentinel 5000 sarà il più grande dirigibile del tipo non rigido mai prodotto nella storia dell'aviazione. L'involucro a forma di sigaro, che misura 130 metri di lunghezza e 32 di diametro massimo, è gonfiato ad elio ed è mosso da tre motori (due diesel e uno a gas) da 1870 cavalli ciascuno. Le prestazioni sono notevoli sia in termini di velocità massima (163 chilometri orari), sia in termini di autonomia (più di 60 ore a 74 chilometri all'ora e 1525 metri di altitudine) e durata massima della missione (circa 30 giorni, nel contesto di una task force che assicuri i rifornimenti di elio e combustibile). Insomma, per i missili che viaggiano al pelo dell'acqua vengono tempi difficili: a partire dall'anno prossimo sull'incolumità delle navi americane veglierà la sagoma silenziosa del Sentinel 5000. I malintenzionati sono avvertiti. Massimo Morelli


DA EINSTEIN ALL'ANTISPIONAGGIO La meccanica dei quanti batte l'agente 007 Una nuova tecnica rende impenetrabili i codici segreti
Autore: REGGE TULLIO

ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ITALIA

NON solamente i mistici come Arrabal ma anche i fisici sono intrigati dalla meccanica dei quanti e dalle difficoltà di interpretazione che essa presenta. Tra i lavori di critica che più di altri hanno lasciato il segno possiamo certamente citare quello del 1935 di Einstein- Podolsky-Rosen (in breve Epr) e quello di Bell (1964). Per spiegare i punti essenziali di questi lavori ricorrerò a una metafora. Un funzionario romano inserisce in due buste identiche un foglio di carta bianca e uno di carta nera e poi spedisce le buste a un destinatario torinese e a uno palermitano. I due destinatari sanno in anticipo che le buste contengono un foglio di carta e che i due fogli non hanno lo stesso colore. Il torinese apre la busta, se trova un foglio bianco deduce correttamente e istantaneamente che il palermitano ha ricevuto un foglio nero e viceversa. Da questo esperimento non possiamo certo dedurre che l'informazione viaggia a velocità infinita ma solamente l'esistenza delle due buste con i relativi fogli nell'intervallo di tempo che va dalla spedizione all'arrivo. Esistono atomi che emettono in rapida sequenza due quanti di luce in direzione opposta. Possiamo azzardare un paragone tra il funzionario romano e le lettere da un lato e l'atomo con i due fotoni dall'altro. Le polarizzazioni dei fotoni sono opposte, se ne misuriamo una ne deduciamo subito l'altra, come accade per il colore dei fogli. La somiglianza tra i due esperimenti finisce qui. Per la meccanica dei quanti un oggetto ha una proprietà solamente se questa viene misurata in qualche modo da qualcuno. Il controllo del funzionario fa sì che le lettere e il relativo contenuto esistano anche prima della loro apertura da parte dei destinatari. Nel caso dell'atomo non c'è un funzionario, l'atomo emette con eguale probabilità fotoni di diversa polarizzazione ma poiché l'atomo non è un osservatore il valore di questa non è definito fino all'istante della misura di almeno un fotone. Misurata la polarizzazione di questo, diventa istantaneamente reale e non solo banalmente nota quella dell'altro. In effetti un'operazione di misura in loco produce un cambiamento simultaneo nella polarizzazione di un fotone che potrebbe trovarsi a distanze enormi. Tuttavia la relatività proibisce effetti simultanei a distanza come fu messo per la prima volta in rilievo da Epr. La conclusione di questi autori fu che la meccanica dei quanti è in sè incompleta e non tiene conto di altre variabili nascoste e incontrollabili che decidono del valore della polarizzazione dei fotoni. Se queste variabili fossero note verrebbe ristabilita una perfetta analogia tra la metafora delle buste e l'emissione dei fotoni. In realtà una analisi posteriore più accurata di Bohm e Aharonov (1957) ha mostrato che una teoria dovrebbe soddisfare idealmente a tre principi. Il primo è il «principio di realtà»: se, senza intervenire su di un sistema fisico, è possibile prevedere con certezza il valore di una grandezza fisica, questa corrisponde a una proprietà oggettiva del sistema che non dipende dall'osservatore. Il secondo è il «principio di località»: se durante un certo intervallo di tempo due sistemi fisici rimangono isolati tra di loro, allora l'evoluzione delle proprietà fisiche di uno di essi non può essere influenzata da operazioni eseguite sull'altro. Il terzo è il «principio di completezza»: la teoria dovrebbe dare una descrizione completa dello stato di un sistema fisico. Rinunciando a uno dei principi scompaiono i paradossi dalla teoria. Non è tuttavia detto che, seguendo Epr, si debba proprio rinunciare all'ultimo di essi postulando una realtà inaccessibile descritta da variabili nascoste. Il lavoro di Bell compie un passo decisivo formulando una serie di diseguaglianze sulle misure di polarizzazione che possono essere controllate sperimentalmente e che, se verificate, possono escludere l'ipotesi delle variabili nascoste. La proposta di Bell fu tradotta in pratica e gli esperimenti danno ragione alla meccanica dei quanti escludendo le variabili nascoste. Il risultato ha avuto una profonda risonanza sul piano interpretativo ma ci ha tolto, almeno per il momento, ogni speranza di andare oltre lo schema della scuola di Copenhagen che da circa mezzo secolo codifica la meccanica dei quanti. In sostanza questo schema ci dà una prescrizione per evitare i paradossi e che permette di interpretare e correlare i dati empirici. Cardine di questa interpretazione è che l'osservatore perturba in modo incontrollabile il sistema osservato e quindi il risultato stesso della misura. Al tempo stesso asserisce che questo risultato è comunque la realtà. In modo miracoloso la meccanica dei quanti riesce ad evitare inconsistenze dichiarando l'illegalità di quelle che ci porrebbero in imbarazzo. Una soluzione estrema ai paradossi è stata proposta da Everett e Wheeler (EW) ma ha suscitato polemiche a non finire tra gli stessi fisici, La loro proposta è la rinuncia totale alla separazione tra osservatore e sistema osservato, per EW esiste solamente l'intero universo il cui stato è descritto da una funzione d'onda che contiene tutta la realtà, ivi inclusi i risultati di tutte le misure. La meccanica dei quanti prevede la possibilità di diversi risultati per la stessa misura con diverse probabilità che corrispondono a stati diversi dell'osservatore. Per EW tutti questi stati sono descritti dalla funzione d'onda dell'universo. Questa contiene quindi il sottoscritto che osserva un fotone con una certa polarizzazione, ma anche la sua copia che l'osserva con polarizzazione opposta. Ogni copia pensa di avere in mano la realtà e di essere unica. Lo schema di EW è quindi quello delle storie parallele caro a Borges. Il fatto sorprendente è che, nonostante l'eterea astrazione di questi concetti, il paradosso Epr ha ispirato modernissimi procedimenti di codifica per la trasmissione di messaggi in condizioni di assoluta sicurezza e aventi quindi rilevante interesse pratico. Già dal tempo di Turing si sapeva che questa trasmissione è possibile solo se chi spedisce e chi riceve i dati è in possesso esclusivo di copie identiche di un codice randomizzato lungo almeno quanto il messaggio da trasmettere. La proposta di Ekart, discussa recentemente a Genova nel corso di un interessante incontro sul calcolo quantistico organizzato dalla Elsag, è quella di usare le polarizzazioni dei fotoni emessi da una sorgente atomica per la formazione e trasmissione del codice con una modalità tale per cui ogni tentativo di origliare degrada il codice e viene subito scoperto con una semplice indagine statistica. Se questo procedimento venisse adottato su vasta scala potrebbe inversamente mettere in evidenza caratteristiche inaspettate della meccanica dei quanti e imporre una revisione dei fondamenti con gran soddisfazione dei mistici. Tullio Regge Politecnico di Torino


SANTA MARIA DEL FIORE Un Brunelleschi senza segreti Una tecnica da cartografo per la cupola di Firenze
Autore: CONTI GIUSEPPE

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, ARCHITETTURA
NOMI: BRUNELLESCHI FILIPPO
LUOGHI: ITALIA, FIRENZE (FI)
TABELLE: D. Disegno della cupola di Santa Maria del Fiore

LA cupola di Santa Maria del Fiore di Firenze, costruita dal Brunelleschi fra il 1420 e il 1436, ha sempre colpito la fantasia dei visitatori e l'interesse degli studiosi: merito sia della sua bellezza, sia delle sue dimensioni (il diametro esterno è di 54 metri, la base si trova a 55 metri dal suolo; arriva a 91 metri e, con la Lanterna, raggiunge i 114 metri; pesa 26 mila tonnellate), sia della sua particolare tecnica costruttiva. La cupola, in realtà, è formata da due cupole: una interna, che è la struttura principale e ha uno spessore di circa 2,4 metri, e una esterna, più sottile (circa 0,9 metri), la quale, come disse il Brunelleschi, serve a proteggere la cupola interna dalle intemperie e a renderla «più magnifica e gonfiante». Fra queste due cupole vi è uno spazio di 1,2 metri che permette di salire fino alla sommità, cioè alla base della lanterna. Salendo, abbiamo alla destra la cupola interna e, alla sinistra, quella esterna; possiamo così notare la particolare disposizione dei mattoni: essi non sono messi, come ci si potrebbe aspettare, secondo linee orizzontali, cioè parallele al piano terra, ma alcuni sono disposti secondo linee curve (le cosiddette corde «blande» o «brande»), altri verticalmente (per coltello), formando la cosiddetta «spina pesce». Perché il Brunelleschi ha disposto i mattoni in questo modo? Quale regola ha seguito? Egli non ha lasciato niente di scritto sul modo con cui ha costruito la cupola; infatti esistono due sue relazioni (1420 e 1426) in cui si dice come sarebbe stata la cupola, ma non come si sarebbe dovuto costruire. Ciò fu dovuto molto probabilmente ai rapporti abbastanza contrastati che aveva con i fiorentini, i quali erano sempre polemici con lui e controllavano continuamente ciò che faceva: esiste nell'Archivio di Stato di Firenze una pergamena scritta nel 1425/26, durante la costruzione della cupola, in cui il pratese Giovanni di Gherardo accusa il Brunelleschi di commettere gravi errori nella sua costruzione. Dunque il Brunelleschi, che voleva essere l'unico in grado di mettere in atto il suo sistema costruttivo, non lasciò niente di scritto: da questo fatto, probabilmente, nacque la storia del «segreto». In realtà non vi è mai stato alcun segreto, anche se ancora oggi spunta ogni tanto qualcuno che afferma di avere scoperto il «segreto della cupola». Per comprendere i termini della questione, occorre anzitutto capire qual era il principale problema che si presentò al Brunelleschi e in che modo (geniale) lo risolse. La cupola di Santa Maria del Fiore è a base ottagonale a differenza di altre cupole con misure analoghe, che sono a base circolare (cupole di rotazione): il Pantheon e la cupola di San Pietro a Roma, la cupola di Santa Sofia a Istanbul. Per queste ultime la tecnica costruttiva è abbastanza semplice: basta, ad esempio, disporre i mattoni secondo anelli circolari sovrapposti (i paralleli), il cui diametro si restringe via via che si sale verso la sommità; la struttura può essere ulteriormente controllata nella sua forma con un filo o un bastone che parte dal centro della base della struttura. In questo modo la struttura diventa autoportante, cioè si sostiene da sola durante la sua costruzione. Notiamo che i paralleli delle cupole a base circolare sono sempre perpendicolari alle linee meridiane, proprio come i meridiani e i paralleli della superficie terrestre. Questa tecnica non è possibile in una struttura a base ottagonale a causa della discontinuità che si presenterebbe nei vertici dell'ottagono; la cupola di Santa Maria del Fiore è infatti formata da 8 spicchi (le vele), ciascuno dei quali forma con quello contiguo un angolo di 135; essa è dunque una struttura che non ha la stessa «continuità» delle cupole circolari; osserviamo, infine, che ogni vela è una porzione di cilindro ellittico e non di una sfera. L'idea di Brunelleschi fu di partire disponendo con continuità i mattoni negli spigoli (arconi) d'angolo, come se la cupola fosse di rotazione (e, quindi, autoportante in fase costruttiva); per fare ciò, egli ha disposto i mattoni sempre perpendicolarmente alle linee meridiane (come nelle cupole di rotazione); in questo modo i mattoni si dispongono secondo quelle linee che possiamo osservare sulla cupola (le «corde blande»). In altre parole, le corde blande corrispondono ai paralleli delle cupole di rotazione: la differenza consiste nel fatto che in queste ultime essi sono, come dice il nome, paralleli al piano terra, mentre nella cupola del Brunelleschi essi hanno l'andamento curvilineo che vediamo. Inoltre era possibile disporre i mattoni in questo modo senza l'aiuto di alcuna corda che partisse dal centro della cupola: era sufficiente un semplice strumento (forse il «gualandrino a tre corde» citato da Brunelleschi), che il muratore poteva usare nel posto in cui si trovava. Nei miei studi ho messo in formule matematiche le teorie sulla cupola elaborate da vari studiosi (Bartoli, Chiarugi, Di Pasquale, Quighini, Rossi, Seattle) per vedere quale risultato si otteneva; ebbene, tutte queste teorie, pur essendo formulate con parole e sfumature diverse tra loro, tanto da renderle talvolta in apparenza differenti, danno lo stesso risultato e forniscono un andamento delle corde blande uguale a quello descritto in precedenza. Il fatto più interessante e, forse, più sconcertante è che questo unico risultato concorda pienamente con quanto affermava nel '400 Leon Battista Alberti, che è stato testimone oculare della costruzione della cupola, e successivamente, nel '700, Leonardo Ximenes. Dunque non vi è mai stato un «segreto». Questa affermazione può essere provata anche dall'esistenza di molte costruzioni, simili alla cupola del Brunelleschi, anche se più piccole, edificate soprattutto nel '500: il cupolino a Peretola (Firenze), la cupola della sala ottagona alla Fortezza da Basso a Firenze (del Sangallo), la cupola di San Lorenzo a Firenze (del Nigetti), la cupola del santuario di Loreto (del Sangallo), la cupola della Madonna dell'Umiltà a Pistoia (del Vasari), la cupola di San Michele Arcangelo a Petrognano, Barberino Val d'Elsa (di Santi di Tito), la cupola della Madonna del Calcinaio a Cortona (di Francesco di Giorgio), tanto per citarne alcune. La semplicità del metodo ideato dal Brunelleschi rende ancora più grande il personaggio: è proprio dei geni trovare un metodo semplice per risolvere un problema difficile, in questo caso ai limiti delle possibilità umane. Non deve meravigliare il fatto che la matematica si sia rivelata uno strumento così importante nello studio della cupola; la matematica infatti permette di studiare a fondo le varie teorie, se riusciamo, naturalmente, a metterle in formule. Possiamo in tal modo sapere quale può essere l'oggetto che verrebbe fuori dall'applicazione pratica di ciascuna teoria, senza essere obbligati a costruirlo. Dobbiamo ricordarci inoltre che il Brunelleschi era un grande matematico (fu il primo che usò la matematica per lo studio della prospettiva) e che era circondato da altri valenti matematici (Paolo Toscanelli e Giovanni dell'Abaco). Come ha giustamente osservato il Bartoli, l'andamento delle corde blande, simile a quello dei meridiani e dei paralleli della superficie terrestre, può essere stato suggerito al Brunelleschi proprio dal Toscanelli, sulle cui carte geografiche si basò alcuni anni dopo Cristoforo Colombo. Giuseppe Conti Facoltà di Architettura di Firenze


CIBERSPAZIO Un robot ti aiuterà a navigare
NOMI: REYNOLDS CRAIG, MAES PATTI, PARISI DOMENICO
LUOGHI: ITALIA

CON l'avvento del virtuale e dei sistemi interattivi più «amichevoli» il rapporto con i computer è diventato così intenso da invitarci a entrare psicologicamente in un'altra dimensione, ormai comunemente definita ciberspazio: uno spazio-tempo che può essere realmente abitato anche se solo per simulazione. Questa dimensione si sviluppa principalmente in rete, lungo vie digitali di cui Internet è la più famosa. Ma non solo. Queste altre dimensioni non sono per forza lontane, distribuite lungo la ragnatela telematica, ma anche vicine, vicinissime: nello schermo di un computer multimediale che sta sulla nostra scrivania. Si è in molti a operare quotidianamente in questo ciberspazio ordinario: come liberare tempo dal nostro lavoro al computer? Certo, ci sono processori sempre più veloci, ma non basta perché il problema si pone non solo in termini quantitativi ma qualitativi. Quali operazioni possiamo risparmiarci? Ecco arrivare in soccorso i «knowbots»: i robot di conoscenza, agenti «intelligenti» in grado, se istruiti a dovere, di agire per nostro conto nelle reti oppure «offline» nel sistema multimediale che abbiamo a disposizione. Di «knowbots» si è parlato a Imagina, il Forum svoltosi recentemente a Montecarlo: insieme ai «cloni» (i personaggi sintetici animati in tempo reale) e al dilagare del fenomeno Internet, rappresentano i segnali più forti della «Cyber Era» (questo il titolo all'intera manifestazione). I knowbots nascono direttamente dalle ricerche sulla «vita artificiale» che da qualche tempo hanno tradotto gli studi complessi sulle reti neurali e sulle proprietà specifiche dell'intelligenza artificiale in ambiti di operatività evidente, comprensibile. E' possibile istruire questi «agenti intelligenti» facendoli lavorare per noi in database, archivi di posta elettronica o, come nel caso di un «computoon» (cartone animato al computer) realizzato per il film Batman II, risparmiarsi un bel po' di calcolo di animazione programmando il «comportamento» dei pipistrelli a non urtarsi tra loro, come fece Craig Reynolds della Symbolics. Alcune nuove generazioni di software di navigazione in rete sono già dotate di knowbots, mentre ad attuare le sperimentazioni più avanzate sulle possibili interazioni tra noi e questi agenti-software è Patti Maes, una bella ricercatrice belga, presso il Massachusetts Institute of Technology. Nel Media Laboratory dell'istituto è installato permanentemente un Ambiente video interattivo di vita artificiale (Alive II), un sistema centrato su un Onyx Reality Engine della Silicon Graphics che opera sia sulla modellazione del comportamento dei knowbots sia sull'acquisizione dell'immagine dell'utente-operatore. Funziona in questo modo: si viene come rispecchiati in uno schermo, attraverso la ripresa video in un set con cromakey, quindi digitalizzati e trasposti in uno scenario virtuale abitato da strani esserini (alcuni di questi hanno le sembianze di un cane). Lì entriamo in relazione con il knowbot, che reagisce in modo preordinato ad alcuni nostri gesti, programmato per acquisire anche quelle istruzioni che lo addestreranno, come quella di farlo bere in un determinato punto. In Italia qualcosa di simile è stato presentato a Futuro Remoto, la manifestazione napoletana di divulgazione scientifica, nel Laboratorio di vita artificiale ideato da Domenico Parisi, direttore dell'istituto di Psicologia del Cnr a Roma. Tra i knowbot generati ricordiamo in particolare i «mangiatori di contorni», degli organismi artificiali istruiti per acquisire i contorni di immagini teletrasmesse. La loro funzione è destinata ai software per la compressione di immagini che riescono ad operare più velocemente ed efficacemente se si interviene sugli elementi essenziali dell'immagine: quella con i contorni che proprio il knowbot acquisisce mangiando. Un processo che corrisponde in modo sorprendente al processo biologico primario: la ricerca di cibo. Carlo Infante


AERONAUTICA Quell'aereo fatto con gli avanzi Il «737», una storia felice e non ancora finita
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, TRASPORTI
ORGANIZZAZIONI: BOEING 737
LUOGHI: ITALIA

E' il più grande successo industriale dell'era del jet: più di tremila aerei ordinati fino ad oggi e, davanti, ancora un grande futuro. Eppure la nascita del «Boeing 737», bireattore dalle mille metamorfosi, non avvenne certamente sotto auspici brillanti e neppure in circostanze favorevoli; fu, anzi, un evento quasi casuale. La Boeing, dopo una lunga gestazione, aveva appena lanciato il B-727, trireattore caratteristico per i suoi tre motori in coda, al quale affidava molte delle sue ambizioni di leader mondiale nel campo dei jet civili, e si trovava tra le mani una fusoliera che, forse, poteva essere sfruttata anche per un altro modello. Era il 1964 e i tradizionali rivali della società di Seattle, la californiana Douglas e la britannica British Aerospace (Airbus non esisteva ancora) avevano appena lanciato rispettivamente il Dc-9 e il Bac- 111, bireattori da un centinaio di posti. La Boeing era già in ritardo, la maggior parte delle grandi compagnie avevano già prenotato i nuovi jet per il breve raggio, un terzo modello nella stessa categoria aveva buone probablità di rivelarsi in fiasco finanziariamente disastroso. A far partire il progetto fu la compagnia tedesca Lufthansa, che si disse disposta a ordinare ventuno esemplari del nuovo aereo purché la decisione di costruirlo fosse presa immediatamente; altrimenti avrebbe scelto i Dc-9. I grandi manager dell'azienda di Seattle incrociarono le dita e si buttarono; poco dopo furono premiati perché la compagnia americana United, una delle più importanti, ordinò in un colpo solo ben quattrocento aerei. La definizione della struttura fu fatta in gran fretta; base di partenza la fusoliera del 727, più larga di quella del Dc- 9 e del Bac-111, con sei sedili affiancati invece di cinque; due motori attaccati sotto le ali, senza piloni di sostegno, per cui poté essere adottato un carrello dalle gambe molto corte e la fusoliera risultò molto bassa per facilitare le operazione di carico di bagagli e merci. Quando nell'aprile del '76 il nuovo aereo compì il primo volo mancavano appena nove mesi alla consegna alla Lufthansa. La prima versione dell'aereo, denominata B737- 100, non si rivelò particolarmente brillante, con notevoli problemi di resistenza aerodinamica data la sua forma piuttosto tozza; tanto che si dovettero fare subito notevoli modifiche, che diedero origine al modello «200». E' questa la versione che ha fatto le basi della fortuna del «brutto anatroccolo», venduta in tutto il mondo, tuttora in servizio con molte compagnie grandi e piccole. Fu fatta anche una versione speciale per le piste semipreparate del Terzo Mondo, dotata tra l'altro di un sistema a getto d'aria per impedire che le prese d'aria dei motori ingoiassero terra e sassi. Nel 1982 erano già stati stati raggiunti i mille ordini, surclassando ambedue i rivali. Poteva essere un traguardo finale di tutto rispetto per un velivolo concepito così frettolosamente; d'altra parte l'aereo, così com'era, denunciava ormai chiari limiti; in particolare i motori avevano consumi eccessivi e un livello di rumorosità non più accettato dalle popolazioni abitanti intorno agli aeroporti. Ma la Boeing, che nel frattempo aveva investito massicciamente nel B- 747 «Jumbo», nel B-757 e nel B-767, non era pronta per il lancio di un nuovo modello e preferì aggiornare quello vecchio. Questa decisione è all'origine del «miracolo 737». Il B-737-300, impostato nell'81 e presentato nell'84, è nello stesso tempo il vecchio aereo e un aereo totalmente diverso; conserva la stessa fusoliera, stessa disposizione interna, la stessa flessibilità operativa, ma ha un'avionica completamente nuova, è costruito con molti materiali innovativi, è più lungo (circa 130 passeggeri), ha ali di nuovo disegno, maggiore autonomia; e soprattutto motori diversi, i Cfm 56 della società franco-americana Snecma. Sono motori cosiddetti «a doppio flusso», nei quali cioè i gas caldi espulsi ad alta velocità per dare la spinta sono mescolati con un flusso d'aria a velocità più bassa generato dal «fan», la grande ventola posta anteriormente al motore; in questo modo il rumore è drasticamente ridotto. Siccome però i motori a doppio flusso sono necessariamente più tondi e ingombranti dei vecchi reattori classici, è stato necessario agganciarli alle ali con dei piloni e adottare un carrello più alto. E' così cambiato radicalmente l'aspetto dei velivoli. Da questo punto in avanti le modifiche sono continuate senza sosta per adattare il velivolo (di volta in volta accorciandolo o allungandolo, aumentando o riducendo il peso massimo al decollo, variando il raggio d'azione) alle richieste del mercato. Le varianti sono giunte (per il momento) alla versione numero otto, il 737-800. Vittorio Ravizza


UN PESCE DEI MARI CORALLINI Bel tipo garibaldino Livrea rossa e disinvoltura
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ETOLOGIA, ZOOLOGIA, ANIMALI
NOMI: SIKKEL PAUL
LUOGHI: ITALIA

E' buffo che un pesce si chiami Garibaldi. E non come nomignolo, ma per designazione ufficiale. Eppure ha questo nome un pomacentride, un pesce dei mari corallini che bazzica lungo le coste della California, nelle acque limpide che sovrastano i fondali rocciosi. Nessuna meraviglia che si chiami così un pesce americano: Garibaldi è l'eroe dei due mondi, famosissimo anche in America, dove combatté per la Repubblica del Rio Grande do Sul, in Sudamerica, contro l'esercito brasiliano. Ma perché l'Hypsypops rubicundus - tale è il suo nome scientifico - è chiamato Garibaldi? Probabilmente perché da adulto assume una vivacissima livrea scarlatta che ricorda, con un po' di fantasia, le camicie rosse dei garibaldini. Anche se da giovane ha una colorazione meno vistosa, decorata da macchie azzurrognole iridescenti che scompaiono intorno ai cinque anni di età. Comunque non è certo l'aspetto esteriore che ha attirato su questo pesce l'interesse degli studiosi. E' il suo comportamento. O, per meglio dire, il comportamento contraddittorio del maschio che si dedica anima e corpo alla cura della prole e poi, un bel giorno, completamente sordo alla voce del sangue, una parte di quelle stesse uova che ha sino allora amorevolmente allevato e protetto, se la mangia con la massima disinvoltura. Una forma di cannibalismo in stridente contrasto con l'etica umana. Sarà bene però ribadire per l'ennesima volta che la nostra morale non è applicabile al mondo degli animali. I quali non sono nè morali, nè immorali. Sono semplicemente amorali. Si è particolarmente interessato al bizzarro comportamento paterno di Garibaldi lo studioso Paul C. Sikkel, che ne ha fatto oggetto della sua tesi di laurea. Sikkel incontra per la prima volta l'Hypsypops rubicundus nelle acque al largo dell'isola di Santa Catalina, in California. Durante un'immersione, nota un mucchietto di uova gialle posato su un tappeto di alghe. Incuriosito si avvicina per vederci meglio ed ecco che improvvisamente un pesce scarlatto lungo una trentina di centimetri lo aggredisce, mordendolo alla guancia. E' un padre zelante, un Garibaldi, che difende con incredibile ferocia la sua covata. Ce n'è quanto basta per invogliare il giovane studioso a saperne di più. E per sette anni si mette a spiare quel che succede nei meandri della scogliera. I maschi in primavera o in estate si danno da fare per costruire il nido. Non si accontentano di ripulire un lembo di roccia o di scoglio corallino, come fanno gli altri pesci. Impiegano un mese intero per selezionare il materiale edilizio, mettendo assieme un tappeto di filamentose alghe rosse. Rimuovendo con la bocca o con le pinne i detriti e le specie di alghe indesiderate, si assicurano che soltanto le alghe rosse crescano sulla roccia. E per una decina di anni nidificano sempre nello stesso posto. Quando un maschio muore, il suo posto viene preso nello stesso nido da un successore. Non si è ancora scoperta la ragione per cui i Garibaldi scelgano esclusivamente le alghe rosse. Ma sta di fatto - e Sikkel l'ha potuto constatare - che le femmine, nella loro ricerca dei partner, che sono parecchi, saltano a piè pari i nidi malamente pavimentati di alghe rosse, scegliendo invece quelli in cui il tappeto di alghe è più compatto e regolare. Quando una femmina Garibaldi, con l'addome gonfio carico di uova, trova uno dei maschi che avrà il privilegio di fecondarne una parte, lui capisce al volo e appena la femmina gli passa accanto si mette a fare salti mortali, emettendo forti grugniti con i denti faringei. Ogni salto lo avvicina al nido, un bel tappeto di alghe rosse ancorato a un sasso. La femmina lo segue e depone su quel materasso migliaia di minuscole uova ellittiche giallo brillante, sulle quali il maschio volteggia eccitato, riversando lo sperma. La femmina completa l'ovodeposizione in una quindicina di minuti. Dopo di che se ne va per i fatti suoi, lasciando il maschio arbitro della situazione. Incomincia allora per lui un periodo febbrile. Nel suo nido avvengono altre ovodeposizioni, come dimostra il colore delle uova: appena deposte, sono di un bel giallo sgargiante, ma dopo tre o quattro giorni diventano grigie. Il padre però non fa distinzione. Almeno per il momento. Aera le uova agitando incessantemente le pinne e scaccia senza tregua dal nido i pesci predoni che s'intrufolano. Sennonché a un certo punto, colpo di scena: lui stesso si avvicina alle uova grigie, le più vecchie, e riempiendosene più volte la bocca, se le divora! Perché mai il padre cannibale si mangia le uova più vecchie, quelle che sono più vicine alla schiusa? Non sarebbe meglio lasciarle sviluppare e assicurarsi in questo modo la discendenza? La ragione di questo comportamento - come scopre presto Sikkel - è che le femmine si guardano bene dal deporre le uova in un nido maschile se questo contiene uova grigie, cioè vecchie di tre o più giorni. Sono attratte irresistibilmente dalle uova gialle, cioè da quelle deposte più di recente. Per cui non appena una femmina ha deposto le sue uova, gialle naturalmente, altre femmine arrivano in rapida successione a deporre il loro carico. In questo modo il maschio riesce a raccogliere nel suo nido un gran numero di uova, in certi casi fino a venti covate di altrettante femmine. Quando dopo tre o quattro giorni le uova più vecchie diventano grigie, il padre ha tutto l'interesse di toglierle di mezzo. Come? Nel modo più semplice. Mangiandosele. Così quello che a noi sembra un enigmatico sacrificio dei figli è in realtà un'ingegnosa strategia maschile per ottenere un maggior successo riproduttivo. Restano tuttavia zone d'ombra nel comportamento dei Garibaldi. Perché i nidi sono fatti soltanto di alghe rosse? E perché le femmine depongono le uova solo nei nidi che contengono uova gialle? Misteri ancora tutti da chiarire. Isabella Lattes Coifmann


SCAFFALE Vittorio Ravizza: «Ai confini della vita», Giunti
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ECOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

SOLO in apparenza, con la conquista del Polo Sud, è finita l'epoca delle grandi esplorazioni. In realtà ancora oggi conosciamo meglio la superficie della Luna, ormai cartografata con la precisione del metro, che certe regioni della Terra sfiorate persino dal turismo di massa, come le foreste pluviali africane e sudamericane. E c'è ancora moltissimo da scoprire sui fondali oceanici, nei deserti, in Antartide, tra le vette più alte e sperdute. Ambienti estremi, ma determinanti per gli equilibri ambientali del pianeta. L'Antartide con i suoi ghiacci e gli oceani con le loro correnti di superficie e di profondità sono i grandi termostati del globo, eppure il loro funzionamento è ancora quasi sconosciuto. Per non parlare della vita, che ha colonizzato ogni nicchia dalla Fossa delle Marianne alle rocce dell'Himalaya, adattando alle situazioni più diverse forse trenta milioni di specie, delle quali due milioni soltanto sono state classificate. Ecco: il libro di Vittorio Ravizza - giornalista scientifico ben noto ai nostri lettori - ci conduce appunto «ai confini della vita», fa il punto su quanto sappiamo e su quanto ancora dobbiamo imparare riguardo ai luoghi più remoti. Ma queste pagine disegnano anche un quadro di ciò che è ancora quasi intatto e di ciò che invece stiamo rapidamente contaminando. Esplorare non significa violare, suggerisce Ravizza. Al contrario, significa capire la fragilità del pianeta. Possibilmente per limitare i guasti già prodotti.


SCAFFALE Stanley Coren: «L'intelligenza dei cani», Mondadori
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ETOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Fin dove si spinge l'intelligenza dei cani? Sanno prevedere, conoscono sequenze di causa ed effetto, sono capaci di valutare distanze e difficoltà, quante parole capiscono? Queste alcune delle domande a cui risponde il libro di Coren, professore di psicologia all'Università British Columbia, sulla base di rigorosi esperimenti scientifici. Farà discutere i cinofili una tabella in cui 130 razze vengono disposte in ordine di intelligenza sulla base di due parametri: l'ubbidienza e la capacità di svolgere un compito assegnato. Si classifica primo il Border collie, secondo il Barbone, terzo il Pastore tedesco. Ultimo il Levriero afgano. Nella stessa collana, di Jonathan Weiner, «Il becco del fringuello», un saggio che riferisce di una ricerca mirata a documentare in presa diretta l'evoluzione delle specie.


SCAFFALE Giorgio Blandino e Bartolomea Granieri: «La disponibi lità ad apprendere», Raffaello Cortina
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: DIDATTICA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Insegnamento ed apprendimento sono le due facce di un solo processo nel quale la componente affettiva ed emotiva svolge un ruolo tanto più importante quanto meno se ne è consapevoli. Con una impostazione fondamentalmente psicoanalitica, questo saggio si rivolge ai genitori, ai docenti e anche ai formatori dei docenti con l'obiettivo di guidare e migliorare il processo insegnamento-apprendimento.


SCAFFALE Carmine Macchione: «Vecchi o anziani?», Upsel, Torino
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

La nostra sarà sempre più una società di anziani, cioè di persone ricche di esperienza e ancora notevolmente efficienti sul piano fisico, e sempre meno di vecchi, cioè di persone gravate da limiti fisici e mentali, socialmente emarginate. «Vecchi o anziani?» affronta questa situazione, creata dal progredire dell'età media e dal miglioramento della qualità della vita, ponendo le basi per una geriatria capace di affrontare il cambiamento in atto.


SCAFFALE Taber: «Dizionario enciclopedico di scienze mediche», McGraw Hill
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA, LIBRI
LUOGHI: ITALIA

Torniamo a segnalare l'opera del Taber, che raccoglie in due volumi ben 48 mila voci di carattere medico in inglese e in italiano, perché nella scheda pubblicata il 21 dicembre mancava la citazione dell'editore. Piero Bianucci


ARCHIVI CLIMATICI In cinquant'anni 7 gradi di più Rapidissima la fine dell'ultima era glaciale
Autore: MERCALLI LUCA

ARGOMENTI: METEOROLOGIA, ECOLOGIA
NOMI: LORIUS CLAUDE
LUOGHI: ITALIA

A Grenoble piove. Nulla di strano. Più strano è che a metà febbraio la pioggia cada anche più su, fino ai 2000 metri del colle del Lautaret, dove di norma, in questa stagione, nevica. L'anomalia non fa che accrescere l'interesse per il congresso «Nivologia e glaciologia, stato dell'arte alla fine del XX secolo», promosso nella capitale del Delfinato dalla Società Idrotecnica di Francia. Grenoble non è una scelta casuale. Qui hanno sede alcuni dei più importanti laboratori al mondo per lo studio dell'acqua solida: il Laboratoire de Glaciologie et Geophisique de l'Environnement, il Centro studi sulla neve di Meteo-France, la Divisione Nivologia del Cemagref, l'Associazione Nazionale per lo Studio della Neve e delle Valanghe (Anena). Il ruolo della neve e del ghiaccio è da un lato strettamente connesso con le attività umane, come il turismo nelle regioni alpine, dall'altro assume sempre maggior peso nella comprensione del complesso sistema clima- atmosfera-oceani, a livello delle immense calotte polari. Ed è proprio la relazione di due illustri studiosi francesi, Lorius e Jouzel, a suscitare il maggior interesse. Si intitola «Ghiacci polari: variazioni rapide del clima». Claude Lorius, tra l'altro, terrà domani a Torino, al teatro Colosseo, una conferenza per «GiovediScienza» dal tema «Antartico: osservatorio sul pianeta» (ore 17,45, ingresso gratuito). Discorso tanto più attuale, ora che dall'Antartide si è staccato un iceberg grande quanto la Valle d'Aosta, nuovo indizio di riscaldamento del pianeta su scala globale. Il progetto europeo Grip (Greenland Ice Core Project) e quello americano Gisp2 (Greenland Ice Sheet Project) hanno portato a termine il carotaggio della calotta glaciale presso la base di Summit, a 3250 metri d'altezza, nel cuore della Groenlandia. In qualche migliaio di metri di ghiaccio è scritta la storia di oltre 140 mila anni di clima terrestre, un periodo che copre interamente l'ultima era glaciale (wurm) e la fase interglaciale precedente. L'analisi del rapporto isotopico dell'ossigeno 16 e 18 contenuto nel ghiaccio, dipendente dalla temperatura presente al momento della caduta della neve, ha consentito di ricostruire le variazioni termiche dell'atmosfera con uno straordinario potere risolutivo, prossimo ai valori medi annuali. Il grafico nato dalla carota Grip è quasi perfettamente concorde con la famosa analisi della carota Vostok, in Antartide. Sorprende come la natura abbia conservato un archivio di se stessa così affidabile in copie quasi identiche a 20 mila chilometri di distanza. Ma nella carota Grip c'è di più. C'è una precisa registrazione delle variazioni rapide del clima. Siamo abituati a pensare che i cambiamenti del clima siano stati lenti e graduali, distribuiti su millenni. Non è così. Il ghiaccio svela che si sono avute transizioni tra l'ultima era glaciale e il clima attuale che hanno comportato variazioni di 7 gradi centigradi nella temperatura media annua in soli 50 anni (è la differenza che passa tra Torino e una località di montagna a 1500 metri di quota). In questo periodo - circa 11.500 anni fa - la deposizione di polveri nel ghiaccio indica che un cambiamento a grande scala della circolazione atmosferica è avvenuto nel giro di 5-20 anni. Durante la stessa era glaciale, il nervosismo del clima si è tradotto in una ventina di interstadi caratterizzati da repentini aumenti e brusche ricadute termiche. Sono fenomeni che devono far riflettere sulla potenza del clima nello scombussolare in pochi anni l'intero ecosistema terrestre, compresa la fragile società umana. Fin qui si è trattato di cause naturali. Ma sono ancora i ghiacci, con le bollicine d'aria fossile intrappolate al loro interno, a dirci la composizione chimica dell'atmosfera. In un lavoro di Raynaud il rialzo delle temperature nelle fasi interglaciali appare incontestabilmente legato alle concentrazioni di gas-serra (anidride carbonica e metano). Negli ultimi 100 anni l'uso crescente di combustibili fossili e l'enorme incremento di allevamenti e di risaie ha provocato l'impennata della concentrazione di questi due gas: l'anidride carbonica è passata in un secolo da circa 280 a 350 parti per milione in volume, il metano da 800 a 1500 parti per miliardo. Ora mettiamo insieme questi dati con i risultati della carota Grip: una variabilità climatica naturale già di per sè rapida e incisiva alla quale aggiungiamo un nuovo elemento di squilibrio, di origine antropica. Il futuro del clima potrebbe lasciare spazio a sorprese che non fanno più parte dei romanzi di fantascienza, ma potrebbero mettere in crisi l'intero pianeta. Francois Valla della Cemagref ha presentato uno studio sul bilancio di massa del piccolo ghiacciaio di Sarennes, nell'Oisans. Nel 1906 aveva una superficie di 1,1 chilometri quadrati e un volume di 65 milioni di metri cubi. Nel 1991 la superficie era dimezzata, il volume ridotto a soli 16 milioni di metri cubi. Di questo passo in quarant'anni il ghiacciaio di Sarennes verrà cancellato dalle carte. Luca Mercalli Direttore di «Nimbus»


STRESS Se cresce l'ansia sale anche l'NGF
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: LEVI MONTALCINI RITA, ALOE LUIGI
ORGANIZZAZIONI: PROCEEDINGS OF THE NATIONAL ACADEMY OF SCIENCE
LUOGHI: ITALIA

COME dice la stessa Rita Levi Montalcini nella sua biografia, il fattore di accrescimento nervoso (il famoso Ngf, nerve growth factor) non cessa mai di stupirci rivelando continuamente lati sconosciuti e funzioni nuove. Le cellule nervose che compongono il nostro cervello non solo trasmettono segnali e informazioni dagli organi di senso, ma possono anche esser coinvolte nelle funzioni immunologiche di difesa. Da tempo sappiamo che lo stress attiva le cellule nervose e mette in moto non solo una serie di reazioni che coinvolgono alcuni ormoni come le catecolamine, ma anche altri tipi di sostanze come i corticosteroidi e le sostanze intermedie tra ormoni e neurotrasmettitori, i neuropeptidi. Il laboratorio della Levi Montalcini è stato il primo a indicare che situazioni stressanti per l'animale possono indurre un aumento del Ngf circolante nel sangue in parallelo con l'aumento in aree cerebrali particolari come l'ipotalamo. Tali aumenti di Ngf si correlano direttamente a episodi di aggressività indotti negli animali. In uno studio più recente lo stesso laboratorio ha precisato che l'aumento più alto di Ngf negli animali che si combattono è negli animali perdenti piuttosto che in quelli dominanti e vincenti. Tale osservazione suggerisce una interpretazione che si collega meglio a un effetto d'ansia piuttosto che semplicemente a uno di aggressività. Rimaneva da scoprire se tale reazione di aumento dell'Ngf durante lo stress fosse strettamente limitata ad alcune specie animali o si potesse estendere anche all'uomo. A questo scopo era necessario scegliere un tipo di stress sia emotivo che fisico che dimostrasse chiaramente il fenomeno. Quale situazione migliore di un lancio con il paracadute? Vennero scelti a questo scopo 43 paracadutisti della divisione Folgore, tra i 22 e i 24 anni. Lo studio è stato diretto da Luigi Aloe dell'Istituto di Neurobiologia di Roma e pubblicato sul numero di ottobre della rivista Proceedings of the National Academy of Science degli Stati Uniti. La concentrazione dell'Ngf è stata misurata nel sangue dei paracadutisti prelevato sia la sera prima del lancio che venti minuti dopo questo. Tra questi alcuni sapevano di esser stati scelti per il lancio per la prima volta altri sapevano di non esser stati selezionati. Vennero pure studiati i ricettori per l'Ngf presenti nei globuli bianchi mononucleati del sangue degli stessi soggetti. L'ansia sviluppata nell'attesa del lancio dimostrò di essere uno stimolo adeguato per ottenere un aumento del fattore nervoso. I paracadutisti che sapevano di esser stati scelti per il lancio dimostrarono un aumento dell'84% dell'Ngf rispetto a coloro che sapevano di non essere stati scelti. Dopo il lancio, l'Ngf era più alto del 100% in questi soggetti rispetto a coloro che non si erano lanciati. Si verificò pure un aumento a carico dei ricettori cellulari dell'Ngf. L'aumento dell'Ngf precedeva nel tempo quello di ormoni da stress come il cortisolo. Tali risultati confermano i dati ottenuti dagli animali ed altri ancora dall'uomo in condizioni di trattamento con farmaci antipsicotici con un effetto inibitorio sul comportamento in questo caso avevano indotto una diminuzione dell'Ngf plasmatico. Tali osservazioni suggeriscono che l'Ngf sia direttamente coinvolto in meccanismi da stress, che a loro volta potrebbero esser correlati all'attivazione di cellule del sistema immunitario che sono parti di un meccanismo di adattamento dell'organismo a situazioni di improvviso pericolo e di stress in genere. Ezio Giacobini Università del Sud Illinois


MOTOSLITTA Brividi sulla neve Velocità record: 160 km/h
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T.D. Come funziona una motoslitta

LA motoslitta è stata messa a punto da un canadese, J. Armand Bombardier, che intendeva creare un veicolo leggero e veloce, per uno o due passeggeri. Il primo modello risale al 1959. Era un incrocio tra una slitta e una motocicletta, basato su principi, come i cingoli, che funzionano benissimo ancora oggi. Esistono modelli da carico e modelli da corsa: questi ultimi raggiungono i 160 km/h. Guidare una motoslitta può essere rischioso, soprattutto se il terreno è accidentato. Per questo uno dei polsi del pilota viene attaccato con una corda al dispositivo di emergenza per spegnere il motore: se il pilota cade, con uno strattone blocca la motoslitta.


RICORDO DEL MATEMATICO Esame con Peano curva pericolosa
NOMI: PEANO GIUSEPPE, FUBINI GIUDO
LUOGHI: ITALIA

TRA i vanti della mia lontana giovinezza, v'è anche questo: di essere stato bocciato in matematica da uno dei massimi matematici del secolo, Giuseppe Peano (1858-1932). Accadde quando, dopo il liceo, tentai un concorso per un collegio universitario pavese. Esaminatore per le scienze esatte era lui, che non mi passò. Pazienza: me lo meritavo e mi giovò. Resomi consapevole di mie lacune, cercai di colmarle e di andar oltre, con un anno di studio intenso, che mi fruttò poi un voto pieno all'esame di analisi nel Politecnico di Torino, di fronte a un altro insigne matematico: Guido Fubini. Era temuto, questi, dagli allievi della scuola d'Ingegneria, per le rabbie che lo prendevano, quando si accorgeva che uno studente zoppicava nella matematica delle scuole medie. Accadde che un allievo ebbe il candore, alle prese con l'espressione senx/seny, di «tagliare sopra e sotto per sen» e di ridurla a x/y. Il professore sbottò: «Io mi chiamo Fubini e questo (il bidello) Giacobini. Divido sopra e sotto per ini e ho Fub diviso Giacob». Era un maestro: sapeva tener ferma l'attenzione delle vaste scolaresche di quei corsi. Dovette poi migrare negli Stati Uniti, per le leggi razziali, che nel '38 allontanarono dalle scuole del regno molti docenti e allievi. Insieme con lui se n'andò un altro bravissimo matematico, Gino Fano, che teneva la cattedra di geometria descrittiva. Per tornare al Peano, vorremmo essere in grado di comprendere prima, di ridire poi in termini chiari, un po' di quanto egli conseguì nei vari campi delle sue ricerche. Non siamo da tanto; ma ci siamo imbattuti nei simboli e nei segni con cui, quasi inventore di linguaggi, egli tentò di esprimere operazioni logiche, proponendo una speciale ideografia, in parte rimasta. Un'altra sua ricerca riguarda i fondamenti dell'aritmetica, per i quali stabilì una serie di principi (diversi da quelli che Euclide antepose ai suoi Elementi): tre idee fondamentali (zero, numero, successore) stabilì il Peano, più cinque postulati, che risparmiamo al lettore. Ma vogliamo indicare almeno il primo (lo zero è un numero), denso di significato e che avrebbe stupito i matematici dell'antichità, nelle cui numerazioni lo zero non compariva, e che di certo non avrebbero trovato sensato indicare con un segno quel che non c'è. Egli inventò altresì una curva che riempie completamente un quadrato (chi volesse provare a disegnarla ne troverà la ricetta alla voce Peano del Dizionario d'Ingegneria della Utet). A suo credito va altresì l'avere proposto una lingua derivata dal latino ma senza declinazioni, che, se avesse attecchito, avrebbe forse avuto il plauso degli scolari; ma non ebbe fortuna. Al Peano, molto apprezzato fuori d'Italia, toccò da noi l'ostilità del Croce, il quale nella sua Logica osservò che «questo è il bel tempo dei Peano, dei Boole (un inglese, inventore di un'algebra delle proporzioni), dei Couturat (un francese, seguace della logica di Peano), i cui ritrovati non sono entrati nè punto nè poco nell'uso. Vi entreranno nell'avvenire?». Al Croce (un maestro cui molto dobbiamo), se fosse ancora tra noi, si potrebbe indicare la crescente invasione degli elaboratori elettronici, che a quelle logiche attingono. Negli ultimi suoi anni, già vecchio (così lo ricordo: la faccia rossastra e scarnita, un grande naso, la barba rada), soleva discendere dalla collina torinese, dove abitava, per fare visita ad alcuni amici (sempre gli stessi) della città. Lo accompagnava un cane, cui quei suoi amici regalavano biscotti e carezze. A volte egli non aveva voglia di uscire; e il cane se ne veniva per conto suo, faceva da solo il tragitto e le visite, per ricevere i soliti doni. Così si raccontava: probabilmente è vero. Didimo


STRIZZACERVELLO
ARGOMENTI: GIOCHI
LUOGHI: ITALIA

Le teste di Cerbero Cento sono le teste di Cerbero e le braccia del gigante Briareo, i legionari della centuria, i centimetri di un metro, gli anni promessi a chi beve birra, le erbe del liquore abruzzese, gli ultimi giorni del regno di Napoleone, gli anni della guerra dei Plantageneti e cento ancora le occasioni in cui compare il numero 100, protagonista di questa settimana. Il gioco più noto, ormai un classico, consiste nel trovare un'espressione con le operazioni aritmetiche e i numeri scritti usando le nove cifre in ordine crescente, dall'1 al 9, in modo tale che il risultato sia uguale a 100. La soluzione più corta, soltanto con quattro numeri, trovata da un grande esperto in giochi matematici, Henry Ernest Dudeney è: 123 - 45 - 67 più 89 = 100 Ritrovare qualcuna delle altre cento possibili soluzioni. Trovereta la nostra domani, accanto alle previsioni del tempo.


LA PAROLA AI LETTORI Quanti ottimi motivi per dire O.K.!
LUOGHI: ITALIA

Che cosa significano le let tere di O.K.? Alcuni sostengono che il termine nacque negli Usa durante la campagna elettorale del 1840, quando il comitato per la rielezione del presidente Martin Von Buren si definì «O.K. club» dalle iniziali del luogo d'origine del proprio leader, Old Kinderhook. Federico Veneziano Omegna (NO) La sigla, passando dal gergo politico all'uso corrente, venne interpretata come l'acronimo di «oll korrect», come suona alle orecchie «all correct» (tutto bene). Luca Balbo Torino Il termine è nato durante la seconda Guerra Mondiale per indicare che le missioni aeree non avevano subito vittime e quindi era andato «tutto bene». O. K. era infatti la sigla che veniva apposta sui rapporti a indicare «Zero Killed» (nessuno ucciso). Il comandante della squadriglia durante l'atterraggio comunicava in anticipo l'esito favorevole della missione attraverso il finestrino con il caratteristico gesto, generalmente abbinato all'O.K., che rappresenta lo zero con l'indice e il pollice. Filippo Zunini Genova L'esperto inglese di Storia delle Telecomunicazioni Antony Hopwood attribuisce a Samuel Morse il conio dell'espressione O.K. Durante la prova della nuova linea telegrafica New York-Washington, i tecnici non riuscivano a inviare correttamente i messaggi. Morse ipotizzò errori di ricezione a causa di un magnete difettoso e per dimostrarlo inviò un messaggio di prova. L'esperimento gli dette ragione. Il suo messaggio, costituito da cinque punti, a New York venne ricevuto distorto: punto punto linea punto linea. Che si legge, appunto, O.K. Carlo Buttasi, Mantova L'acronimo O.K. non ha alcun significato letterale, ma prende spunto dall'inglese K.O. (Knock Out), che significa «abbattutto», «atterrato». Ne consegue che, per indicare l'opposto di tali situazioni negative, si ricorra all'opposto della sigla K.O. Daniele Nazzaro, Torino Perché lo Shuttle dopo il de collo ruota di 180 sul pro prio asse? In realtà, la rotazione è di 120 intorno all'asse longitudinale e avviene dopo 11 secondi dal lancio, completandosi in 7 secondi. Lo Shuttle inizia il volo con una traiettoria ellittica che, dopo 46'34", muta in una traiettoria stabile, circolare, a una quota tipica di 402 chilometri. A questo punto vengono aperti i portelloni della stiva per dissipare il calore prodotto dalla strumentazione elettronica e dall'equipaggio ed evitare scompensi termici che potrebbero bloccare i portelloni stessi. La rotazione, nella fase atmosferica dell'ascesa, ha lo scopo di esporre all'attrito con l'aria il ventre del mezzo rivestito di materiali in grado di resistere a temperature di 1450. Enrico Cerrato Pino Torinese (TO) Sognano anche le persone cieche dalla nascita? Anche il cieco totale congenito può sognare. L'immaginazione visiva non dev'essere considerata una diretta conseguenza della percezione visiva. Le immagini mentali sono il frutto dell'integrazione di informazioni provenienti da più canali sensoriali come il tatto, l'odorato, l'udito, oltre che la vista, naturalmente. Questo spiega perché anche i ciechi congeniti possono avere immagini mentali, ottime come quelle spaziali che li guidano lungo i percorsi familiari, e possono sognare con le immagini. Elena Airaldi, Torino Le persone cieche dalla nascita sognano ma, non avendo mai visto la luce o qualche elemento che possa essere percepito dagli occhi, come le ombre o i colori, nei loro sogni ci sono soltanto suoni e (cosa un po' più rara) sensazioni riguardanti gli altri sensi. Così una persona sorda ha dei sogni che sono uguali ai film muti, senza gli spezzoni con le battute degli attori. Francesco Rossetto Ponzano Veneto (TV)


CHI SA RISPONDERE?
LUOGHI: ITALIA

Q Nell'evoluzione vengono prima i virus o prima i batteri? QLe nuvole sono allo stato gassoso o allo stato liquido? QPerché le palle di gomma rimbalzano? QChe cos'è il Doldrum? E dove si trova? Risposte a «La Stampa-Tuttoscienze», via Marenco 32, 10126 Torino. Oppure al fax 011-65.68.688




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