TUTTOSCIENZE 27 agosto 97


SCIENZE DELLA VITA. GLI ONCOSOPPRESSORI Scoperto un gene che regola la riproduzione cellulare Una ricerca americana promette importanti sviluppi nella comprensione dei tumori
Autore: MARCHISIO PIER CARLO

ARGOMENTI: GENETICA, MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

QUANDO si afferma pubblicamente che si è vicini alla soluzione del problema cancro e si chiedono aiuti per la ricerca si è accusati di essere dei visionari o peggio dei narcisisti che pensano alla loro sterile carriera. Eppure, nell'intera comunità scientifica internazionale si respira un'aria di tensione ottimistica su questo e altri problemi che da noi corrisponde a miopi tagli e al blocco di qualsiasi investimento a lungo termine. Queste considerazioni amare derivano dal fatto che negli Stati Uniti è stata fatta una grande scoperta e là ad essa è stato dato un grande rilievo come da noi si riserva solo a eventi scientificamente irrilevanti. La scoperta consiste nell'identificazione di un nuovo gene soppressore dei tumori chiamato Pten. Pten è un acronimo che sta per phosphatase and tensin ho molog deleted in chromosome 10. Si tratta di un gene ibrido che contiene simultaneamente informazioni per un'attività fosfatasica che interessa proteine fosforilate in tirosina insieme a sequenze simili a quelle di una proteina, la tensina, che organizza parte dei sistemi adesivi cellulari e le loro connessioni con la forma e la motilità cellulare. Inoltre Pten scompare dal cromosoma 10 che è notoriamente sede di molte mutazioni in molti tipi di tumori maligni. Vediamo di spiegare perché Pten è una scoperta importante. Innanzitutto il fatto che, nelle cellule normali, l'attività fosfatasica rimuova il fosfato dalle tirosine fosforilate da molti oncogeni e fattori di cre scita, che si sa essere iperattivi nei tumori, indica che questa attività di Pten si oppone, nelle cellule normali, agli stimoli che portano le cellule a dividersi in maniera abnorme. E' come se fosse una sorta di controllore che dice alle cellule di reprimere la loro tendenza a dividersi sotto l'impulso di stimoli diversi. Il fatto che Pten manchi in molti tumori dice semplicemente che la sua funzione di controllore non c'è più e gli stimoli proliferativi possono liberamente scatenarsi. Le tirosina fosfatasi non sono di per sè una novità e più volte sono state trattate su «Tuttoscienze» come la controparte «buona» degli oncogeni o geni del cancro. La novità è un'altra e, a mio parere, molto rilevante. L'omologia di Pten con la tensina rende questa molecola un membro ufficiale dei sistemi adesivi cellulari. La tensina è conosciuta da una ventina d'anni come proteina implicata nel tenere insieme le molecole che attraversano la membrana e sentono l'ambiente producendo segnali di organizzazione della forma cellulare e controllando i movimenti delle cellule stesse. In altre parole la tensina collabora a organizzare il cosiddetto scheletro cellulare e ne controlla i muscoli. Se viene meno quella parte di tensina contenuta in Pten viene meno anche il rapporto corretto tra cellula e ambiente sufficiente probabilmente a scatenare il comportamento anarchico implicato nella generazione delle metastasi. Nella folla di segnali molecolari che controllano la proliferazione in funzione della posizione che le cellule hanno nei tessuti Pten ha probabilmente un'attività importante che diventerà chiara nei prossimi mesi. Già da ora tuttavia Pten va ad arricchire quella famiglia in crescita costituita dai geni oncosoppressori le cui mutazioni sono sempre più importanti nel controllo della genesi del cancro. Per due ragioni. La prima è che è relativamente facile trovarne le mutazioni a scopo diagnostico e preventivo. La seconda è che sarà proprio attraverso la reintroduzione di geni oncosoppressori assenti o mutati che la terapia genica del cancro potrà diventare una realtà terapeutica nei primi anni o decenni del prossimo secolo. Infine, mi piace constatare che finalmente la genesi del cancro ridiventa un fenomeno di alterazione globale del comportamento cellulare e non la si considera più dovuta solo al capriccio di un singolo oncogene. Se questa ultima causa fosse l'unica, il cancro avrebbe da tempo finito di essere un problema. Lasciatemi spendere un ultimo appello di aiuto alla ricerca di base: il cancro non verrà sconfitto solo dalla ricerca sul cancro ma dalla buona ricerca da chiunque sia fatta. Pier Carlo Marchisio Università di Torino e Dibit, Milano


SCIENZE DELLA VITA. DISTURBI DEL SONNO Vittime della sleep apnea 500 risvegli per notte
Autore: QUAGLIA GIANFRANCO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
NOMI: BRAGHIROLI ALBERTO, SACCO CARLO
ORGANIZZAZIONI: FONDAZIONE MAUGERI
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, VERUNO (NO)
TABELLE: T. Le cause dell'insonnia secondo i pazienti. I danni provocati dall'insonnia

SVEGLIARSI cinquecento volte per notte: uno sgradevole primato. Anzi, una patologia, un tormento che colpisce il quattro per cento della popolazione fra i quaranta e i sessantacinque anni (soprattutto uomini) e va oltre il dieci per cento tra coloro che russano, bevono alcolici, fumano, hanno la pressione alta e sono obesi. La malattia si chiama «sleep apnea» ma nonostante il suo nome non ha nulla da spartire con il mondo subacqueo. I sintomi: addormentarsi troppo rapidamente, russamento, continui risvegli notturni, che finiscono con l'influire pesantemente sulla qualità della vita del paziente, anche quella lavorativa; sonnolenza e mal di testa al mattino. Sulle colline del Novarese, nella clinica del lavoro e della riabilitazione di Veruno (Fondazione Maugeri) è sorto un laboratorio per la polisonnografia, cioè per la rilevazione delle patologie respiratorie che si manifestano durante il sonno. Il laboratorio è attrezzato per individuare le patologie legate alla «sleep apnea» e indicarne le cure. I pazienti che arrivano qui - spiegano i responsabili del laboratorio Alberto Braghiroli e Carlo Sacco - spesso soffrono di cefalea, russano, trascorrono notti agitate e sono facili al risveglio improvviso con un senso di soffocamento. Insomma, la conseguenza è che sono quasi sempre di umore nero. Chi è soggetto a sleep apnea risulta assonnato e spesso si addormenta addirittura durante la prima visita. La terapia consigliata inizia già nel laboratorio, una normale cameretta d'ospedale, dove il paziente è ricoverato per una notte. Alle pareti poster che riproducono paesaggi di mare e montagna. Una telecamera, una ragnatela di tubicini connessi al letto. Il paziente non deve fare altro che dormire (o per lo meno tentare di dormire) proprio come a casa. L'unica differenza, importante, consiste nel fatto che il suo sonno è «spiato» dai sensori e dalla telecamera: un operatore al computer controllerà tutte le informazioni inviate dagli strumenti. Il mattino dopo il dormiente conoscerà se il suo caso può rientrare nella patologia della «sleep apnea». Il centro di Veruno ha svolto anche un sondaggio testando un campione di ottocento persone. Grazie ai dati così raccolti, i medici hanno disegnato un identikit tipo del paziente soggetto a questa patologia: generalmente la «sleep apnea» è dovuta a malformazione delle vie aeree, connessa a determinate caratteristiche fisiche come l'obesità, il collo corto e la mandibola piccola. Le pareti della faringe vibrano al passaggio dell'aria durante il sonno in modo così energico da provocare il classico rumore del russamento e da congiungersi tra loro, impedendo il transito dell'aria. «Non respirando - spiegano i medici - le riserve d'ossigeno si impoveriscono finché un brevissimo risveglio, talmente breve che in genere il paziente non lo ricorda neppure, consente la ripresa della respirazione. Il vero problema di questi pazienti è che spesso non sono consapevoli di aver maturato la sleep apnea, negano di russare e addirittura di avere sonno». La soluzione consiste nel far riprendere i normali ritmi sonno-veglia. I ricercatori hanno messo a punto un apparecchio chiamato «C Pap» (Continuous positive airway pressure) che esercita una pressione continua a livello delle vie aeree permettendo a chi lo usa di respirare bene durante il sonno. La macchinetta è collegata con un tubo e una mascherina al paziente. La terapia, naturalmente, va proseguita per anni. Gianfranco Quaglia


SCIENZE DELLA VITA. ALLARME OMS Le nuove malattie infettive
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

CHE possano comparire infezioni nuove è risaputo, basta pensare all'Aids. Ma negli ultimi tempi, a parte questo evento eccezionale, si è avuta un'esplosione di inconsuete manifestazioni nel vasto dominio della patologia infettiva, che si riteneva ormai stabilizzato. Molti fattori hanno concorso a modificare il panorama infettivo, in primo luogo gli straordinari progressi della tecnologia per riconoscere nuovi microrganismi patogeni: perfezionamento dei terreni di coltura, scoperta degli anticorpi monoclonali per una fine analisi degli antigeni dei microrganismi e una diagnosi rapida, e soprattutto la biologia molecolare, una vera rivoluzione per la infettivologia, che consente di mettere in evidenza microrganismi non identificabili in altro modo. Si veda la Pcr (Polymerase Chain Rea ction), una tecnica proposta dall'americano Mullis (premio Nobel 1993) mediante la quale da una molecola di Dna se ne possono generare in poche ore miliardi, un passo da gigante nelle scienze biologiche, e nel campo delle malattie infettive applicabile a ricercare microrganismi sconosciuti. Sono stati individuati molti nuovi microrganismi causa di manifestazioni patologiche nell'uomo. Dicendo microrganismi «nuovi» si intendono varie possibilità: già noti in patologia veterinaria o vegetale ma non ancora per l'uomo; già noti ma rivelatisi in rapporto con malattie finora non considerate «infettive» (vedi Helicobacter pylori in rapporto con l'ulcera gastroduodenale, vedi virus responsabili di tumori o di malattie degenerative del sistema nervoso centrale quali le encefalopatie subacute spongiformi trasmissibili - la «mucca pazza»); infine veramente nuovi, probabilmente mutanti di microrganismi non patogeni per l'uomo e circolanti nell'ambiente, piuttosto che entità realmente nuove (un esempio è il virus dell'Aids). Inoltre sono state identificate una trentina di nuove malattie. Ancora qualche anno fa si aveva l'impressione che la lunga lotta ingaggiata per eliminare le malattie infettive fosse pressoché compiuta: il vaiolo era stato cancellato, una mezza dozzina di altre malattie erano oggetto d'una campagna di sradicamento, 8 bambini su 10 nel mondo erano vaccinati contro infezioni gravi, gli antibiotici guarivano. Purtroppo nonostante questi successi l'ottimismo si è rivelato una illusione: le malattie infettive rimangono la principale causa di morte nel mondo, almeno 17 milioni ogni anno, la maggior parte bambini. Come dice il rapporto dello scorso anno dell'Organizzazione mondiale della sanità, la lotta contro le malattie infettive è sempre più difficile, la tubercolosi e la malaria che sembravano dominate sono in ripresa, altre come il colera e la febbre gialla colpiscono regioni un tempo risparmiate, talune infezioni mostrano grande resistenza ai farmaci, nuove malattie mortali (come la febbre emorragica di Ebola per la quale non esistono nè cure nè vaccini) fanno la loro comparsa in numerose zone della Terra. E ancora, il ruolo dei virus dell'epatite e di altri agenti infettivi nello sviluppo di numerosi tipi di tumore è sempre più manifesto. Ne deriva una crisi mondiale: nessun Paese è al riparo dalle malattie infettive, lo sviluppo socio-economico di numerosi Paesi è ostacolato dal peso di questo fardello, la maggior parte dei progressi realizzati per la salute umana sono oggi rimessi in discussione. Naturalmente si tratta di problemi diversi nei Paesi industrializzati, nelle grandi metropoli, nei Paesi in via di sviluppo. Dobbiamo però attenderci progressi importanti in due principali direzioni. La prima è l'aumento della rapidità e sensibilità della diagnosi microbiologica grazie agli anticorpi monoclonali, alle sonde molecolari sempre più raffinate, alle tecniche di Pcr e di quelle affini (Li gase Chain Reaction). La seconda è l'epidemiologia molecolare, ossia lo studio della variabilità genetica dei microrganismi, che farà meglio comprendere la fisiopatologia delle malattie infettive e conoscere il loro reale impatto nelle popolazioni grazie a test diagnostici sempre più specifici. Ulrico di Aichelburg


SCIENZE DELLA VITA. APPRENDIMENTO Il bambino è poliglotta per natura Può imparare senza sforzo
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Le zone del cervello che controllano il linguaggio

PONIAMO che una famiglia torinese con un bambino di quattro anni debba spostarsi per ragioni di lavoro a Pechino. Dilemma dei genitori: mandare il bambino ad una scuola materna di lingua cinese o ad una di lingua italiana? Risposta: dal punto di vista linguistico la scelta non ha nessuna importanza. Frequentando un asilo cinese e usando l'italiano in casa, dopo un anno il bambino parlerà correntemente sia il cinese sia l'italiano. Complichiamo un tantino la situazione supponendo che la madre non possa stare a casa e che sia necessario assumere una governante per le ore libere. Purtroppo la governante parla solo l'inglese. Conseguenza: a sei anni il bambino parlerà correntemente il cinese e l'italiano e in più comprenderà ottimamente anche l'inglese. Spiegazione: il cervello di un bambino di intelligenza normale (senza alcun dono particolare per le lingue) è in grado di apprendere fino a tre lingue diverse nel periodo dai 3 anni ai 7 anni senza molti sforzi. Di fatto non è difficile imbattersi in casi del genere in un mondo che vede spostamenti sempre più frequenti per motivi di lavoro. Se pensiamo che solo il 10 per cento degli italiani (contro il 70 per cento degli scandinavi e degli olandesi) parla correntemente una seconda lingua europea, ci rendiamo conto non solo della carenza delle nostre scuole ma anche della miopia dei genitori italiani. Che molti svizzeri siano veri trilingui può essere verificato semplicemente acquistando dei francobolli in un ufficio postale svizzero usando a piacere (o alternandole) una delle tre lingue ufficiali del Paese e aggiungendo talvolta anche l'inglese. Ma come può il cervello umano apprendere, assorbire e conservare tutti questi vocaboli? In quali parti del cervello sono rappresentate e collocate le linge apprese o contemporaneamente o in tempi diversi della nostra vita? Vengono stratificate nel cervello come fette di salame in un panino oppure sono totalmente separate? Per una separazione spaziale parlano le osservazioni fatte su persone che avendo acquisito prima una lingua materna e poi una seconda lingua locale (che hanno usato per tutta la vita), in caso di un danno (traumi, tumori, embolie) disimparino la seconda e ritornino a parlare la prima. Altri casi sono quelli di pazienti a cui venne rimossa una parte del lobo temporale del cervello in seguito a terapia chirurgica per casi particolari d'epilessia e che passino ad usare la lingua secondaria invece della primaria. Nei poliglotti la stimolazione elettrica di zone corticali può sopprimere temporaneamente l'uso di una singola lingua. Nel corso di una traduzione si possono registrare spostamenti dell'elettroencefalogramma ad aree diverse del cervello a seconda della lingua utilizzata dall'interprete. Solo metodi come la risonanza magnetica funzionale o la tomografia ad emissione di positroni permettono di determinare la relazione spaziale tra la lingua materna e una seconda lingua nella corteccia cerebrale. Un gruppo di neuroscienziati della Cornell University e del Centro Sloan-Kettering di New York, usando tali metodi, hanno esaminato sei soggetti bilingui tardivi (ad esempio italiano-tedesco) con acquisizione della seconda lingua da adulti e sette soggetti bilingui precoci (acquisizione della seconda lingua nell'infanzia contemporaneamente alla prima). Ad essi venne chiesto di svolgere dei test linguistici in due lingue, ad esempio la descrizione di avvenimenti svoltisi durante un periodo particolare del giorno precedente alternando le due lingue. Si poté così dimostrare, con la risonanza magnetica funzionale, che nella corteccia del lobo frontale nella regione sensibile al linguaggio, esiste una netta separazione tra la seconda lingua acquisita tardivamente e la lingua materna. Nel caso in cui le due lingue siano state imparate contemporaneamente e precocemente esse sono rappresentate nelle medesime aree dello stesso lobo frontale. Esiste inoltre una seconda rappresentazione spaziale delle due lingue in una stessa area appartenente al lobo temporale. Questi risultati fanno pensare che esistano funzioni e ruoli diversi riservati a zone corticali separate e distinte che possono essere attivate diversamente a seconda dell'età in cui si impara la lingua e che dipendono dalla sequenza secondo la quale esse vengono apprese. Ezio Giacobini


SCIENZE DELLA VITA. ECOLOGIA Le acque italiane sono invase da pesci stranieri Il quaranta per cento della nostra fauna ittica non è originaria ma importata
Autore: GIULIANO WALTER

ARGOMENTI: ECOLOGIA, ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

QUASI il 40 per cento della fauna ittica del nostro Paese è alloctona, cioè non originaria: è urgente intervenire per tutelare la biodiversità delle nostre acque, in particolare per le specie salmonicole, alcune delle quali minacciate di estinzione, come la trota marmorata e la trota macrostigma, comprese come specie di interesse comunitario nella direttiva europea «Habitat». Le specie del genere Salmo presentano una grande variabilità nei caratteri morfologici e nelle livree, che dipendono dagli adattamenti ambientali. I più recenti studi sull'ittiofauna europea indicano l'esistenza di due sole specie indigene: il salmone atlantico, migratore che depone le uova in acque dolci per poi andare verso il mare, presente nelle aree settentrionali del continente, e la trota, con popolazioni migratrici o stanziali in acqua dolce, e varie sottospecie, presenti in tutta Europa. Per quel che concerne la trota, progenitrice delle varie forme e sottospecie viventi nella maggior parte del continente, può essere considerata la Salmo trutta trutta. Le vicende geografiche e climatiche del periodo glaciale e gli aspetti morfologici dei bacini idrografici sono stati all'origine della sua evoluzione. Per l'area mediterranea il ruolo delle varie forme indigene può essere assegnato alla Salmo trutta macrostigma. La situazione sistematica e zoogeografica tuttavia è piuttosto ingarbugliata, sia per la relativa facilità con cui le varie forme si ibridano tra loro, sia per cause che dipendono dall'uomo. L'importanza commerciale della specie e la politica della pesca sportiva da oltre un secolo hanno dato il via a cospicui ripopolamenti con pesci selezionati da ditte specializzate. Ciò ha comportato alterazioni nel quadro distributivo e causato l'inquinamento genetico delle popolazioni naturali. L'attuale quadro sistematico accredita, in Italia, la presenza di Salmo carpio, endemica del Lago di Garda, Salmo fibreni, nuova specie endemica del Lago di Posta Fibreno, Salmo trutta con le sottospecie trutta, mar moratus e macrostigma. Per la prima i problemi vengono dalla forte pressione della pesca e dai ceppi utilizzati per le semine, con la conseguente ibridazione di quelli indigeni che ne hanno determinato la scomparsa. La trota marmorata è in diminuzione in gran parte dell'Italia settentrionale: è soprattutto l'immissione di trote fario nel suo habitat caratteristico ad averne causato l'ibridazione, con la conseguente comparsa di individui con caratteri intermedi tra le due forme. La trota macrostigma risente degli areali isolati, localizzati nel versante tirrenico dell'Italia centro meridionale e isole, e della forte pressione della pesca, spesso esercitata anche con metodi illegali. Salmo carpio e Sal mo fibreni, endemiche dei singoli bacini, derivano da questa caratteristica la loro alta vulnerabilità. Come si vede da questa sintetica ricognizione, siamo di fronte a una situazione che richiede programmi e progetti di salvaguardia. Una interessante proposta di ricerca per la caratterizzazione ecologica e genetica e conseguente salvaguardia della biodiversità dei popolamenti salmonicoli d'acqua dolce in area mediterranea, viene dall'Associzione Italiana Ittiologi Acque Dolci e dal Dipartimento di Produzioni Animali Epidemiologia ed Ecologia della Facoltà di Veterinaria dell'Università di Torino, ed è stata presentata al ministero per l'Ambiente. La fasi del progetto prevedono l'individuazione di tutti gli elementi faunistici ancora recuperabili nelle zone in cui le immissioni non abbiamo già causato modifiche irreversibili del patrimonio genetico, lo studio della diversità genetica tra le varie forme di salmonidi attraverso tecniche di elettroforesi delle proteine e dei frammenti di restrizione del Dna. Al di là dell'interesse scientifico, lo studio della variabilità genetica a livello molecolare è alla base di un'adeguata strategia di gestione delle popolazioni naturali, rispettandone le diversità genetiche, identificando con certezza le popolazioni pure da utilizzare nei ripopolamenti e misurando l'impatto di questi ultimi sulle popolazioni naturali. Dal punto di vista pratico, il risultato della ricerca consentirebbe proprio di individuare ceppi autoctoni utilizzabili per operazioni di recupero di queste importanti componenti della biodiversità europea. Ma per allontanare il pericolo di estinzione sarà indispensabile una serie di misure di salvaguardia, come l'istituzione di riserve fluviali, programmi di riproduzione artificiale con ceppi puri e, soprattutto, una sensibilizzazione dei pescatori e degli organismi di gestione della pesca che dovranno progressivamente abbandonare la pratica dei ripopolamenti delle acque interne con specie estranee al patrimonio genetico locale. Walter Giuliano


SCIENZE DELLA VITA. IL TASSO Un albero elegante ma velenoso
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA

L'AUSTRIA è probabilmente il Paese europeo dove il tasso è più diffuso. In questo Paese, infatti, il tasso viene impiegato non come esemplare isolato e maestoso, a volte anche un po' funebre come accade da noi, ma al contrario, come albero decorativo, sfruttando la sua duttilità e la sua risposta alla potatura, che permette di sagomarlo in forma di cono, palla, piramide o cubo: un fatto, questo, che gli conferisce un aspetto allegro e piacevole, rendendolo adatto alle piazze delle città, ai giardini storici e ai parchi pubblici. Poche specie compongono ormai il genere Taxus della famiglia delle Taxacee, assai più diffuso e abbondante nei tempi preistorici. E' presente attualmente in Europa, in Asia e nell'America settentrionale. Ben noto per la sua longevità, il tasso cresce molto lentamente: un esemplare piantato in Scozia nel 1126 ha un diametro di appena 120 centimetri] I tassi sono piante dioiche, cioè possiedono fiori maschili riuniti in infiorescenze globose, rotonde, di colore giallo, e fiori femminili solitari, verdi, portati su individui separati, come accade anche nel caso del Kiwi (l'Actinidia sinensis). Le foglie, di colore verde scuro nella pagina superiore e verde chiaro in quella inferiore, portate da un breve picciolo, sono ravvicinate e disposte su due file. Il falso frutto è costituito da un seme osseo circondato da una formazione carnosa, l'arillo, di colore rosso brillante contrastante piacevolmente con il verde scuro delle foglie persistenti durante tutto l'anno. Della polpa dolce dell'arillo, utilizzata per preparare marmellate e uno sciroppo espettorante, sono ghiotti gli uccelli; mentre il seme è velenoso, come anche varie parti della pianta. «Albero della morte» lo chiamavano infatti sia Dioscoride sia Plinio, alludendo alla velenosità dovuta alla presenza nelle foglie di un alcaloide (la tassina), anche se sono state prescritte in passato come succedaneo della digitale. La tossicità delle foglie varia con i diversi periodi dell'anno: è maggiore quando le foglie sono fresche e nei mesi invernali. Anche Ovidio collega il tasso a immagini funeree; infatti scrive di come la strada che conduce agli inferi sia ombreggiata di tassi, d'altra parte i romani nei giorni di lutto ornavano il capo di ghirlande di tasso. Sembra che in passato i cavalli, specialmente quelli addetti alle imprese funebri, siano stati vittime di avvelenamento in quanto mangiavano le foglie di tassi nei cimiteri. Cicerone elogia l'abilità dei giardinieri romani bravissimi nell'«ars topiaria», cioè nel modellare sapientemente tasso e bosso non solo in figure geometriche, ma anche in personaggi, animali, barche. Il tasso non ha importanza come specie forestale; il legno, arancione brunastro, se lucidato può però dare ottimi risultati; nel passato la sua elasticità e compattezza erano molto apprezzate, e infatti veniva usato per fabbricare archi. L'interesse prevalentemente decorativo è comprensibile anche per l'esistenza di varietà di Taxus baccata come Adpressa, assai folta, con rami sottili e germogli penduli che portano foglie piccole ovali, Aurea, derivata dalla precedente con foglie di colore giallo oro; Dova stonii con fusto centrale breve e branche lunghe leggermente ascendenti che portano rametti e foglie pendenti; Fastigiata, conosciuta anche come Tasso irlandese, una varietà femminile a portamento eretto e colonnare con foglie che ricoprono completamente i rami. Anche se il Taxus baccata è il più conosciuto, sono note e impiegate altre specie di tasso distinguibili in base alla dimensione, al colore o alla forma delle foglie che nel Taxus brevifolia (detto anche tasso occidentale) sono lunghe soltanto 0,6-1,7 centimetri, a differenza dei 3-5 centimetri del Taxus baccata; nel Taxus chi nensis (tasso cinese) sono falcate, mentre nel Taxus cuspi data sono di un colore verde molto scuro. Elena Accati Università di Torino


SCIENZE DELLA VITA. RISCHI DELLE VACANZE ESOTICHE Quelle meduse belle e assassine La specie più pericolosa infesta i mari d'Oriente
Autore: PERELLI MATTEO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. Ciclo riproduttivo della medusa Aurelia

SIMILI a eleganti mongolfiere che fluttuano nell'immensità degli abissi marini, le meduse dal punto di vista evolutivo si trovano al fondo della scala zoologica, subito dopo le spugne: come gli anemoni di mare, i coralli e le gorgonie, appartengono al gruppo degli Cnidari, vasto insieme di celenterati che si nutrono di prede catturate mediante capsule urticanti chiamate cnidociti o nematociti. Questi organi urticanti non servono solo alla cattura delle prede ma anche come mezzo di difesa dai possibili aggressori. Essi sono costituiti da batterie di cellule velenose specializzate di forma ovoidale contenenti al loro interno un bastoncello estroflettibile, intorno al quale è avvolto a spirale un lungo e minuscolo tubo uncinato dal quale esce la sostanza urticante. Migliaia di siringhe miniaturizzate pronte a iniettare il proprio veleno al minimo sfioramento. Le vittime di solito sono pesciolini e gamberetti, che vengono paralizzati, portati alla bocca dai tentacoli e divorati. Delle duecento specie di meduse esistenti, solo settanta sono pericolose per l'uomo. La medusa più pericolosa vive negli oceani Pacifico e Indiano e rende alquanto rischiosa la balneazione in Nuova Guinea, nelle Filippine e in Australia. E' la famigerata Chironex fle ckeri, o medusa «cubo». I lunghissimi tentacoli di questa specie contengono tossine micidiali che possono causare la morte in pochi minuti necrotizzando i tessuti e distruggendo le cellule del sangue della vittima. Nel Mediterraneo la più urticante è la bellissima Pelagia noctiluca: infligge ustioni dolorose, ma che passano nel giro di qualche ora. Deve il suo nome al fatto che, se si ha la fortuna di osservarla di notte (e da una imbarcazione), al tocco di una mano o di una minima turbolenza dell'acqua si illumina di tanti puntini rosa e lilla, rischiarando il mare. Gli Cnidari a cui appunto appartengono le meduse sono noti fin dall'era primaria, in cui le meduse fossili presentavano già l'aspetto di oggi. A Ediacara, giacimento nel Sud dell'Australia, sono state ritrovate le più antiche impronte di meduse, databili al precambriano, cioè a 600 milioni di anni fa; molto prima di 225 milioni di anni fa, quando comparvero i dinosauri. Non è quindi necessario ricorrere alla clonazione di meduse fossili, anche se perfettamente conservate, come alcuni scienziati e lo scrittore Michael Crichton nel celebre «Jurassic Park» hanno ipotizzato per i dinosauri, bensì è sufficiente tuffarsi nel nostro mare per poter apprezzare creature marine così come si presentavano milioni di anni or sono. Se poi non vogliamo correre rischi, le possiamo comodamente osservare all'Acquario di Genova dove dal giugno scorso è stata allestita una vasca a forma di cilindro: una colonna d'acqua alta sette metri con un diametro di 240 cm ed una capacità di 30 mila litri, dove volteggiano in un flusso d'acqua circolare oltre 200 meduse appartenenti alla specie Aure lia aurita. Questa specie, chiamata anche medusa «quadrifoglio» per la forma che il suo apparato digerente disegna al centro dell'ombrella, è diffusa in tutti i mari temperati del mondo. Nell'osservarle pulsanti nell'acqua trasmettono una sensazione di pace. Le meduse sono costituite al 95 per cento di acqua; non hanno testa, scheletro nè organi per la respirazione e l'escrezione, ma sono costituite da due strati di tessuti epiteliali con all'interno una sostanza gelatinosa chiamata mesoglea. Questo non impedisce alle meduse di possedere un apparato digestivo, organi sensoriali, cellule muscolari e urticanti, e neuroni. L'ombrella pulsando permette i movimenti. Alla base si inserisce una formazione tubolare, il manubrio, alla cui estremità si apre la bocca. L'Aurelia presenta molti tentacoli che partono dal margine inferiore dell'ombrella, mentre, intorno alla bocca, sono disposte quattro lunghe braccia orali. Hanno poi organi sensoriali detti ropali che intervengono nel mantenimento dell'equilibrio e sono inoltre sensibili alla luce consentendo all'animale di riconoscere la propria posizione rispetto al fondo marino, distinguere l'ombra dalla luce, stabilire la direzione delle correnti. La riproduzione è alquanto particolare, la forma tipica ad ombrello rappresenta solo uno stadio del complesso ciclo vitale delle meduse. Ad esempio l'Aurelia passa gran parte della sua vita sul fondo. Esistono individui maschi e femmine che, al momento della riproduzione, rilasciano gameti (cellule sessuali maschili e femminili) in acqua. L'uovo fecondato dà luogo a una larva che si fissa sul fondo ed assume la forma di polipo. Il polipo comincia a riprodursi generando tante piccole giovani meduse dette efire che cresceranno fino a diventare adulte. Quale migliore stratagemma per lo sviluppo della vita, la creazione di esseri costituiti per la maggior parte d'acqua, liberi di fluttuare per il mare privi di veri e propri organi ed apparati, con unicamente delle cellule organizzate in tessuti. L'evoluzionista americano Gene Bylinsky, autore del libro «La vita nell'universo di Darwin», ipotizzando lo sviluppo nell'universo di forme di vita alternativa a quelle terrestri, pensò alla probabile esistenza di creature simili a meduse. In pianeti con un'atmosfera più densa rispetto alla nostra potrebbero infatti trovarsi a loro agio esseri medusoidi, come per i pesci e gli altri animali acquatici è invitante l'oceano. Fantabiologia a parte, è importante sottolineare che le meduse sono estremamente utili all'uomo: per esempio, grazie ai meccanismi biologici che servono a produrre luminescenza, le meduse del genere Aequorea sono utilizzate per studiare rimedi contro il cancro. Nel 1991 alcune meduse vennero perfino inviate nello spazio per studiare gli effetti dell'assenza di gravità sull'uomo. Le meduse sono indispensabili all'equilibrio dell'ecosistema pelagico, rappresentando un anello importante della catena alimentare marina. La grande tartaruga liuto e varie specie di pesci, come il pesce luna, sono ghiotte della sua gelatina. Impariamo quindi a conoscere e rispettare queste creature oceaniche la cui presenza in mare è spesso indice di acqua pulita, anche se talvolta ci possono creare qualche piccolo inconveniente. Matteo Perelli Biologo ricercatore presso l'Acquario di Genova


SCIENZE FISICHE. TRA DUE ANNI IN ORBITA Telescopio multiplo per raggi X Un progetto europeo con l'Italia in prima fila
Autore: MUSSO CARLO

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA

TRA due anni l'Agenzia spaziale europea lancerà uno dei più ambiziosi satelliti per astronomia mai realizzati. Si chiama Xmm e permetterà di raccogliere immagini e informazioni sull'energia di sorgenti di raggi X fino a cento volte più deboli di quelle finora conosciute. I raggi X sono fotoni di alta energia che vengono emessi, in diversa misura, da molti oggetti celesti: stelle, galassie, ammassi di galassie, nebulose... Ma in particolare essi sono prodotti in situazioni fisiche molto peculiari: esplosioni di supernovae, emissione da parte di stelle di neutroni, buchi neri o quasar. Dato che, fortunatamente per noi, l'atmosfera assorbe i raggi X provenienti dallo spazio, l'astronomia X è una disciplina tipicamente spaziale e, di conseguenza, piuttosto giovane. Nel 1949 Friedman poté rivelare per la prima volta, grazie a un contatore Geiger fatto volare con un razzo V-2, che il Sole emette raggi X. Nel 1962, con un rivelatore delle dimensioni di una carta di credito a bordo di un razzo, Riccardo Giacconi osservò la prima sorgente X celeste. Per avere la prima missione interamente dedicata all'astronomia X in orbita intorno alla Terra bisogna aspettare il 1970 e il satellite «Uhuru». Da qui in poi un gran numero di missioni, sia su satelliti sia su razzi e palloni stratosferici, ha costruito, passo dopo passo, la storia dell'astronomia X. Con ragione Xmm è stato paragonato all'Hubble Space Te lescope, poiché da esso ci si aspettano, in astronomia X, progressi paragonabili a quelli realizzati nel campo dell'astronomia tradizionale grazie al famoso telescopio orbitante della Nasa. Con Xmm, l'Europa ha la grande occasione di stabilirsi saldamente in prima linea nel settore delle grandi missioni spaziali. In questo progetto l'Italia ha un ruolo di primo piano: oltre a uno dei tre strumenti scientifici - quello che permetterà di fare fotografie del cielo nei raggi X - e a molte parti dell'elettronica di bordo, vengono realizzati in Italia anche gli specchi dei telescopi, sviluppando una tecnologia estremamente sofisticata, già sperimentata con successo per il satellite italiano Sax. I raggi X, a differenza della luce visibile, non vengono riflessi dagli specchi tradizionali. E' possibile però sfruttare il fenomeno fisico per cui, se i fotoni X incidono quasi parallelamente su una superficie sufficientemente liscia, per esempio d'oro, vengono riflessi e quindi possono essere focalizzati in un punto. A bordo di Xmm - che significa X-ray Multi Mirror - ci saranno ben tre telescopi indipendenti. Il loro peso complessivo sarà di quasi una tonnellata e mezzo, cioè più di un terzo della massa totale dell'intero satellite. A contendere a Xmm il ruolo guida nell'astronomia X dei prossimi anni, ci sarà, ancora una volta, un satellite americano: Axaf - Advanced X-ray Astrophysical Facility. La sfida si preannuncia molto impegnativa, e una verifica si avrà soltanto quando i due satelliti saranno in orbita. Ma i presupposti perché Xmm possa giocare con successo le proprie carte ci sono tutti. Uno dei segreti dell'astronomia è quello di raccogliere la maggior quantità possibile di luce proveniente dagli oggetti che si vogliono osservare. I telescopi ottici si distinguono, tra le altre caratteristiche, per il diametro degli specchi: uno specchio più grande permette di raccogliere più fotoni e quindi di osservare sorgenti più deboli. Lo stesso vale per un telescopio per raggi X. Un altro segreto è quello di avere a disposizione, per ogni categoria di sorgenti, i dati di un buon numero di esemplari. I tempi-scala tipici in astronomia sono di migliaia di anni - se non milioni. Dato che non è possibile seguire un oggetto nell'intero corso della sua vita, bisogna osservarne molti di età diversa, per capire la loro evoluzione. Quello che farà di Xmm un protagonista assoluto nei prossimi anni sarà proprio la grande capacità di raccogliere i fotoni: l'area efficace dei suoi tre telescopi sarà sei volte maggiore di quella del suo rivale americano Axaf. Questo significa che Xmm con i suoi strumenti vedrà alcune decine di milioni di sorgenti di raggi X, cioè quasi mille volte di più di quante ne siano state viste finora. Se manterrà le sue promesse, Xmm sarà davvero una pietra angolare nel panorama dell'astronomia spaziale, e costituirà anche un segnale forte di un'Europa capace di realizzare progetti importanti e competitivi. Questo non potrà che aiutare nel non facile cammino verso una unione che non sia solo economico-finanziaria, ma anche scientifica e culturale. Carlo Musso Cnr, Milano Istituto di fisica cosmica


SCIENZE FISICHE. IN PROVA A ROMA Elettro-bastone aiuterà i ciechi
Autore: BONZO MARIALUISA

ARGOMENTI: TECNOLOGIA
NOMI: PARETTI CLAUDIO
ORGANIZZAZIONI: ENEA, IRIFOR
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, ROMA

CHIEDO timidamente a Claudio Paretti, capo del Dipartimento Tecnologie per la qualità della vita dell'Enea: «Mi fa provare?». Metto alla vita il Walk Assistant (è grande poco più di un walkman), l'auricolare all'orecchio. Afferro il bastone bianco come faccio di solito, nella mano destra, con il dito indice disteso lungo l'impugnatura. Questa presa permette, a chi come me non vedendo usa il bastone bianco per muoversi, di controllare che l'arco fatto con la punta dello stesso davanti a sè sia parallelo e a pochi centimetri da terra. Il polpastrello del dito indice destro è su un piccolo incavo. A parte questo il bastone è tradizionale, il peso è lo stesso di quello che uso tutti i giorni. Inizio a muoverlo, proprio come se stessi utilizzando il mio per le vie che conosco nella mia città, Torino. Invece sono a Roma in piazza di Trevi, dove da sola non sono mai stata. Sulla punta del bastone è stato posto un sensore elettromagnetico che capta il segnale emesso da un cavo (un doppino telefonico nascosto nella pavimentazione) facendo vibrare l'incavo sotto l'indice. Seguo, prima titubante, il cordone virtuale, che percepisco come una vibrazione, unico riferimento nel luogo aperto della piazza. Il Walk Assistant, quando entro nel raggio di targhette elettroniche poste sul percorso, mi dà delle rapide informazioni vocali, mi dice quali vie sto incrociando, in che direzione sto andando. Se mi fermo quando mi annuncia che sono di fronte ad un'opera d'arte, posso ascoltarne la descrizione. Variando la mia posizione rispetto alle targhette cambiano le informazioni ed ho sempre la collocazione esatta degli ostacoli e degli elementi architettonici. Il Walk Assistant consiste di tre microprocessori, tre computer in miniatura, che danno livelli diversi di informazione. Il primo gestisce la bussola elettronica e permette di avere automaticamente la posizione. Mi basta premere un pulsante per conoscerla. Il secondo gestisce il sistema vocale e di risposta automatica. Il terzo è il supervisore: controlla che tutto funzioni. Prendo sicurezza e continuo a camminare seguendo le informazioni tattili-sonore del sistema, senza però scordare le tecniche che uso normalmente. Ciò mi evita di finire contro un'auto parcheggiata sul tragitto e mi permette di attraversare la via ascoltando il rumore del traffico. Ho semplicemente un riferimento in più. La caratteristica che rende l'automatismo differente dai percorsi guidati per ciechi finora sperimentati sta nella doppia informazione data al non- vedente, che non compromette le tecniche comunemente usate per la mobilità. Il disabile visivo percepisce una specie di corrimano, virtuale sì, ma affidabile e sempre presente. In questo sta la superiorità dell'apparecchio rispetto alle sperimentazioni di guida con il satellite, dove c'è solo una voce che dà dei comandi e manca una sensazione diretta del percorso. Il cavo, è certo non si perde, nè si stacca mai. Al contrario il satellite, quando per esempio il non- vedente è in una strada stretta, può diventare anche lui cieco. Il sistema è un progetto del Dipartimento Tecnologie per la qualità della vita dell'Enea. Sperimentato fin dal '96 lungo tracciati protetti nel centro Enea della Casaccia (Roma), è ora in prova in una vetrina d'eccezione: piazza Fontana di Trevi. Grazie alla semplicità e alla sicurezza nell'utilizzo quest'ausilio tattile-vocale potrà essere usato in ambienti complessi come aeroporti, stazioni, metropolitane, uffici pubblici, nonché in percorsi cittadini favorendo notevolmente l'autonomia dei non vedenti. Un sistema di microfresatura permette inoltre una installazione del filo rapida e a basso costo, con un impatto minimo sull'ambiente. In caso di conferenze o di fiere si può utilizzare un nastro adesivo conduttore, facilmente eliminabile alla fine della manifestazione. Il prototipo in piazza di Trevi, è stato finanziato dal Comune di Roma e realizzato con la consulenza dell'Irifor (ente di ricerca dell'Unione Italiana Ciechi). Il progetto si inserisce in un più ampio programma dell'amministrazione comunale romana di abbattimento delle barriere architettoniche, per rendere la città pronta per accogliere tutti i pellegrini e i turisti che arriveranno per il Giubileo. La collaborazione dell'Unione Ciechi rientra nel piano di attenzione dell'Enea verso gli utenti a cui sono destinati i progetti e alle loro associazioni. Marialuisa Bonzo


SCIENZE FISICHE. NUOVE TECNOLOGIE Aerei a idrogeno? Va avanti un progetto russo-tedesco
Autore: FOCHI GIANNI

ARGOMENTI: TECNOLOGIA, TRASPORTI
LUOGHI: ITALIA

SEI maggio 1937: durante l'atterraggio a Lakehurst, negli Stati Uniti, s'incendia il grande dirigibile tedesco Hindenburg, pieno d'idrogeno: in 32 secondi diventa un mucchio di rottami fumanti. Il disastro segna la fine per la navigazione aerea affidata al galleggiamento. Sessant'anni dopo, l'idrogeno viene riproposto non perché è più leggero dell'aria, ma perché può essere usato come combustibile. Già nel 1956 gli Stati Uniti progettarono un bombardiere B57 a idrogeno: allora, però, la disponibilità di petrolio scoraggiò sviluppi concreti. La situazione oggi è diversa: lo spettro della crisi energetica e i timori per un aumento dell'effetto serra (legato al consumo d'idrocarburi) incombono sulle prospettive del secolo venturo. L'idrogeno diventa perciò allettante, perché può derivare da fonti non fossili, e perché bruciando non genera biossido di carbonio. Non elimina tuttavia la formazione di vapor d'acqua, che pure ha un effetto serra; anzi, un jet a idrogeno ne scaricherebbe di più di quelli convenzionali. Bisogna però ricordare che, se vediamo nel cielo le scie degli aerei a reazione, ciò significa che a quelle quote il vapor d'acqua si trasforma in cristalli di ghiaccio: neppure le nuvole, del resto, sono ammassi di vapore (se lo fossero, sarebbero invisibili). Anche il ghiaccio ha un effetto serra, che però diminuisce con l'aumentare della grandezza delle particelle: quelle formatesi nello scarico d'un motore a idrogeno dovrebbero essere più grosse e quindi poco importanti. Queste le previsioni della Daimler-Benz, impegnata nel progetto insieme con ricercatori russi. Ma, considerazioni ecologiche a parte, voi ci salireste su un aereo che avesse fatto il pieno d'idrogeno? Bene: sembra che il nuovo combustibile non rappresenti un problema, quanto a sicurezza, almeno con i mezzi oggi disponibili. A differenza del cherosene, l'idrogeno, che in volo deve essere trasportato come liquido per ovvie ragioni di spazio, se fuoriesce per un incidente, evapora in fretta e, se s'incendia, brucia verso l'alto, anziché dar luogo a tappeti di fiamme. Soltanto se si mescola con l'aria in un ambiente chiuso può provocare esplosioni: i 200 mila metri cubi d'idrogeno dell'Hindenburg bruciarono senza esplodere. Di più: del calore sviluppato da una fiamma a idrogeno non viene irraggiata lateralmente che una minima parte; se i serbatoi fossero sopra la fusoliera, in caso d'incendio questa basterebbe a isolare le persone al suo interno. L'idrogeno liquido, se usato nell'aviazione civile, imporrebbe grossi sforzi per la produzione, la conservazione e la distribuzione. Esso bolle a 253 gradi sotto zero; sicché evapora in pochi istanti da recipienti che non siano ben isolati. Le pareti che lo contengono devono dunque essere assai spesse, con aumento dell'ingombro. Inoltre il peso specifico dell'idrogeno liquido è molto basso: per trasportarne un certo peso occorre un volume grosso. Quest'inconveniente è compensato solo in parte dall'alto contenuto energetico, che a parità di peso è maggiore di quello del cherosene. Tutto sommato, per non diminuire l'autonomia del velivolo si richiedono serbatoi quattro volte più ingombranti di quelli tradizionali. Il Cryoplane, così si chiamerà l'aereo, avrà dunque per tutta la sua lunghezza una gobba abbastanza vistosa. La Daimler-Benz punta a voli dimostrativi nell'anno 2000: cinque anni dopo dovrebbe entrare in servizio. Per l'approvvigionamento del combustibile c'è fin dal 1986 un programma di ricerca euro-canadese. L'obiettivo è sfruttare, allo stadio di progetto pilota, cento megawatt d'energia idroelettrica (cioè pulita e rinnovabile) prodotta nel Quebec, immagazzinandola sotto forma d'idrogeno ottenuto per elettrolisi dell'acqua. Quest'ultimo può essere convenientemente conservato e trasportato in due modi: o come idrogeno liquido o come prodotto temporaneo d'una reazione chimica. Con catalizzatori opportuni si può sommare idrogeno al toluene (abbondante idrocarburo della serie aromatica), ottenendo un nuovo idrocarburo, che poi, con altri catalizzatori, può restituire l'idrogeno nel posto e al momento in cui serve. Se si farà la prima delle due scelte, occorreranno navi adatte: si pensa a scafi che ospitino ciascuno cinque serbatoi da tremila metri cubi, isolati termicamente in modo che le perdite per evaporazione siano trascurabili fino a cinquanta giorni di stivatura. L'istituto federale tedesco per i materiali ha dichiarato che non avrebbe nulla in contrario al traffico di navi del genere: dal punto di vista della sicurezza, non ci sarebbero rischi maggiori che nel trasporto dei gas liquidi ora largamente impiegati (propano e gas naturale). La World Energy Network, sostenuta dal Giappone, progetta navi idrogeniere gigantesche, in grado di trasportare duecentomila metri cubi. Tornando all'impiego dell'idrogeno liquido nella propulsione, è interessante sapere che il centro europeo di ricerche di Ispra lavora a un battello da provare sulle acque del Lago Maggiore, mentre sulle strade circolano due autobus prototipo (uno tedesco e uno belga). La francese Air Liquide ha già in funzione condutture per trasportare idrogeno liquido a grande distanza in Francia, Belgio e Stati Uniti. Gianni Fochi Scuola Normale di Pisa


SCAFFALE D'Amato Marina: «Bambini e Tv», Il Saggiatore
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: COMUNICAZIONI
LUOGHI: ITALIA

La «tv dei ragazzi», lungi dall'essere una tv innocente, è un laboratorio di perversioni dell'intelligenza che, per certi versi, anticipa ed estremizza fenomeni socio-culturali della tv per gli adulti: basti pensare che la mondializzazione di stereotipi narrativi introdotta dalle te lenovelas si può già vedere nei fumetti giapponesi; inoltre, oggi tanto si discute della novità dei «canali tematici»: ma la «tv dei ragazzi» non era già un «canale tematico» trent'anni fa? Marina D'Amato, sociologa, docente all'Università di Roma ed esperta di problemi dell'infanzia, analizza in questo saggio di facile lettura come la televisione, nel bene e nel male, condizioni i bambini nel formarsi di una loro visione del mondo. Piero Bianucci


SCAFFALE Autori vari: «Dai neuroni al cervello», Zanichelli; Julien Robert M.: «Droghe e farmaci psicoattivi», Zanichelli
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: MEDICINA E FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Una sintesi delle neuroscienze aggiornata, a livello universitario, ma anche accessibile a un qualsiasi lettore colto, mancava nella nostra pur vasta produzione editoriale: quest'opera di un farmacologo dell'Università di Basilea (John Nicholls) e di due fisiologi dell'Università del Colorado (Robert Martin e Bruce Wallace) colma la lacuna. Da segnalare per rigore e completezza anche il trattato di Julien che prende in esame tutte le molecole che hanno un'azione sull'attività cerebrale.


SCAFFALE Gazzaniga Michael S.: «La mente della natura», Garzanti
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Direttore del Centro di neurobiologia dell'Università di California a Davis, Michael S. Gazzaniga analizza in questo saggio comze la complessa interazione tra cervello e ambiente porti ai comportamenti sessuali, sociali e culturali che osserviamo intorno a noi. L'approccio, che muove dalla specializzazione degli emisferi cerebrali studiata da Roger Sperry (emisfero destro = facoltà spaziali e artistiche; emisfero sinistro = facoltà analitiche e linguistiche) è essenzialmente di tipo organicista.


SCAFFALE Molinari Ida: «Dalla Terra ai buchi neri», Edizioni San Paolo
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

IN questo libro Ida Molinari ci presenta una panoramica su tutta l'astronomia contemporanea ma, per fortuna del lettore, non nella forma sistematica dei trattati. Mettendo a frutto decenni di lavoro giornalistico come divulgatrice scientifica per «Famiglia cristiana», Ida Molinari delinea il quadro delle attuali conoscenze dal sistema solare fino alle fontiere dell'universo attraverso i suoi incontri con fisici e astrofisici. Questo libro è infatti anche una galleria di personaggi come George Coyne, direttore della Specola Vaticana, Bruno Coppi, pioniere della fusione nucleare, Fred Whipple, il più illustre studioso di comete, Brian Marsden, l'astronomo che cura a Cambridge (Boston) l'«anagrafe» del cielo, Tullio Regge, fisico teorico esperto di relatività, George Smoot, astrofisico che con un satellite ha studiato la radiazione fossile del Big Bang.


MISSIONE MIR-SHUTTLE Astronauta scartata «Sei troppo piccola»
Autore: A_LO_CA

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: LAWRENCE WENDY, WOLFE DAVE, EHYARTS LEOPOLD
ORGANIZZAZIONI: MIR
LUOGHI: ITALIA

ANCHE se i lavori di riparazione della Mir sono affidati ai cosmonauti russi, in tempi di emergenza come questi anche gli americani periodicamente inviati sulla stazione devono tenersi pronti a vestire tuta e casco per affrontare «passeggiate spaziali». Per questo Wendy Lawrence, la donna astronauta della Nasa che a settembre doveva sostituire Mike Foale sulla Mir, resterà a terra: è troppo piccola di statura (1 metro e 58 centimetri) per vestire gli scafandri «Orlan» dei russi. A Houston l'hanno sostituita con il più massiccio Dave Wolfe. Per dare a Dave il tempo di prepararsi, il lancio di Atlantis è stato spostato dal 17 al 23 settembre, così come il ritorno a casa di Michael Foale, che, da maggio sulla Mir, ormai non ne può più. Un piccolo problema riguarda l'alimentazione. Ormai è troppo tardi per cambiare il menù di bordo previsto per la Lawrence, e così Dave Wolfe si porterà in orbita i cibi scelti per la sua collega, che è vegetariana e, date le differenze di stazza fisica, abituata a piccole porzioni. Wolfe reclama il cambio del menù, che non gradisce affatto, ma il centro che produce cibi per la Nasa ha le sue rigidità e i margini sono stretti. Chi si lamenta meno è Leopold Ehyarts, ricercatore francese da due anni si allena per un volo scientifico sulla Mir. Doveva partire con Soloviev e Vinogradov: adesso da terra fa il tifo per loro. Se la Mir resterà operativa ancora per un po', Leopold partirà nel febbraio '98 sulla Soyuz Tm-27, con i russi Moussabajev e Boudarin. L'agenzia spaziale francese Cnes ha già da tempo versato ai russi i 100 milioni di franchi per la missione «Pegaso». (a. lo ca.)


IL FUTURO DELLA STAZIONE SPAZIALE RUSSA Quando cadrà la Mir Un piano per dirigerla sul Pacifico
Autore: LO CAMPO ANTONIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: CULBERTSON FRANK, SOLOVIEV ANATOLIJ, VINOGRADOV PAVEL, FOALE MICHAEL
ORGANIZZAZIONI: MIR
LUOGHI: ITALIA

TRA mille difficoltà e allarmi lanciati e rientrati, da qualche giorno i cosmonauti-meccanici Anatolij Soloviev e Pavel Vinogradov sono al lavoro per rimettere in sesto la ormai vecchia e malconcia stazione orbitante russa Mir. Ma intanto si definisce il piano per dirigere sull'oceano Pacifico l'eventuale rientro nell'atmosfera di questa massa di 120 tonnellate, in modo da evitare rischi alle regioni abitate. Riusciranno i due cosmonauti, coadiuvati dal collega americano Foale, a portare a termine il restauro della Mir? «Le probabilità di successo sono alte», dice Frank Culbertson, l'astronauta della Nasa che segue le missioni Usa-Russia. «D'altra parte basta far tornare il livello di energia elettrica all'80 per cento». Il programma di lavoro di Soloviev e Vinogradov è talmente intenso che, trascritto sulle pagine di questo giornale, riempirebbe due di questi inserti. I cosmonauti si sono allenati per quasi due mesi nelle piscine dove si simulano le passeggiate spaziali, attorno a due moduli analoghi a quelli di cui è formata la Mir, compreso lo «Spektre», danneggiato dall'urto del 25 giugno con la capsula «Progress». In poche settimane i due cosmonauti hanno dovuto adeguarsi a un nuovo piano di volo, ben diverso dalla missione russo-francese «Pegaso», che prevedeva 21 giorni con il francese Leopold Ehyarts per condurre test su cristalli, proteine, tessuti biologici e comportamento dei muscoli a gravità zero. Nelle vasche del Centro di addestramento «Gagarin» a Cosmograd, presso Mosca, si sono provate tutte le operazioni che ora vedono i cosmonauti alle prese con cacciaviti e tenaglie: cavi da sostituire, radiatori, filtri, serbatoi. I cavi sono fondamentali: sostituiti e collegati ai generatori elettrici in tilt, passano nel modulo «Spektre», chiuso e depressurizzato dal 25 giugno scorso. I cosmonauti cercano di riattivarlo tappando la falla procurata dalla «Progress M- 34» nel tamponamento. Si pensa che a causare la falla, e quindi l'uscita dell'aria, sia stato l'urto dei bulloni di un radiatore. Lanciata il 20 febbraio 1986 (tre settimane dopo il disastro dello shuttle Challenger), la Mir doveva rimanere operativa per un massimo di sei anni. Non sono solo i sistemi che consentono la vita dell'equipaggio a dare segni di cedimento. Persino accessori banali sono ridotti male, come le tendine dei «separè» degli astronauti, o alcuni armadietti che contengono gli esperimenti scientifici. I lavori di manutenzione possono permettere a questa stazione, l'unica che abbia consentito la presenza continuativa di uomini e donne di varie nazioni nello spazio, di coprire il tempo necessario a rendere abitabile la prossima grande stazione spaziale internazionale che la stessa Russia con Stati Uniti, Giappone, Europa e Canada si appresta a mettere in orbita. La «Space Station» è in ritardo: doveva già essere in orbita con i primi moduli a fine '97 ma i problemi finanziari e tecnici dei russi, che forniscono molte parti importanti compreso il modulo principale, hanno fatto slittare il tutto a metà 1998. Il primo equipaggio (Gidzenkho, Krikaliev, e Shepherd) non l'abiterà prima dell'estate '99, forse in coincidenza con il trentennale del primo sbarco sulla Luna. E se i lavori di riparazione fallissero? «Potete star certi che i russi faranno di tutto pur di mantenere attiva la Mir», dice Culbertson, che dovrà comandare l'ultimo attracco Mir- Shuttle. «Questa è per loro un'importante fonte di guadagno, grazie alle missioni realizzate con partner internazionali. Anche con una Mir funzionante al 50 per cento si procederà. Ma alla Nasa valuteremo sempre con cura il fattore sicurezza per i nostri astronauti». Quanto allo scenario di un eventuale abbandono della stazione, Soloviev e Vinogradov rientrerebbero entro fine anno con la Sojuz, Mike Foale tornerebbe a casa con lo Shuttle che andrà a riprenderlo il 21 settembre, e la Mir resterà vuota. Il suo destino non è diverso da quello di qualsiasi altro satellite o veicolo spaziale abbandonato in orbita: ricadrà, bruciando, nell'atmosfera. E sarà il più pesante e massiccio complesso spaziale nella storia dell'astronautica a ricadere. Poiché l'inclinazione orbitale di 51 gradi sull'equatore dei veicoli russi (e della Mir) sorvola al 70 per cento terraferma, con zone popolate come il Nord Europa, gli stati dell'ex Urss, Argentina e Cile, si dovrà evitare che il colosso di 120 tonnellate (30 più dello Skylab che cadde in pezzi nel 1979) finisca su zone abitate. Verranno quindi attraccate a prua e a poppa della Mir due capsule di rifornimento «Progress», che però questa volta, anziché portare viveri e materiali, accenderebbero i propri razzi di assetto per far piombare negli strati atmosferici la stazione in un punto prestabilito sopra l'Oceano Pacifico. In questo modo, pur non escludendo che alcuni pezzi finiscano sulla terraferma, i rischi verrebbero ridotti al minimo. Sono eventi che a Mosca sperano di vedere il più tardi possibile ma, al di là del probabile successo dei lavori attualmente in corso, il destino della vecchia e gloriosa Mir sarà pur sempre, prima o poi, l'abbandono. Antonio Lo Campo


DIBATTITO IN USA La scienza cerca il segreto della bellezza Biologi e fisici: è simmetria con un pizzico di caos
Autore: VERNA MARINA

ARGOMENTI: BIOLOGIA
NOMI: THORNHILL RANDY
ORGANIZZAZIONI: UNIVERSITA' DEL NUOVO MESSICO
LUOGHI: ITALIA

E' una sorta di atto di fede che qualunque equazione descriva leggi fondamentali deve avere in sè anche grande bellezza», diceva Paul Dirac, il fisico che scoprì l'antimateria. Concetto che il matematico Poincarè spiegava così: «Le entità matematiche alle quali attribuiamo bellezza ed eleganza, che sono cioè capaci di destare in noi una sorta di emozione estetica, sono quelle i cui elementi appaiono organizzati con un'armonia tale che la mente può, senza sforzo, cogliere il tutto senza trascurare i dettagli. Questa armonia è al tempo stesso una soddisfazione dei nostri bisogni estetici e un aiuto per la mente, che lì trova la sua guida». Questa consapevolezza estetica non appartiene solo ai matematici e ai fisici. Anche i biologi sottolineano l'eleganza, quando presentano le loro teorie, e ad essa si affidano nell'impostare nuovi esperimenti. Per molti scienziati, l'eleganza formale è una prova di verità: dietro ogni proprietà estetica c'è una legge di natura. In particolare, un filo conduttore considerato assai affidabile è la simmetria - o il suo contrario, cioè la rottura di una simmetria. In biologia, teorizza Randy Thornhill dell'Università del Nuovo Messico, la simmetria è un marcatore di fitness, cioè di buona salute. Non è un caso che le donne e gli uomini belli, dotati cioè di tratti simmetrici, siano i partner più ambiti. «La simmetria perfetta - dice Thornhill - è la meta ideale dello sviluppo. Ma il cammino è accidentato: gli organismi inciampano in malattie, condizioni fisiche avverse, tossine, mutazioni, incroci tra consanguinei. Tutti accidenti che portano lo sviluppo fuori dal retto cammino e producono asimmetrie del corpo e del viso. Noi abbiamo misurato un centinaio di nostri studenti: dita, piedi, caviglie, polsi o gomiti perfettamente simmetrici sono una rarità». Che l'aspetto estetico sia almeno in parte il riflesso della qualità biologica e genetica non è un'ipotesi nuova. Almeno per il regno animale. In un mondo pieno di parassiti e altri agenti patogeni che possono disturbare lo sviluppo, soltanto gli individui con i geni migliori riescono a sviluppare un corpo perfettamente simmetrico. E sono questi individui che, nei poco romantici termini evolutivi, diventano i partner più ambiti. Un bel «contenitore» è come un'insegna pubblicitaria che dica: ho geni buoni, un sistema immunitario forte, mangio bene e ovviamente ho un gran vigore sessuale. Ma il biologo Randy Thornhill, dell'Università del Nuovo Messico, ha scandalizzato la comunità scientifica dicendo che tutto ciò vale anche per gli uomini. Non solo: ha pure annunciato che la simmetria esterna potrebbe essere la prova di un perfetto sviluppo del cervello, l'indicatore di intelligenza e di particolari abilità cognitive. Su questo punto sta ancora raccogliendo le prove - ma non certo il consenso. Anche perché ci sono nuove ricerche che smontano l'idea che la simmetria sia una sorta di «marchio di qualità». Rufus Johnstone, zoologo all'Università di Cambridge, sostiene ad esempio che le forme simmetriche potrebbero semplicemente essere quelle più riconoscibili dai neuroni, quelle cui i nostri sistemi visivi rispondono meglio. La presenza della bellezza - e in particolare della simmetria - in tutta la realtà fisica è stata a lungo studiata anche da Rothenberg, un epistemologo dell'Università di Harvard. Il senso del bello, ci ricorda, deriva dall'antichità classica: sono stati i greci a enfatizzare le forme ideali e a costruire opere d'arte dalle proporzioni simmetriche e perfettamente equilibrate. Questa tradizione, che ha resistito per due millenni, è stata però rifiutata nell'arte contemporanea, con un'intuizione che si è allargata alla scienza: oggi sappiamo che c'è un senso e c'è un ordine anche nel caos. «Simmetria e asimmetria - dice Rothenberg - sono l'una speculare all'altra. Anche psicologicamente: l'una induce equilibrio, l'altra squilibrio; l'una riposo e ordine, l'altra movimento e il senso di un incipiente disordine. Il processo creativo, si tratti di un'opera d'arte o di un esperimento scientifico, ha bisogno di entrambe». Rothenberg ha identificato un processo cognitivo che ha chiamato «processo gianusiano», da Giano, il dio bifronte. L'ha testato con prove sperimentali ed empiriche e l'ha così definito: «Concepire attivamente e simultaneamente una serie di opposti». Così, dice, si spiegherebbe la continua presenza di simmetrie nelle scoperte scientifiche importanti. Rothenberg identifica quattro fasi distinte, che in qualche modo si sovrappongono. La prima è quella che chiama «motivazione a creare»: molto forte nella ricerca scientifica, è l'impulso mirato a produrre qualcosa di importante, facendosi spesso guidare da sensazioni e obiettivi estetici. La seconda fase è la «separazione». Qui si mettono a fuoco e si identificano tutti gli elementi di cui tener conto. Lo scienziato abbandona tutte le conoscenze che ha accumulato fino a quel momento e cerca modalità nuove con cui affrontare il suo problema. La terza fase è quella della «opposizione simultanea»: coppie o serie di opposti vengono intrecciate in tutti i modi possibili, preparando il risultato creativo. L'ultima fase è la «costruzione della teoria»: l'intuizione iniziale, sistematizzata, diventa esperimento, scoperta, teoria. Per le vecchie volpi occidentali, che al liceo hanno studiato Hegel, il gioco della tesi-antitesi-sintesi non è una novità. Ma è interessante vedere come, molto tempo e molti studi dopo, alcune intuizioni ritornino - e si dimostrino belle e vere anche in un altro contesto. Marina Verna


SCAFFALE Ottaviano Chiara: «Mezzi per comunicare», Paravia
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: COMUNICAZIONI
LUOGHI: ITALIA

I mezzi di comunicazione costituiscono un campo di ricerca affascinante perché in essi interagiscono strettamente le tecnologie più avanzate e i fattori sociali. Chiara Ottaviano in questo manuale agile ma denso si è messa proprio in questo punto di osservazione interdisciplinare per cogliere le profonde mutazioni culturali scandite da strumenti come il telegrafo, il telefono, il fonografo, il cinema, la radio, la televisione e infine Internet, la rete delle reti nata dal matrimonio tra computer e telecomunicazioni. Un libro che ci spiega le origini della società dell'informazione nella quale viviamo, aiutandoci a capirne la rapidissima evoluzione. In proposito, segnaliamo anche il volume «Le origini della società dell'informazione» di James R. Beniger pubblicato dalla Utet con una prefazione della stessa Chiara Ottaviano.




La Stampa Sommario Registrazioni Tornén Maldobrìe Lia I3LGP Scrivi Inizio