TUTTOSCIENZE 4 ottobre 95


LUNA PARK ALL'ADRENALINA Il piacere della paura Che cosa spinge a vivere sensazioni estreme
Autore: OLIVERIO FERRARIS ANNA

ARGOMENTI: PSICOLOGIA, GIOCHI, TECNOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: DISNEY WORLD
LUOGHI: ITALIA

GUERRE stellari, Air port, L'inferno di cristallo, Batman, Robocop, True Lies, Speed e molti altri film hollywoodiani hanno introdotto nell'immaginario collettivo una serie di scenari, terrorizzanti ed eccitanti allo stesso tempo, in cui le tecnologie possono ora rivoltarsi contro l'uomo ora rappresentare la sua salvezza. Si va così dagli ascensori che precipitano da grattacieli in fiamme agli aerei impazziti, a futuristiche basi spaziali, a esplosioni in metropolitana, sino alla superbarca di Kevin Costner capace di mirabolanti prodigi, in Water world, la terra sommersa dalle acque. Alcune di queste situazioni possono essere rivissute, sia pure in scala ridotta e abbandonandosi alla fantasia, attraverso i visori della realtà virtuale: accoppiando il computer a speciali occhialini e guanti, i nostri occhi e le nostre mani possono avere la sensazione di atterrare su una pista d'aeroporto, flottare nello spazio, vedere avvicinarsi un jet fino a pochi centimetri dal nostro corpo, toccare un extraterrestre e così via. Con l'espandersi delle tecnologie audiovisive una serie di giochi basati sulla realtà virtuale sta penetrando, soprattutto nel mercato americano e anglosassone, sia nelle sale giochi attrezzate che dentro le case attraverso dei dispositivi accoppiati al personal computer. Ma la gente non vuole soltanto simulare la realtà, vuole anche rivivere quelle sensazioni provate dai vari Harrison Ford, Schwarzenegger, Keanu Reeves, nel corso dei film mirabolanti e mozzafiato che sempre più confondono la nostra capacità di discriminare nettamente l'immaginario dalle possibilità della vita quotidiana. Ecco quindi che numerosi parchi di divertimenti, simili al Disney World di Orlando, si sono attrezzati o si stanno attrezzando per proporre delle giostre off limits in cui la gente abbia realmente la sensazione di compiere le imprese impossibili degli eroi di Hollywood. Ingegneri della Nasa e della Boeing, esperti svizzeri di teleferiche, tecnologi giapponesi, si stanno sfidando sul tema del divertimento terrorizzante, possibile appunto grazie alle nuove tecnologie e ai nuovi materiali. Per avere un'idea dell'evoluzione dei divertimenti tradizionali in senso sempre più aggressivo, basterà considerare la storia delle montagne russe: un divertimento classico in ogni luna park che si rispetti. Nel 1913 venne inaugurata a Copenaghen la montagna russa più alta e più veloce del mondo: si innalzava per 16 metri e i vagoncini andavano alla folle velocità di 60 chilometri l'ora. L'anno scorso a Blackpool in Inghilterra è stata inaugurata una montagna russa di 63 metri di altezza - la Pepsi Max Big One - i cui vagoncini raggiungono la velocità di quasi 150 chilometri l'ora. La Pepsi Max Big One è però poca cosa rispetto a quella che verrà inaugurata nel Connecticut tra due anni, alta 100 metri e veloce 200 chilometri l'ora o quella progettata per il 2001 in un altro parco di divertimenti americano: l'altezza sarà più o meno simile, la velocità raggiungerà invece i 250 chilometri. Ma non si tratta «soltanto» della trasformazione di un divertimento tradizionale come le montagne russe: ora il mondo del cinema fa il suo ingresso nei luna park con qualcosa di simile agli ascensori che precipitano dell'Inferno di cristallo. A ottobre in Kentucky verrà inaugurato un ascensore, progettato in Svizzera, in cui le «vittime» vengono legate a gruppi di quattro su dei seggiolini che scorrono lungo il binario verticale di una specie di grossa ciminiera. All'improvviso i seggiolini precipitano per 50 metri alla velocità di 100 chilometri all'ora e si fermano soltanto a 5 metri dal suolo attraverso l'entrata in funzione di potentissimi magneti che decelerano bruscamente la caduta libera di chi è entrato nell'«hellevator», un nome composto dalla fusione di hell (inferno) e elevator (ascensore). Ma il fisico delle persone che si sottopongono all'ascensore infernale può reggere una simile sollecitazione? Vari medici invitano alla cautela in quanto - fanno notare - già nelle montagne russe normali il ritmo cardiaco della persona media passa da 70 a 140 battiti al minuto; sarà quindi necessario tenere lontano chi ha qualche problema cardiaco o i nervi un po' deboli. A parte questi problemi medici, il fatto rilevante, dal punto di vista psicologico, è che l'immaginario di Hollywood sta penetrando sempre più massicciamente nella vita, nella mente e nel sistema nervoso di milioni di persone. Non si tratta più, infatti, come avviene ancora attualmente negli studios di Hol lywood aperti ai visitatori, di avere l'impressione che i vagoncini su cui si sta viaggiando deraglino, passino attraverso un falso incendio o subiscano le conseguenze di un falso terremoto, ma di vivere veramente quelle sensazioni che gli spettatori immaginano vivano i loro eroi, i duri di Hollywood. Una ulteriore escalation del divertimento all'adrenalina sarà probabilmente quella che viene pianificata a Londra nel Centro Trocadero, dove i visitatori potranno esplorare l'universo e combattere gli alieni dai sedili di vagoni volanti o ascensori spaziali in cui non soltanto proveranno le sensazioni dell'alta velocità e delle decelerazioni indotte realmente da vagoni e ascensori che si muovono rapidamente, ma vedranno e sentiranno, attraverso elmetti e guanti speciali, ulteriori sensazioni indotte dalla realtà virtuale. Insomma, verranno combinate due tecnologie che immergeranno il corpo e la mente del visitatore dei parchi giochi in sensazioni sempre più avvolgenti e forti. Gran parte di queste innovazioni sono legate al fatto che molti ingegneri della Nasa e della Boeing, due industrie oggi in crisi, hanno trasformato le tecnologie di tipo aerospaziale in tecnologie rivolte alla vita quotidiana. Qualcosa di simile era successo alla fine della guerra del Vietnam, quando molte delle tecnologie ad uso bellico erano state riconvertite in tecnologie per uso civile. Ma questa «riconversione» che irrompe nella dimensione ludica in maniera tanto aggressiva, coinvolgente e rapida, non potrebbe creare una netta separazione tra reale e immaginario, tra vita quotidiana e vita simulata? Ecco una ulteriore sfida alla nostra capacità di discernimento e, soprattutto, a quella dei bambini abituati a entrare e uscire dalla dimensione ludica secondo dei tempi naturali, regolati cioè dai ritmi biologici e dalle loro personali esigenze. Certo è che anche per noi adulti sarà importante, una volta scesi da un vagoncino che sfreccia a 250 chilometri all'ora, lasciar trascorrere del tempo prima di avviarci al parcheggio e risalire sulla nostra utilitaria... Anna Oliverio Ferraris Università di Roma


PRO & CONTRO Siamo davvero determinati dai nostri geni? Eredità e ambiente definiscono comportamenti solo «probabili»
Autore: BENSO LODOVICO

ARGOMENTI: GENETICA, RICERCA SCIENTIFICA
NOMI: DULBECCO RENATO
LUOGHI: ITALIA

LA scienza va scoprendo che anche molti comportamenti legati alla sfera affettivo- sessuale hanno una base genetica. Ne consegue la domanda se detti comportamenti, essendo «scritti nel Dna», siano obbligati. Si legge, per esempio, che è stato scoperto il gene dell'infedeltà: ciò significa che gli esseri umani sono necessariamente infedeli? Quali sono le implicazioni etiche di questa acquisizione? L'infedeltà (solo come esempio) dovrebbe quindi venir completamente accettata? I mass media tendono a estrarre dalle pubblicazioni scientifiche, semplificando, gli elementi più adatti a colpire le emozioni del pubblico senza valutare le ricerche nel loro contesto globale, mentre occorre, soprattutto nel caso dei comportamenti, tener conto delle complesse problematiche connesse con la genetica stessa. Sintetizzando quanto scrive il Premio Nobel Renato Dulbecco «i geni importanti per la personalità possono influenzare l'efficienza dei trasmettitori del messaggio nervoso o la risposta delle cellule nervose a un dato trasmettitore, il che dà luogo a un'ampia varietà di sfumature. Gli effetti di queste differenze possono poi sommarsi o sottrarsi generando differenze quantitative del comportamento». Alla genetica mendeliana (quella del colore dei piselli) e post-mendeliana, rigorosamente deterministiche, si affianca quindi oggi una genetica multifattoriale, sempre meno deterministica e sempre più probabilistica. E' inoltre noto che in biologia il fenotipo (quello che ciascun individuo realmente è, sia in termini fisici che comportamentali) è determinato da un'interazione non lineare (complessa e variabile) tra geni e ambiente, in funzione del tempo. Tutte le nostre caratteristiche hanno quindi una componente genetica che definisce, entro certi limiti, l'ambito entro il quale ci si può adattare all'ambiente, che va considerato in un'accezione molto ampia. In questo senso, ciascun individuo è diverso dagli altri. Certe caratteristiche, per esempio il colore degli occhi, sono più gene-dipendenti, mentre altre, come il peso corporeo, sono più (ma non solo) ambiente-dipendenti. Per quel che riguarda il comportamento umano, come dimostrato anche da studi sui gemelli omozigoti, la componente ambientale è molto importante, ma non si può prescindere dal fatto che i geni - che vanno visti non solo come elemento dell'ereditarietà ma anche come regolatori della biochimica delle cellule dell'organismo - pur non determinando i comportamenti ne influenzano le manifestazioni. A questo proposito bisogna tener conto del fatto che la genetica multifattoriale ha dimostrato che i comportamenti e le caratteristiche complesse sono di solito influenzati da geni diversi, ognuno dei quali, a sua volta agisce su svariati e differenti processi. Il tutto con diverse interazioni con l'ambiente. A questo livello, la ricchezza di sfumature e la complessità del sistema sono tali che è assolutamente ingenuo tener conto delle sole componenti genetiche o viceversa solo di quelle ambientali. La genetica, quindi, non deve venir considerata in termini deterministici e soprattutto è erroneo trarne delle conclusioni etiche o dei determinismi comportamentali per l'uomo. E' solo possibile stimare probabilisticamente la possibilità che certi accadimenti si verifichino. E' anche molto delicato generalizzare all'uomo osservazioni comportamentali eseguite su animali. Nel mondo animale può capitare che la madre divori il neonato inadatto alla vita, partendo dal cordone ombelicale. Questo comportamento ha probabilmente una determinante genetica, ma non per questo si giustifica la rupe Tarpea. Allargando il discorso alle Scienze Naturali in generale, deve essere chiaro che la natura esaminata secondo un'ottica scientifica è un sistema altamente complesso e del tutto indifferente, che non ha nulla di intrinsecamente «buono» o «cattivo», non aiuta nè danneggia nessuno: «funziona» - o meglio si «evolve». L'oppio e la digitale esistono in natura: è l'impiego che se ne fa a determinarne i danni o le proprietà terapeutiche. La natura di per sè non fornisce alcuna garanzia, come sembrano credere molti ingenui ecologisti. E forse l'uomo è diverso dalle altre specie proprio perché, nel bene e nel male, è capace di trascendere i meccanismi e le funzioni naturali. Non deve stupire il fatto che, essendo la struttura della materia vivente, così come quella del mondo che ci circonda, materiale, qualunque processo, anche quello spiritualmente più elevato, sia mediato da effettori chimico fisici e, nel caso della biologia, da mediatori della trasmissione nervosa, ormoni, enzimi ecc. e quindi dai geni che direttamente o indirettamente ne codificano la produzione. Conoscere e studiare questi meccanismi può essere utilissimo ma non fornisce elementi sull'approccio materialistico o non alla concezione della vita, problematica che si pone a un livello diverso da quello dello studio dei meccanismi fisici della vita stessa. Anche l'esecuzione di un capolavoro d'arte è mediato da circuiti neuronali e azioni muscolari e articolari, ma non sembra ipotizzabile ridurla solo ad essi. E' quindi avventato trarre conclusioni di tipo etico dalla lettura scientifica del mondo sensibile. Questi spostamenti di livello sono stati causa di equivoci e confusioni, portando ad attribuire alla «Natura» finalità che possono venir prese in considerazione o no secondo altre ottiche e altre chiavi di lettura, ad esempio quella estetica, ma che poco o nulla hanno a che fare con gli aspetti scientifici. Allargando ulteriormente il discorso, appare oggi strano che per esempio il problema della concezione tolemaica o copernicana dei rapporti astronomici tra la Terra e il Sole possa aver condizionato per secoli in modo drammatico i rapporti tra Religione e Scienza. Che la Terra ruoti attorno al Sole o viceversa è del tutto indifferente in termini di scelta religiosa o ideologica. Tutto ciò non significa, naturalmente, che l'etica non debba interagire con la scienza: i mezzi e i fini della ricerca scientifica possono incontrarsi frequentemente con problematiche morali. Ne è un esempio estremo quello degli esperimenti eseguiti dai medici nazisti sui prigionieri dei campi di concentramento. E numerosi e delicati sono i problemi che oggi la bioetica deve affrontare. Quella che è molto discutibile è l'altra faccia della medaglia, e cioè che l'osservazione scientifica possa determinare le scelte etiche; le può, al massimo, influenzare parzialmente. Lodovico Benso Università di Torino


GEOFISICA Acqua, prima emergenza Un pianeta-pattumiera sempre più alla deriva
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, ECOLOGIA, AMBIENTE, CONFERENZA
NOMI: RANIERI GAETANO
ORGANIZZAZIONI: POLITECNICO DI TORINO, ENVIRONMENTAL AND ENGINEERING GEOPHYSICAL SOCIETY
LUOGHI: ITALIA

IL problema più grave dell'umanità? L'acqua: basta paragonare le due curve della crescita della popolazione e delle riserve idriche per capire che si arriverà presto alla crisi. La temperatura del nostro pianeta sale, occorre mettere un freno a quelle attività antropiche che, sommandosi a quelle naturali, alimentano l'effetto serra. Si continua a inquinare il mare, rischiamo di lasciare ai nostri figli un pianeta-pattumiera. La civiltà industriale deve fare attenzione». Gaetano Ranieri, direttore del Dipartimento di geofisica del Politecnico di Torino, ha appena aperto il primo meeting della sezione europea dell'Environmental and Engineering Geophysical Society: 300 geofisici, geologi, idrogeologi, ingegneri, pianificatori territoriali di 42 Paesi si sono incontrati a Torino per discutere il tema più assillante dei nostri tempi, l'ambiente, valutare che cosa possano fare la scienza e la tecnologia per impedirne il degrado, ripararne i guasti, impedire che la Terra diventi invivibile sotto i colpi di sconsiderate attività umane. Una scienza giovane, la geofisica, nata meno di ottant'anni fa con la ricerca petrolifera; agli esordi, per mancanza di mezzi tecnici, doveva limitarsi ad «auscultare» la Terra come il medico auscultava il paziente. Ma oggi la geofisica conosce uno sviluppo notevolissimo grazie proprio al moltiplicarsi degli strumenti tecnici; proprio come il medico, il geofisico moderno (si tratti di un fisico, un ingegnere, un geologo) ha la possibilità di usare l'ecografia e la tomografia assiale computerizzata, radar capace di penetrare nel suolo (per due-tre metri ma in casi di terreno particolarmente favorevole fino a 25-30 metri), gravimetri e sismografi digitali miniaturizzati, e tanti altri apparecchi facilmente trasportabili su aerei e satelliti, che consentono di acquisire e analizzare segnali e dati in modo raffinato e preciso e di elaborarli in qualche ora, contro le settimane richieste in passato. Un salto di qualità consentito dall'elettronica. Contemporaneamente il geofisico, che in origine si occupava prevalentemente di ricercare giacimenti di petrolio e di gas, ha esteso enormemente il proprio campo di attività, in particolare proprio nella direzione delle tematiche ambientali: studio del terreno e del sottosuolo, valutazione del rischio sismico, controllo delle acque sotterranee, monitoraggio dell'inquinamento, sorveglianza del mare, dei fiumi, dei ghiacciai montani e polari, monitoraggio di monumenti e luoghi storici, smaltimento dei rifiuti, fino (tecnica in corso di sperimentazione) alla ricerca di persone sepolte dalle valanghe. Il summit torinese ha confrontato metodologie, fatto un quadro delle possibilità di intervento, proposto procedure innovative; un incontro tecnico, ma anche una presa di responsabilità di una categoria di studiosi ai quali compete un ruolo di primo piano, al fianco delle istituzioni, in un campo vitale qual è la gestione del territorio. Vittorio Ravizza


FRANE INFINITE Una lezione dall'ultima alluvione in Piemonte: dove il terreno smotta una volta, smotterà ancora
Autore: V_RAV

ARGOMENTI: GEOGRAFIA E GEOFISICA, ECOLOGIA, AMBIENTE, ALLUVIONI
ORGANIZZAZIONI: POLITECNICO DI TORINO
LUOGHI: ITALIA

UN territorio colpito in profondità, che ha cancellato i segni di molte ferite ma che non è ancora guarito, fragile e pronto a sgretolarsi sotto un nuovo attacco: questa l'immagine del Piemonte colpito dall'alluvione del novembre '94 che emerge da un'indagine svolta dagli studiosi del Dipartimento di Georisorse e Territorio del Politecnico di Torino (Barisone, Bottino, Mandrone, Vigna) e presentata al meeting dei geofisici a Torino. Appena cominciò a delinearsi il disastro, docenti illustri e giovani studenti accorsero insieme nel fango della Langa, del Canavese, delle valli del Tanaro e del Belbo occupandosi di cose pratiche e urgenti, come case pericolanti e frane minacciose. Poi, passata l'emergenza, hanno continuato a battere la vasta regione colpita per tentare di capirne il male oscuro che aveva provocato il disastro. Hanno scoperto così che migliaia di frane si erano mosse quasi nello stesso momento, con eccezionale velocità, in zone molto estese, in due riprese nel tardo pomeriggio del 5 novembre e nella notte seguente, a distanza di tre-quattro ore dalle precipitazioni più violente. Un collasso quasi istantaneo: sotto gli scrosci violenti un'infinità di antiche, spesso invisibili lesioni coperte dalle coltivazioni si sono repentinamente riaperte e si sono ingigantite. I tecnici hanno individuato vari tipi di frane: i colamenti, che in genere coinvolgono soltanto i terreni di copertura; i crolli, di solito innescati dall'erosione dei torrenti; e gli scivolamenti planari, spesso di grandi dimensioni, profondi da 3-4 metri fino a 20-25. Le frane più numerose sono state proprio di questo tipo, localizzate in corrispondenza di «discontinuità» preesistenti; sono stati gli imponenti fenomeni di questo tipo a causare crepe nelle case, spostamento di binari e di pali delle linee elettriche, interruzione di strade, modifiche radicali dei pendii; e neppure il bosco è riuscito a fermarli, anch'esso trascinato in basso. In molti casi le frane sono partite dalla sommità della collina e sono giunte fino al fondovalle, ostruendo i corsi d'acqua. Lo studio ha per ora lo scopo di fare un censimento dei fenomeni rilevati in un'area campione e quindi di elaborarne statisticamente i dati; successivamente, affermano gli autori, «l'estensione dei risultati di questo studio di dettaglio viene eseguita su tutte quelle aree che presentano, su base statistica, caratteri di similitudine». Si sta ricostruendo la geologia della zona, con l'individuazione delle linee di debolezza, si vuol capire come l'acqua defluisca nel terreno, rifare la storia delle varie località, perché dove la frana è avvenuta una volta, avverrà ancora. Tanto più che, oltre ai grandi fenomeni evidenti, l'alluvione del '94 ha provocato una miriade di fratture lunge centinaia di metri, larghe uno e profonde due o tre, ora in via di mascheramento sotto le coltivazioni, ma che sono la premessa di nuove frane future. [v. rav.]


GLI ULTIMI «PARADISI» Ecologia lusso da ricchi
Autore: MORETTI MARCO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, AMBIENTE
LUOGHI: ITALIA

PER molti anni gli interessi degli ambientalisti sono coincisi con quelli dei popoli tribali. Dall'Amazzonia al Sarawak fino all'Australia gli ecologisti si sono battuti in prima linea per la difesa dei diritti degli indios, degli aborigeni e delle ultime popolazioni di cacciatori-raccoglitori del Sud-Est Asiatico. Ma se per un verde è naturale difendere i diritti di un nero, per un nero non è così facile essere verde. Al di là dei giochi di parole parlano fatti recenti. I governi (occidentali) australiani e neozelandesi hanno assunto posizioni durissime contro la ripresa degli esperimenti nucleari voluti da Chirac nell'atollo di Mururoa, nell'arcipelago delle Tuamotu, e a Fangataufa. Ma tra le popolazioni maori che abitano la Polinesia Francese le proteste sono state molto più contenute. Ci sono state per la prima volta manifestazioni a Papeete e contestazioni da parte del sindaco di Tahiti. Ma la grande massa dei polinesiani sembra ignorare il problema (lo ha comunque rimosso per trent'anni), nonostante a seguito dei 174 esperimenti nucleari (fra cui alcuni con bombe al neutrone) fatti dai francesi nella regione tra il 1966 e il 1985 siano aumentati i casi di cancro e le nascite di bambini deformi nelle isole attorno a Mururoa. Perché gran parte degli abitanti di questo paradiso perduto sembra ignorare il problema? Forse perché, insieme agli esperimenti, da Parigi sono arrivati anche massicci finanziamenti che hanno permesso di sviluppare una rete di servizi di tipo occidentale (scuole, strade, collegamenti aerei e navali, reti idriche): un'operazione costosissima considerando che nella Polinesia francese 200 mila persone vivono disseminate tra centinaia di isole sparse in un'area grande quasi come l'Europa. Non a caso, il movimento indipendentista, oggi in prima linea contro Chirac, è stato in passato sconfitto in un referendum popolare. Avvolti nel loro Tempo del Sogno, sembrano impermeabili alle radiazioni nucleari anche gli aborigeni australiani. Dopo le lotte degli ultimi vent'anni per riappropriarsi delle loro terre ancestrali, le tribù del Top End del Northerp Territory non hanno esitato a concedere licenze minerarie per l'estrazione di uranio nei loro territori, in cambio di lauti profitti. D'altronde gli aborigeni considerano montagne, rocce, fiumi, dune, alberi e stelle come componenti di una geografia totemica: ogni elemento del paesaggio è visto come una scena degli eventi drammatici della creazione. Quel che succede nel sottosuolo a centinaia di metri di profondità non riguarda però la loro concezione della vita. Per loro, il pericolo della cancellazione della vita dalla faccia della Terra non è rappresentato da una guerra nucleare, ma è la conseguenza dell'interruzione dei riti ancestrali del Tempo del Sogno, quelli con cui perpetuano l'atto creativo degli Antenati. Al di là del nucleare, in molte sfaccettature dell'emergenza ambientale le posizioni degli ecologisti e quelle dei popoli tribali divergono sempre più. I melanesiani delle isole Fiji non vogliono saperne della moratoria dell'International Whaling Commission (Iwc) sulla caccia alla balena: continuano tranquillamente a cacciare le megattere (Megaptera novean gliae) che attraversano le acque del loro arcipelago durante la migrazione dall'Antartide alla Grande Barriera Corallina per la stagione degli amori. Altri popoli del Pacifico seguitano a impiegare reti a strascico sulla spiaggia e altre tecniche di pesca devastatrici. Anche i maori della Nuova Zelanda rifiutano di rispettare i limiti di pesca, danneggiando così la fauna ittica. Il loro diritto di pesca è tutelato dal Trattato di Waitangi, l'accordo del 6 febbraio 1840 con cui i capi tribù concessero la sovranità della Nuova Zelanda alla corona d'Inghilterra in cambio di una serie di garanzie. In seguito alla ridiscussione del trattato, nel 1993 il governo di Wellington ha trasferito alla comunità maori il 50 per cento delle azioni della Sealord Product, la più grande compagnia ittica del Paese. I maori reclamano diritti sui molti beni dello Stato: dalle ferrovie alle aree protette dal Department of Con servation, l'ente pubblico che si occupa della tutela di isole, coste, fiumi, laghi e parchi nazionali. Rivendicazioni che preoccupano gli ecologisti per la scarsa coscienza ambientale dei maori che, oltre a non rispettare i limiti di pesca, continuano a tagliare i pini kauri (Agathis australis) protetti, anche se in numero ridotto, per fabbricare le canoe per le loro cerimonie. La preoccupazione deriva anche dal fatto che in ballo ci sono luoghi vergini e riserve faunistiche come Stephens Island dove vive il tuatara (Sphenodan punctatus), il discendente più diretto dei dinosauri. Situazioni più facili da capire, anche se non da condividere, se si pensa che la coscienza ecologica nasce negli Stati Uniti e in Europa negli Anni 70 come risposta al degrado ambientale provocato dallo sviluppo industriale incontrollato e dalla società dei consumi: nasce come risposta occidentale a un problema creato dal modello di sviluppo occidentale. E si coniuga con le attenzioni per la natura e il mito della vita all'aria aperta diffuso tra le popolazioni anglosassoni e centro-nordeuropee. I popoli tribali si sono invece sempre fusi e, al tempo stesso, scontrati con la natura in una lotta per la sopravvivenza. La foresta, il mare e il deserto per loro erano l'habitat, ma anche il campo di battaglia quotidiano, dove lottare per la conquista del cibo. La loro tecnologia primitiva si rivelava però raramente un pericolo per l'ambiente. Oggi che sono invasi e sedotti dalle macchine e dal fascino finanziario dell'Occidente, conservano spesso un approccio aggressivo verso l'ambiente, anche perché la lotta con il mare, la caccia e la sopravvivenza nella foresta sono elementi caratterizzanti della loro cultura, ciò che gli permette di distinguersi in un mondo sempre più omogeneizzato. Marco Moretti


AMBIENTE Leggere il clima nei pollini Confronto tra habitat antichi e attuali
Autore: CARAMIELLO ROSANNA

ARGOMENTI: ECOLOGIA, BOTANICA, AMBIENTE, METEOROLOGIA
LUOGHI: ITALIA

IL Mondo sta cambiando. Troppo caldo, troppo freddo, desertificazione, buco nell'ozono... Le voci meno allarmate sono rare. Grandi cambiamenti si sono verificati dalle ere più lontane, ben prima che l'uomo comparisse sulla Terra e intervenisse con le sue «invenzioni» sull'economia dell'ambiente e molto si è detto sulle cause e sui tempi di tali avvenimenti. Fra i numerosi approcci che possono essere utilizzati per studiare nel dettaglio situazioni antiche vi è anche quello palinologico. L'oggetto di studio della palinologia sono i «palinomorfi», termine con il quale si intendono soprattutto spore e polline e la cui etimologia (dal greco palunein = spargere, diffondere) sottolinea la loro grande capacità di dispersione. Le caratteristiche morfologiche e strumentali fanno del polline in particolare, ma anche delle spore, un oggetto di grande interesse negli studi di ricostruzione ambientale: presentano morfologia differente nei vari gruppi (anche se non mancano fenomeni di convergenza), sono piccoli (da 5 a 200 micron), leggeri (pochi ng), trasportabili da vari agenti (vento, acqua, animali...), e, soprattutto, sono dotati di una parete costituita da sporopollenine, sostanze fra le più resistenti agli agenti chimici, fisici e microbici, che consentono una loro facile «fossilizzazione» e la conseguente conservazione per lunghi periodi, anche quando il citoplasma si è disgregato. Ma i palinomorfi devono essere estratti dai suoli nei quali è avvenuta la loro lenta sedimentazione e questo comporta innanzi tutto che il prelievo dei terreni avvenga senza alterare la stratigrafia nè operare rimescolamenti. L'ideale per la ricostruzione è avere a disposizione delle «carote» di terreni indisturbati nelle quali individuare diversi livelli che possono corrispondere a cambiamenti floristici e vegetazionali. Ovviamente queste condizioni ideali sono ben rare e le sequenze che si possono studiare spesso sono relativamente brevi. Dopo aver identificato la flora pollinica presente in un livello della sequenza, in genere i valori vengono espressi in percentuale e l'insieme dei dati costituisce lo spettro pollinico relativo; analizzando una sequenza di strati ed assemblando gli spettri si costruisce il diagramma pollinico dal quale si possono percepire le modificazioni della flora. Lo studio palinologico è particolarmente valido quando i dati sono integrati da altre informazioni: il geologo e lo stratigrafo devono intervenire per l'analisi delle tipologie del sedimento esaminato, che deve anche essere sottoposto a datazione; il paleoclimatologo può suggerire spiegazioni per eventi di difficile interpretazione e così via. Si prospetta quindi un lavoro interdisciplinare. Una domanda che sorge spontanea è se nella sedimentazione pollinica e nella conservazione dei palinomorfi non avvengono perdite di materiale e di conseguenza con quanta precisione tale materiale rispecchi la vegetazione che ha prodotto i palinomorfi. E' cognizione comune che un pino produce quantità enormi di polline, non paragonabili a quanto prodotto sia da altre specie arboree sia da erbacee; in quale rapporto dunque possiamo porre i valori percentuali delle diverse entità per tentare di ricostruire la fisionomia di un paesaggio? Per affrontare questo problema si può lavorare sul presente, e ciò consente di verificare in quali rapporti sia la vegetazione attuale con la sedimentazione attuale, trasferendo poi sul passato l'andamento generale dei fenomeni osservati. Il fitogeografo e il fitosociologo sono un'altra componente fondamentale dello studio interdisciplinare. Infine per il tempo successivo alla comparsa dell'uomo è di particolare interesse la ricostruzione del paesaggio antropizzato, dato lo stretto rapporto fra ambiente ed evoluzione delle comunità umane. In quest'ottica le indagini botaniche si stanno inserendo sempre più stabilmente nel protocollo di studio degli scavi archeologici, poiché le variazioni delle caratteristiche ambientali naturali o indotte dalle attività umane non sono sempre percettibili dai documenti archeologici e persino da quelli storici, particolarmente per le epoche più lontane. Lo scavo archeologico è prezioso per il palinologo, che dispone in questo modo di strati di terreno rimasi «sigillati» e quindi contenitori ideali di informazioni ben delimitate nel tempo. Testimonianze delle colture (cereali, lino, canapa, vite, castagno, noce, ecc) sono chiaramente percepibili negli studi palinologici. Le domande sui mutamenti attuali della copertura vegetale e più in generale sulle trasformazioni del mondo vivente possono trovare qualche risposta nella ricostruzione del paesaggio naturale delle epoche più antiche e nello studio dell'impatto antropico sin dalle sue origini: questo studio risulta comunque frammentario nel tempi e nello spazio, essendo impensabile uno screening a tappeto su aree vaste della superficie terrestre. Riunendo le informazioni geologiche, stratigrafiche, climatologiche, botaniche, zoologiche e antropologiche, si può oggi costruire un quadro dell'andamento delle modificazioni avvenute e anche, almeno in parte dei «tempi» necessari al loro instaurarsi. Tenendo conto delle tecnologie attuali, che potrebbero provocare mutamenti climatici molto rapidi (si parla di incremento di 2-4 C° della temperatura media annua nei prossimi decenni), si può prevedere la difficoltà di adattamento degli organismi viventi alle nuove condizioni. Il Convegno sul passato e presente della Vegetazione della Padania che si tiene a Torino in questi giorni è un tentativo di sintesi delle attuali conoscenze su questo territorio, ormai molto studiato da diversi punti di vista, e si propone come spunto di discussione su questi tempi attuali di interesse collettivo. Rosanna Caramiello Università di Torino


VIVERE A -50° Riconosciuto agli eschimesi di Groenlandia il diritto a cacciare le foche secondo la tradizione
Autore: M_M

ARGOMENTI: ANTROPOLOGIA E ETNOLOGIA, ECOLOGIA, ANIMALI, CACCIA, AMBIENTE
ORGANIZZAZIONI: GREENPEACE
LUOGHI: ESTERO, GROENLANDIA

GLI inuit, gli eschimesi della Groenlandia, d'inverno indossano mutande di pelliccia di foca per sopravvivere a 50° sottozero, tra le bufere di neve che investono l'Indlandis, il grande ghiacciaio interno: lungo 2500 chilometri e largo più di 1000, copre i cinque sesti del territorio e, in alcuni tratti, raggiunge uno spessore di 3000 metri. E' la loro ultima frontiera: da secoli la percorrono con slitte tirate dai cani, per andare a cacciare gli orsi bianchi, le foche, le renne e i buoi muschiati che vivono oltre il Circolo polare artico. La caccia alla foca e alla balena ha creato in passato profondi contrasti tra gli inuit e Greenpeace che, nelle sue campagne, accomunava la loro attività con la caccia su scala industriale. Nonostante abbiano lasciato l'arpione per moderni fucili, gli inuit catturano ancora la foca con la tecnica dell'orso polare, appostandosi a lato di un foro praticato sul mare ghiacciato. La caccia è uno dei pochi elementi di continuità con lo stile di vita tradizionale dei loro avi, oltre a essere la fonte di sostentamento per il quarto di popolazione che vive nel Nord della Groenlandia (circa 10 mila individui), dove ci sono 2 milioni di foche. Per principio, gli inuit non hanno mai ucciso i cuccioli e negli anni di buona caccia non hanno abbattuto più del 3 per cento dei capi. Dopo anni di incomprensioni, Greenpeace ha riconosciuto che in Groenlandia la foca non è una specie in pericolo d'estinzione. Impedire di cacciare agli inuit significherebbe distruggere l'orgoglio e la capacità di autonomia alimentare di uno dei popoli che vive il rapporto con la natura nelle condizioni più estreme: in Groenlandia non crescono vegetali, salvo pochissime varietà commestibili in estate nella regione più meridionale, e l'intera cucina eschimese è basata sulle carni di foca e di balena, oltre che sul pesce crudo. [m. m.]


ARACHNOCAMPA LUMINOSA Trappole di luce Fari verde-blu sulla punta dell'addome
Autore: BOZZI MARIA LUISA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T.TAB.D. Tecnica di caccia della arachnocampa luminosa ========================================================== A) Preda attratta dalla luce del verme luminoso, che ha predisposto i suoi fili trappola --- B) La preda resta intrappolata nel filo appiccicoso; il predatore se ne accorge perché la vittima si dimena per liberarsi, facendo vibrare il filo --- C-D-E) Il verme si sporge a testa in giù e con metà del corpo fuori dal suo rifugio, con ripetute contrazioni, tira su il filo finché la preda arriva all' altezza della bocca ==========================================================

DI notte le lucciole verdi brillano sulla roccia riunite in gruppi, e sembrano i villaggi di un grande presepio. Ogni luce è invece una trappola tesa da una creatura vivente per catturare una preda, come fanno i pescatori con le lampare: una larva di mosca - lunga circa 3 centimetri, sottile come uno stuzzicadenti e tanto trasparente che le vedi all'interno il tubo dell'intestino - è in attesa che un insetto attirato dalla punta luminosa del suo addome finisca nella rete di fili appiccicosi appesi per catturarlo. Ordine ditteri, famiglia Mycetophilidae, Arachnocampa lumino sa è un insetto molto antico, sopravvissuto in Nuova Zelanda alla distruzione delle specie native perpetrata dall'uomo; quindi più fortunato dei Moa, i giganteschi uccelli privi di ali sterminati dai primi coloni polinesiani, e anche dei Tatuara, i rettili contemporanei dei dinosauri, ridotti a uno sparuto numero su qualche sperduta isola in seguito all'arrivo di predatori (gatti selvatici, topi) portati dai coloni europei. Arachnocampa luminosa invece gode di ottima salute grazie al fatto di non essere appetibile e di vivere in ambienti molto umidi e senza vento - pareti di roccia prospicienti un corso d'acqua o all'interno di una grotta - per proteggere la rete di fili appiccicosi e il corpo privo di uno spesso rivestimento. Solo la testa è protetta da un «casco» corazzato, rinnovato ogni anno (3 o 4 volte) con un altro di misura più grande, seguendo la crescita del corpo. Come tutti i ditteri, Arachno campa luminosa ha una vita complicata: da giovane è una larva dall'aspetto vermiforme e abitudini carnivore, da adulto è un modesto insetto di circa un centimetro e mezzo, un paio di ali trasparenti, zampe lunghe e testa priva di bocca, ragione per cui, senza cibo, deve assolvere in pochi giorni (da 2 a 5) il compito di mettere al mondo i figli per garantirsi una discendenza. La larva perciò mangia per due, per sè e per l'insetto adulto. Così, appena nata e vermicello di soli 5 millimetri, si mette subito al lavoro e muovendo la testa come una spoletta si costruisce tutt'attorno, con la seta prodotta da alcune ghiandole boccali, un tubo di una decina di centimetri ancorato alla roccia. Dieci minuti e presto fatto; quindi, sporgendosi con la testa e metà del corpo giù dalla dimora, sempre secernendo seta e muco dalla bocca, la larva passa alla costruzione del marchingegno di cattura delle prede: una cortina appesa al nido di una cinquantina di fili sottili, lunghi circa 15 centimetri e cosparsi di gocce appiccicose. Terminato il lavoro, non rimane che starsene rintanati in casa e attendere i frutti: «sdraiata» a pancia in su in modo da toccare con le setole dell'addome i fili «da pesca», la larva accende il «lanternino» blu verde posto all'estremità dell'addome, in termini scientifici la larva produce luce mediante una reazione di ossidazione con la parte terminale di 4 tubi (Malpighiani) che hanno funzione escretrice analoga ai nostri reni, ragione per cui essa utilizza per questa operazione prodotti di rifiuto. L'organo di produzione della luce è anche dotato di un riflettore (il tessuto respiratorio che fornisce ossigeno) ed è sotto il controllo di un centro nervoso: se l'animale è disturbato, può anche spegnere la luce, o aumentarla a suo piacere. Anche se è tutto pronto per una pesca fruttuosa, sembra che nella prima giovinezza Arachnocampa luminosa sia di dimensioni troppo piccole per approfittarne e che sopravviva invece dedicandosi al cannibalismo, cioè mangiandosi qualche vicino. In genere per le larve di Arachnocampa luminosa è conveniente vivere in gruppo, così da moltiplicare l'effetto luminoso, ma può essere ancora più vantaggioso diminuire la concorrenza, se il cibo scarseggia. Comunque la trappola luminosa funziona, perché gli insetti non sanno resistere al richiamo di una luce in un ambiente buio, scambiandola per una via di uscita verso il cielo stellato. E così, volando verso l'addome luminoso di Arachnocampa luminosa, una preda rimane intrappolata nella cortina dei suoi fili appiccicosi e, dimenandosi per liberarsi, avvisa il proprietario della sua presenza. Entro pochi secondi o minuti dall'impatto, a seconda del caso, Arachnocampa luminosa trova il filo giusto dove è la sua cena: a testa in giù e con metà del corpo fuori dal nido tubolare, contraendo ripetutamente il corpo tira su il filo, finché la preda è all'altezza della bocca. Tra «pescare» una preda e mantenere efficiente la rete passano 9 mesi (o il doppio, nei casi più disperati) finché, raggiunto un peso adeguato, la larva rimuove alcuni fili, ne prepara uno più lungo e, ormai opaca, vi si appende per passare la fase di pupa, durante la quale si trasforma in insetto adulto. Anche la pupa, immobile dentro la sua capsula, emette luce e mentre nel maschio tale capacità sembra priva di funzione, nella femmina ha uno scopo ben preciso. Non più per attrarre una preda, bensì un «marito», a conferma dell'ipotesi che le luci di adescamento di alcuni insetti, come le lucciole, sono evolute da primitivi organi lunimosi con funzione predatoria. La luce diventa più intensa se la pupa viene toccata o se un maschio le passa vicino e di conseguenza non è raro vedere più maschi intorno a una pupa femmina in attesa che da essa emerga l'insetto adulto. A questo punto avviene la copulazione e poi via in volo, a meno che per un colpo di sfortuna l'insetto, dirigendosi verso la luce, non finisca nella cortina di fili appiccicosi del vicino. Maria Luisa Bozzi


EPILESSIA Deficit intellettuale? Leggete Flaubert...
Autore: MONACO FRANCESCO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

FIODOR Dostoevskij era affetto da epilessia, il che lo portò ad avere contatti con molti medici verso i quali non nutrì mai molto rispetto. Nella lettera a un ammiratore scriveva: «Come possono essere utili all'umanità! Essi studiano quel tanto che basta ad avere visite a pagamento il più presto possibile». A più di un secolo dalla sua morte, il mondo medico scientifico ha in gran parte recuperato la propria immagine, grazie agli enormi progressi compiuti dalle neuroscienze in questi ultimi decenni, in campo sia diagnostico (vedi l'elettroencefalografia, la Tac e la Risonanza Magnetica), sia terapeutico. Una conferma di tutto ciò si è avuta nel recente Congresso Internazionale sull'Epilessia di Sydney, Australia, dove a oltre duemila partecipanti sono stati illustrati i più recenti risultati della ricerca nel settore. A questo proposito, la figura del grande scrittore lituano è parsa riassumere ancor più, in maniera emblematica, tutte le contraddizioni che l'epilessia, come malattia sociale, si è trascinata dietro di sè da millenni. Infatti, l'inaccettabile pregiudizio che i pazienti che ne sono affetti siano destinati al declino intellettuale è stato smentito sia storicamente dalla presenza di tale disturbo in personalità geniali come Dostoevskij, Flaubert e Van Gogh, sia dall'evidenza scientifica più attuale, che ha circoscritto le alterazioni più frequenti delle funzioni psichiche all'attenzione e alla memoria. Naturalmente, ogni caso fa storia a sè e indubbiamente il rischio «cognitivo» sopra menzionato (cioè, di essere distratti e ricordare poco) va tenuto in grande conto soprattutto in età infantile, quando più alta è la necessità di apprendimento continuo e corretto. Ancor più rilevanti, tuttavia, sono stati i dati riferiti sulle ricerche in campo farmacologico che, fortunatamente, hanno avuto un notevole sviluppo, permettendo l'identificazione e l'uso clinico di numerose nuove sostanze antiepilettiche. Disponiamo infatti oggi di almeno cinque farmaci della «vecchia» generazione (fenobarbital, difenilidantoina, primidone, carbamazepina, acido valproico); due «nuovi» farmaci di ormai consolidata efficacia (vigabatrin e lamotrigina); e di una decina di altri preparati «nuovissimi» in fase di avanzata sperimentazione animale e anche umana. Ciò che differenzia sostanzialmente le due ultime famiglie di farmaci rispetto alla prima, giustamente definibile «storica» (il fenobarbital è in uso antiepilettico dal 1912), è proprio il razionale approccio scientifico allo studio e all'impiego terapeutico delle molecole indagate. In altri termini, ognuno di questi nuovi farmaci è stato pensato, sviluppato e sperimentato in quanto rispondente ad alcuni presupposti di base della malattia «epilessia». Questi sono riassumibili, in maniera estremamente schematica, nel concetto chiave che la causa del disturbo sia da ricercarsi nello squilibrio tra sistemi inibitori e sistemi eccitatori a livello del sistema nervoso centrale. Esistono infatti in natura, e sono particolarmente presenti nelle cellule nervose, aminoacidi che esercitano o un'azione «inibitoria» (= di controllo) o un'azione «eccitatoria» (= di facilitazione) sulla generazione e propagazione dell'impulso elettrico da cellula a cellula. Tra i primi annoveriamo il Gaba (acido gamma- amino-butirrico), la taurina e la glicina; tra i secondi l'acido glutamico e l'acido aspartico. E' verosimile che lo squilibrio tra meccanismi neuroinibitori e neuroeccitatori sia comune a diverse patologie, oltre all'epilessia (ischemia cerebrale, traumi cranici, corea di Huntington). I nuovi farmaci antiepilettici agiscono quindi direttamente o aumentando l'inibizione (= contenendo i meccanismi di «accensione» della fiammata epilettica), o diminuendo l'eccitazione (= rallentando i fenomeni di fiammate troppo violente). Questo si ottiene con processi di «manipolazione» chimica degli aminoacidi citati, ovvero sintetizzando prodotti che sono simili ad alcuni di loro (agonisti), o che agiscono in maniera del tutto opposta (antagonisti). I risultati clinici dell'uso di queste nuove terapie sono molto incoraggianti, e la speranza è che il nuovo secolo veda ulteriormente assottigliarsi quella fetta del 30% circa di pazienti che ancora non rispondono a nessun tipo di cura medica. Francesco Monaco Università di Sassari


UN NUOVO COLEOTTERO GOLIATHINA Brutto tra cugini bellissimi Privo di bocca, vive appena 24 ore
Autore: NOVARESIO PAOLO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
NOMI: STOBBIA PIERO
LUOGHI: ITALIA

ICHNESTOMA stobbiai è un coleottero di apparenza modesta, sconosciuto alla scienza fino a pochi anni fa, quando l'entomologo dilettante Piero Stobbia lo ha scoperto sulle pendici dei Magaliesberg, nel Transvaal meridionale, in Sud Africa. Visto a occhio nudo sembra un insetto qualunque, lungo poco più di un centimetro e mezzo e di colore bruno: rispetto agli altri Goliathina, suoi parenti stretti e quasi tutti bellissimi, fa un po' la figura del brutto anatroccolo. Sotto le lenti di un microscopio, però, Ichnestoma rivela la fatale caratteristica che definisce il suo genere: la mancanza di apparato boccale. Non essendo in grado di nutrirsi, il suo ciclo vitale è brevissimo: l'insetto adulto sopravvive non più di 24 ore. Poi muore, semplicemente di fame. Piero Stobbia vive in Sud Africa da circa vent'anni. Abita a Pretoria, dove lavora come dirigente industriale, ma la sua vera passione sono gli insetti, che studia e colleziona dal 1967. Anni di tenaci ricerche e centinaia di chilometri a piedi nella boscaglia africana gli hanno procurato un granello di immortalità: alcuni esemplari della nuova specie da lui identificata sono esposti nella collezione entomologica del Museo di Storia Naturale di Pretoria. Forse il visitatore occasionale rimarrà deluso dall'aspetto insignificante di Ichnestoma, ma le vicende che hanno portato alla sua scoperta assomigliano più alla trama di un romanzo poliziesco che a una indagine scientifica. Di Ichnestoma si erano perse le tracce da oltre un secolo e le poche specie conosciute si credevano ormai estinte. Una ricerca scientifica deve basarsi su dati di fatto o almeno su un'ipotesi iniziale: con gli altri coleotteri, a sentir Stobbia, è un gioco da ragazzi; alcuni si cibano di frutta o nettari, altri della resina che trasuda dalla corteccia di certi alberi. Conoscendo le loro abitudini alimentari è facile determinare l'ambiente in cui vivono e studiarne il comportamento. Con Ichnestoma non si ha questo vantaggio: il suo ciclo biologico era completamente ignoto. Non c'erano piste da seguire. Gli unici indizi affondano nel più remoto passato: qualche frammento fossile, venuto alla luce nelle stratificazioni del Cretaceo (da 150 a 65 milioni di anni fa). Perché allora non andare a cercare proprio là, sui fianchi delle montagne dove i depositi cretacei sono esposti? Stobbia racconta senza enfasi due anni di dure ricerche sulle impervie colline del Transvaal, a piedi nella boscaglia, sotto il sole e la pioggia, animato da determinazione non comune. Poi, inaspettatamente, la scoperta, proprio a due passi da Johannesburg, presso un laghetto artificiale, meta domenicale per pescatori e velisti. Non certo un posto da scienziati, almeno a prima vista. «La terra era ancora umida della prima pioggia estiva - ricorda Stobbia -. Di colpo mi sono trovato circondato dal ronzio di centinaia di insetti: Ichnestoma, tutti maschi. Sondavano l'aria con le lunghe antenne, come per captare un segnale, i feromoni emessi dalle femmine. Li ho seguiti e tutto mi è apparso chiaro: la femmina non vola, attende interrata che il maschio la raggiunga e l'aiuti a venir fuori. Poi entrambi ritornano sotto terra per accoppiarsi». Da quel momento tutto è diventato semplice: conoscendo il ciclo vitale di una Ichnestoma, legato all'inizio della stagione delle piogge, è stato agevole rintracciare le altre specie. Nell'arco di pochi mesi ne sono state osservate altre quatto (una addirittura nei giardini pubblici di Pretoria) e Stobbia si dice sicuro che ne restino almeno altrettante da scovare. Con quattro milioni di specie descritte, gli insetti sono la razza numericamente dominante sulla Terra e la base della piramide alimentare per tutti gli organismi viventi. In un ambiente che ogni giorno viene alterato e distrutto, c'è da chiedersi quante specie scompariranno prima di essere mai scoperte: a volte gli areali di diffusione di una specie sono così ristretti che basta disboscare una collina, bonificare una zona umida o modificare in qualche modo l'ecosistema originario, perché qualcosa di unico e insostituibile vada per sempre perduto. In questa corsa contro il tempo il lavoro dei dilettanti è sovente prezioso quanto quello dei ricercatori professionisti. Forse, in Africa, l'epoca d'oro dei naturalisti non è del tutto finita. Paolo Novaresio


ESPERIMENTO-PILOTA A VICENZA Un computer sui banchi dei ciechi Video-scrittura per le scuole elementari e medie
Autore: BONZO MARIALUISA

ARGOMENTI: DIDATTICA, INFORMATICA, HANDICAP
NOMI: FOGAROLI FLAVIO
LUOGHI: ITALIA, VICENZA (VI)

IL computer sul banco, accanto alla tastiera la barra braille, cioè la periferica informatica che permette ai non vedenti di avere in braille la riga del video su cui si trova il cursore, e il bambino cieco può leggere, scrivere, fare i compiti di matematica in totale autonomia, fino dalle prime classi delle elementari. Fantascienza? No, in alcune scuole questo già avviene. Spiega Flavio Fogaroli, insegnante di Educazione Tecnica in una scuola media di Vicenza: «I programmi di video-scrittura in commercio non sono adatti per le esigenze della scuola. Sono troppo complicati, sia per i bambini, sia per gli insegnanti». Il programma di software Erica, ideato dallo stesso Fogaroli, cerca di andare incontro alle specifiche esigenze di un bambino cieco inserito in una qualunque classe di una scuola elementare. Fogaroli racconta: «Quattro anni fa mi sono trovato di fronte al problema di Erica, una bimba cieca che stava imparando a usare il computer. Allora gli strumenti informatici erano ancora un lusso. Gli aiuti da parte delle istituzioni scarsi. Il costo delle apparecchiature gravavano così quasi interamente sulle famiglie». Da allora le cose sono cambiate. Gli utenti sono aumentati. Il programma Erica è cresciuto. Ora comprende una parte per la matematica per adattarsi alle esigenze delle medie. Erica supplisce a molti problemi che ha un bambino non-vedente ancora piccolo di fronte a un computer. Spiega Fogaroli: «Un normale testo informatico letto con la barra braille perde ogni sua concretezza. Diventa astratto, privo di riferimenti. Con le dita infatti si scorre solo una riga per volta, perdendo il senso del contesto». Il modo di lettura dei ciechi è comunque sequenziale, ma un libro in braille è concreto, si prende in mano, si tocca, si sfoglia, si può conoscere il numero della pagina. Erica simula la struttura di un libro. Il bimbo apre un quaderno, sfoglia le pagine come tutti i suoi compagni. Si può prendere il quaderno di aritmetica, quello di italiano, di inglese. Si può andare a una pagina nuova oppure rileggere ciò che si è scritto nell'ultimo compito. Il software Erica viene già usato in una decina di scuole elementari e medie nella provincia di Vicenza con ottimi risultati. Di qui l'idea di distribuirlo e farlo usare anche da altri ragazzi che risiedono in differenti zone d'Italia. Il programma non è in commercio, viene distribuito gratuitamente dal Provveditorato agli Studi di Vicenza a chiunque lo richieda. Marialuisa Bonzo




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