TUTTOSCIENZE 5 agosto 98


SCIENZE DELLA VITA. IL "PARADOSSO FRANCESE" L'uva nera contro il colesterolo
Autore: PELLATI RENZO

ARGOMENTI: ALIMENTAZIONE
NOMI: SCAPAGNINI UMBERTO
LUOGHI: ITALIA

FRANCESI e americani sono forti consumatori di cibi ricchi di acidi grassi saturi (burro, formaggi, panna, carni bovine), però i primi hanno una minor incidenza di malattie cardiovascolari grazie alle loro abitudini alimentari che contemplano una maggior introduzione di uva nera e vino rosso, ricco di resveratrolo, un antiossidante. Il fenomeno viene definito "paradosso francese". Sino ad oggi, questa ipotesi epidemiologica non aveva una conferma biochimica. Recenti ricerche farmacologiche (Umberto Scapagnini - Università di Catania) hanno dimostrato una specifica azione protettiva dell'endotelio vasale da parte di questo fitoderivato che inibisce l'azione lesiva dei radicali liberi sulle strutture vascolari. E' accertato che valori di colesterolo superiori a 220 mg/dl depongono per una predisposizione all'arterosclerosi, però sono particolarmente pericolose le lipoproteine LDL (il cosidetto: " colesterolo cattivo"), quando vengono modificate in seguito ad un processo ossidativo. Le LDL ossidate non vengono più riconosciute dai recettori posti sulla superficie delle cellule e sono fagocitate dai macrofagi. La fogocitosi di LDL ossidate trasforma i macrofagi in cellule schiumose che poi infiltrano la parete arteriosa dando origine alle placche aterosclerotiche. Gli antiossidanti naturali hanno proprio questo compito: difendere numerosi substrati dalla degradazione ossidativa indotta dagli agenti ossidanti. Ovviamente funzionano sino a quando i fenomeni ossidativi non sono particolarmente intensi. La quantità di antiossidanti naturali è molto alta in alcuni vegetali, come nella buccia dell'uva nera che assorbe le radiazioni solari ossidanti, a differenza di quella presente nell'uva bianca che riflette i raggi solari. Un altro esempio è dato dalle olive, dove il substrato ossidabile è particolarmente abbondante (olio), per cui il prodotto ottenuto dalla semplice spremitura (extra vergine) è ricco di preziosi antiossidanti naturali come i polifenoli, la vitamina E, il betacarotene (ecco perché gli oli raffinati sono, di conseguenza impoveriti). Fra i vari antiossidanti oggetto di ricerche biochimiche (saranno le "vitamine del 2000"), si è visto che il resveratrolo (3-4-5 triidrossi-stilbene) presente nella cuticola dei chicchi di uva nera, inibisce l'ossidazione in vitro delle lipoproteine LDL chelando il rame, il quale è un pro-ossidante (favorisce la formazione di radicali liberi dagli acidi poli-insaturi e dagli acidi grassi poli-insaturi e dagli idroperossidi). Uno studio condotto su volontari che hanno assunto 400 ml di vino rosso al giorno unitamente ad una dieta equilibrata, ha rilevato, rispetto al gruppo di controllo, una riduzione statisticamente significativa dei lipoperossidi e dei coniugati nelle LDL. Gli autori concludono lo studio dicendo che i flavonoidi e il resveratrolo vengono assorbiti dall'intestino, entrano in circolo e si legano alle LDL rendendole resistenti ai fenomeni ossidativi. La presenza di alcol nel vino rosso impedisce di aumentare le dosi. Invece la possibilità di avere a disposizione un integratore a base di derivati dell'uva nera contenenti resveratrolo consentirà uno studio multicentrico cardiologico, per una verifica dei risultati, del dosaggio e di eventuali effetti collaterali. Renzo Pellati


SCIENZE FISICHE. IN ADRIATICO Un enorme giacimento di metano
Autore: FURESI MARIO

ARGOMENTI: ENERGIA
ORGANIZZAZIONI: AGIP
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA

DA oltre mezzo secolo l'Adriatico è al centro dell'attenzione dei geologi come pure delle grandi industrie produttrici di carburanti fossili. Gli uni e le altre son in Italia interessati ai processi geodinamici e fisiochimici che, da alcune centinaia di milioni di anni, si susseguono lungo la linea di contatto che, passando per l'Adriatico, accomuna le due grandi zolle continentali della crosta terrestre: l'Africana e l'Euro-asiatica. Circa i fenomeni geodinamici Renato Funiciello, docente di geologia a Roma, spiega, in un colloquio con Franco Foresta Martin: "... Lungo uno dei fronti di contatto tra la placca africana e l'euroasiatica, in corrispondenza della Sicilia e della Calabria, quella africana, più vecchia e più densa, affonda e scorre sotto l'euroasiatica, a seguito di questo scontro la penisola italiana compie un movimento antiorario, il Mar Tirreno tende al allargarsi e l'Adriatico a chiudersi... Se potessimo sezionare la Penisola all'altezza delle zone terremotate umbro-marchigiane vedremmo la placca adriatica affondare fino a circa 200 chilometri e l'Appennino aprirsi a ventaglio sopra di essa...". Detto affondamento, chiamato dai geologi subsidenza, avviene sia per le citate cause naturali sia a causa dell'attività umana, e si parla allora di subsidenza antropica, caratterizzata da dimensioni incomparabilmente minori. In questo caso il fenomeno è causato dallo svuotamento delle grandi sacche di carburanti fossili dislocate in punti non protetti da copertura rocciosa. Una di queste è la zona adriatica dove, come ci ricorda Quintino Protopapa su "Scienze", si sono verificati estesi sprofondamenti, anche di tre metri, in vari punti del delta padano dopo lo svuotamento di sacche metanifere. La scoperta di una riserva di carburante fossile di eccezionali dimensioni sotto i fondali dell'Adriatico settentrionale ha riportato d'attualità il problema della subsidenza antropica. Detta riserva, costituita principalmente da una enorme sacca di gas naturale raggiungendo i 30 miliardi di metri cubi ed estendendosi tra il delta padano e Chioggia, è in grado di dare un determinante contributo all'alleggerimento del gravoso deficit energetico italiano, per oltre una ventina d'anni. Il relativo progetto di estrazione è stato approntato nei minimi particolari dall'Agip da oltre un decennio, prevedendo tra l'altro la perforazione di un'ottantina di pozzi. Ma l'inizio della produzione è stato via via rimandato a causa della tenace opposizione degli ambientalisti che temono il verificarsi di uno spostamento del suolo di dimensioni molto maggiori di quelle raggiunte dalle prime, lontane estrazioni di metano. Il pericolo di subsidenza viene temuto non solo per Venezia e Chioggia ma anche per l'intercorrente fascia costiera. A sventare il paventato pericolo ha provveduto l'Agip assicurando il continuo controllo altimetrico della zone con sofisticate apparecchiature elettroniche installate sia sul suolo sia a bordo di satelliti. Per di più è stato realizzato un sistema di retroazione automatica per riempire via via i vuoti prodotti dall'estrazione del gas. Sono state a tal fine costruite due grandi stazioni galleggianti di pompaggio per l'immissione di acqua desalata che mantiene costante la pressione interna della sacca. Non esiste quindi alcun ragionevole timore che possa portarci alla rinuncia di questa grande riserva di energia di cui il nostro Paese ha tanto bisogno. Mauro Furesi


SCIENZE DELLA VITA. CHIERI Un museo etnografico sul Burkina-Faso
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, CHIERI (TO)

UN museo etnografico sui Burkinabè, con 104 pezzi d'arte, realizzati nell'ex Alto Volta, è stato inaugurato a Chieri (Torino) presso la Comunità Sacra Famiglia. Sono esposti oggetti, maschere, arnesi da lavoro delle popolazioni del Burkina Faso: Mossi, Lobi, Peul, Gurunsi, Dogon e Bambara. Il Burkina Faso, uno dei Paesi più ricchi di storia dell'Africa Occidentale, più poveri dal punto di vista del reddito, è una suggestiva nazione priva di sbocchi sul mare, incuneata nell'ansa del fiume Niger. A Nord l'arido Sahel, a Sud i principali fiumi Mohoun, Nazinon e Makambè portano la vita nella regione inaridita ed offrono ai turisti la possibilità di esplorare i parchi e le riserve. Il Burkina è la terra del leggendario "Regno Mossi", con un patrimonio storico ancora da esplorare. Tra i reperti spiccano le lavorazioni dei Mossi. In particolare una statua di legno raffigurante una donna che forse rappresenta la "dea della terra": viso allungato con occhi sporgenti. Poi il feticcio, anzi il "palo": come viene comunemente definito dai Mossi. Numerose le maschere: le dimensioni vanno dai 90 centimetri al metro e mezzo, alcune colorate, altre austere, altre ancora rituali per rappresentazioni e danze. "Gli oggetti - afferma Cecilia Pennaccini, membro del Comitato Scientifico del Centro Piemontese di Studi Africani - sono veicoli di comunicazione tra le culture: le differenze e le sovrapposizioni tra gli stili e le forme, i soggetti rappresentati dalle differenti società Burkinabè, offrono uno spaccato esemplare della caratteristica situazione di contatto e scambio interetnico, in cui la realtà africana continua a forgiarsi e riforgiarsi, sin dall'epoca che precede di gran lunga quella coloniale". Ornamenti e collane di varie espressioni artistiche, tipiche delle culture illetterate, sono in oro, argento, leghe di metalli, avorio, ossa, legno, fibre vegetali, pelli, piume, pietre dure, ambra, perline colorate di minerali, smalti, maioliche, terrecotte e conchiglie. "A ogni materiale - spiega il curatore Luigi Minetti - è spesso associato un riferimento simbolico legato alla tradizione che discende da un mito cosmogonico e rappresenta il credo socio-famigliare e religioso di chi ha creato l'oggetto". Il museo è aperto nei fine settimana dalle 9 alle 12 e dalle 15 alle 18. L'indirizzo è: Villa Brea, strada per Pecetto, 14 - Chieri. Pia Bassi


SCIENZE FISICHE. MORTO A 74 ANNI Ricordando Shepard Fu il primo americano nello spazio
AUTORE: LO CAMPO ANTONIO
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA, MORTE
PERSONE: SHEPARD ALAN
NOMI: SHEPARD ALAN
ORGANIZZAZIONI: NASA
LUOGHI: ITALIA

ERA il mese di luglio del 1992, quando arrivò in redazione un pacco da Houston. La calligrafia dell'intestazione era inconfondibile: quella di Alan B. Shepard, il primo eroe spaziale americano e uno dei pochissimi a mettere piede sulla Luna. Sulla busta indirizzo e mittente erano scritti di suo pugno: quindi in pratica era come avere un altro suo autografo. Ormai la "fan mail" non era più quella dei tempi eroici dello spazio e di quando lui e gli altri eroi erano molto popolari, "Perciò - disse una volta - è inutile far lavorare, e soprattutto pagare una segretaria per queste cose". Il pacco, piuttosto pesante rispetto alla solita busta postale, giunse via mare, dopo quattro mesi, da Houston: "Spedirlo per posta aerea costa", scrisse Shepard, che non a caso ai suoi anni di gloria spaziale, aveva affiancato una florida e fortunata attività di uomo d'affari in Texas. Shepard ci aveva rimandato indietro le copie di alcuni giornali con nostri articoli che lo riguardavano, tutti autografati con uno spesso pennarello nero. Ne mancava uno: l'inserto "Tuttoscienze" del 1o aprile 1992, con un articolo sulla sua nuova attività di promotore e divulgatore di iniziative, per far conoscere ai giovani l'astronautica di passato, presente e futuro, e una società che distribuisce ai giovani borse di studio, sempre nel settore aerospaziale. Ottenere autografi e risposte da Shepard, ci hanno sempre confermato dagli Stati Uniti, era raro, eppure Al in quell'occasione fu colpito dal montaggio pubblicato al fianco dell'articolo, con i disegni affiancati dei due razzi che lo avevano portato nello spazio: il Redstone, alto nella realtà 32 metri, che lo aveva lanciato nel 1961, primo americano nello spazio, e il gigantesco Saturno 5, alto 110 metri e cento volte più potente, che lo aveva sparato verso la Luna dieci anni dopo. "Mi sono tenuto la copia di Tuttoscienze - scrisse Shepard - e sto preparando dei poster da affiggere in occasione di una mia conferenza a Titusville, e pensavo proprio all'abbinamento dei miei due razzi vettori. Al grafico darò la copia di Tuttoscienze per la riproduzione". Insomma, anche noi possiamo vantarci di aver fatto parte in qualche modo della incredibile storia di Shepard, che una leucemia ha stroncato a 74 anni, lo scorso 22 luglio in California, dove il pioniere dello spazio abitava da otto anni dopo essersi trasferito da Houston. Personaggio particolare, non amato da tutti perché definito lunatico e un po' rompiscatole, in realtà seguiva le orme dell'educazione del padre, che era stato ufficiale nell'Esercito, e poi le rigide regole della Marina militare americana, della quale era stato per anni uno dei migliori piloti collaudatori. La notizia della sua morte ha fatto scrivere nei giorni scorsi un po' di tutto, ma non sempre in modo corretto. Vediamo alcune precisazioni: il missile Redstone, che lo lanciò in traiettoria suborbitale nel 1961 è diventato l'Atlas, un vettore completamente differente. L'anno della sua missione sulla Luna con Apollo 14 è diventato il 1972 anziché il 1971, qualcuno ha scritto che lascia due figli maschi anziché le femmine Laura e Juliana, e che la malattia che lo costrinse a restare a terra per sei anni era " labirintite", mentre in realtà era la "Sindrome di Meniere", che è qualcosa di ben peggio. A Shepard, il dottor House, nel 1968 disse: "O la va o la spacca", cioè se l'operazione riesce lei va nello spazio, altrimenti perde l'udito per sempre". Shepard rischiò, come fece nel 1961 sul pericoloso Red-stone, e ne uscì ancora vincitore: gli venne impiantato un tubicino spesso dieci volte più di un capello nell'orecchio interno, e dopo qualche settima-na, con un cerottone dietro l'orecchio, si presentò per la prima volta nell'aula dove si tenevano le lezioni per gli astronauti del programma lunare Apollo. La sua storia verrà racccontata nella nona puntata della serie "Dalla Terra alla Luna", in onda il 13 agosto, e in replica il 15, su Telepiù. Titolo della puntata è " Per miglia e miglia", ciò che Shepard esclamò dopo aver lanciato a 300 metri di distanza la famosa pallina da golf sulla superficie selenica. Una delle critiche che gli venivano rivolte (in realtà un pregio), riguardava la pignoleria e la non facile accettazione di errori grossolani. Questa volta Alan non potrà rileggere " Tuttoscienze", ma siamo convinti che da lassù avrà apprezzato le nostre postille riguardanti i dati della sua vita davvero straordinaria. Antonio Lo Campo


IN BREVE Ue: aumenta consumo di benzina verde
ARGOMENTI: ENERGIA
ORGANIZZAZIONI: UE UNIONE EUROPEA
LUOGHI: ITALIA

Aumenta in Europa l'uso della benzina senza piombo. Secondo l'Ufficio di statistica europeo "Eurostat" il 76% della benzina usata oggi sulle strade dell'Ue è verde. L'obiettivo per i Paesi dell'Ue è di giungere nel 2000 ad eliminare completamente la benzina con piombo. In alcuni Paesi è già una realtà: la benzina con piombo è infatti già scomparsa in Austria, Danimarca, Finlandia, Olanda e Svezia ed è in via di estinzione in Germania. In Belgio, Irlanda e Lussemburgo le percentuali di consumo di benzina con piombo vanno tra il 19 e il 10%. Di conseguenza in questi Paesi le emissioni di piombo sono a quota zero o a livelli molto vicini allo zero. Resta invece ancora parecchia strada da fare, rileva Eurostat, in Gran Bretagna, Francia, Italia, Portogallo, Grecia e Spagna dove le percentuali di utilizzazione della benzina verde sono inferiori alla media Ue. In Italia solo il 54% della benzina usata è verde. Ma le emissioni di piombo sono in calo. Aumenta invece nell'Ue l'emissione di C02 dovuta ai gas di scarico. Per il 1998 si prevede un aumento dell'11% rispetto al 1990; solo la Finlandia è in calo (-3%). In Italia l'aumento resterà sotto il 10%.


SCIENZE DELLA VITA. IL PROGETTO AZOLLA Una felce in aiuto delle risaie Incrementa la crescita e il rendimento del riso
Autore: BONOTTO SILVANO

ARGOMENTI: BOTANICA, ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

L'Azolla è una piccola felce acquatica galleggiante, che spesso ricopre di un manto verde l'intera superficie di bacini e anche corsi d'acqua a decorso lento, soprattutto nei Paesi tropicali. Le specie finora raccolte e domesticate in laboratorio hanno i colori più svariati, che vanno dal verde prato al rosso fulvo. All'orto botanico dell'Università di Pisa viene conservata una specie raccolta in Italia in fonti termali di origine vulcanica. In questa felce la moltiplicazione per via vegetativa è quella più frequentemente osservata. La riproduzione per via sessuata, che avviene con formazione di spore negli sporocarpi, è ancora poco conosciuta e attualmente fa l'oggetto di ricerche sperimentali in condizioni controllate. L'Azolla ha una lunga storia. In Cina, in Giappone ed in altri Paesi del continente asiatico, essa è stata utilizzata da quando fu sviluppata la coltura del riso. I primi risicoltori avevano, infatti, osservato empiricamente, senza comprenderne il motivo, che la presenza di questa piccola felce flottante tra le piantine di riso ne incrementava la crescita e il rendimento produttivo. Ora sappiamo il perché. L'Azolla vive in simbiosi con il cianobatterio, chiamato Anabaena azollae, il quale è capace di fissare l'azoto presente allo stato gassoso (N2) in grande quantità nell'aria (circa l'80%) sotto forma di ammoniaca (NH3), per via enzimatica mediante l'azione della nitrogenasi. Questo enzima non è contenuto in tutte le cellule del cianobatterio, che sono distribuite in catenelle, ma soltanto in alcune (circa il 30%) più grandi chiamate eterocisti, nelle quali la nitrogenasi stessa viene protetta da una concentrazione troppo elevata di ossigeno, che risulterebbe inibitrice. Le eterocisti sono, inoltre, sprovviste del fotosistema produttore di ossigeno. Parte dell'azoto fissato dall'Azolla viene assorbito dalle radici delle piante di riso, che l'utilizzano per il proprio sviluppo. Fino al secolo scorso, i contadini conficcavano nel terreno l'Azolla con i propri piedi, passando ripetutamente tra le piante di riso disposte in fila. Ora vengono usati sempre più mezzi meccanici, quali piccoli trattori progettati apposivamente per il lavoro in risaia. E' stato osservato che la biomassa prodotta dall'Azolla nelle risaie può oscillare da 15 a 50 tonnellate per ettaro, ciò che corrisponde a 30-100 kg di azoto fissato. L'impiego dell'Azolla quindi non soltanto è utile per far aumentare la quantità di riso prodotto, ma permette anche notevoli risparmi evitando l'uso di fertilizzanti azotati chimici, che tra l'altro molti Paesi in via di sviluppo non potrebbero procurarsi a causa del loro relativo alto costo. Recentemente è stato organizzato un programma internazionale per l'utilizzazione dell'Azolla in agricoltura, chiamato "Progetto Azolla", di cui l'animatore principale è il professor C. Van Hove dell'università belga di Louvain-La-Neuve. Vengono utilizzate le specie Azolla caroliniana, Azolla fili culoides ed altre. Nell'ambito di tale programma, l'Azolla è stata introdotta nel continente africano per lo sviluppo della risicoltura, dando soddisfacenti risultati nel Senegal. La sperimentazione ha mostrato che la biomassa prodotta dall'Azol la può essere utilizzata con successo anche in mangimistica per l'allevamento di vari animali, in particolar modo anatre e suini. Inoltre è stata incrementata l'introduzione di pesci (Carpa, Tilapias) nelle risaie, dando origine al sistema integrato Riso- Azolla-Pesce. Anche in alcune risaie padane sono stati introdotti i pesci (carpe e tinche). In questo modo si ottiene non solo il riso ma anche il pesce, due prodotti basilari dell'alimentazione umana in molte regioni. Infine è da far notare che le risaie costituiscono un ecosistema particolare, nel quale si sviluppano insieme vegetali ed animali. Accanto al riso e all'Azolla, troviamo numerose specie di microalghe, insetti vari, molluschi ed altre specie di animaletti, dei quali i pesci si nutrono. In Giappone, all'Università di Tokyo, mi è stato mostrato un pesciolino che vive nelle risaie e che i giapponesi chiamano Medaka. Il ceppo selvatico è di colore nero, ma sono stati ottenuti numerosi mutanti, il cui colore va dal giallognolo all'arancione, i quali si sono rivelati molto utili nel campo della ricerca sperimentale. Nelle risaie sono ovviamente osservabili i vari anelli della catena trofica, che va dai produttori primari, ai consumatori primari, ivi compresi alcuni erbivori, ai predatori. Chi attraversa la zona delle nostre risaie può vedere numerosi eleganti aironi ma anche altre specie di uccelli che vi trovano abbondante nutrimento. La risaia, in questo senso, svolge anche un importante ruolo ecologico. Silvano Bonotto Università di Torino


L'INCENDIO DI YELLOWSTONE Dieci anni dopo il Big Fire Fu il più grande rogo di foreste in Usa
Autore: SCAGLIOLA DAVIDE

ARGOMENTI: ECOLOGIA, BOTANICA, INCENDI
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, MONTANA, YELLOWSTONE
TABELLE: C.

L'ESTATE del 1988 fu la più secca degli ultimi 112 anni. Nella zona delle Rocky Mountains e dei Greater Plains settentrionali degli Stati Uniti, non piovve per cento giorni di seguito, da giugno a fine settembre. Tra le foreste del parco nazionale di Yellowstone e dell'adiacente Stato del Montana soffiarono venti a 80 miglia all'ora. In pochi giorni a partire dal 14 giugno scoppia uno dei più grandi incendi mai verificatosi in Nord America dal 1600 ad oggi. Quest'anno, esattamente 10 anni dopo, mentre sia in America che in Europa si combatte nuovamente con i fuochi estivi, a Yellowstone si tirano i primi bilanci del Big Fire. A quanto pare tutti positivi. I primi fuochi cominciarono nell'area di Absaroka-Beartooth Wilderness, vicino allo Yellow stone Lake e furono causati dai fulmini e dalla siccità. Il primo rogo battezzato Storm Creek Fire in pochi giorni polverizza 95 mila ettari di bosco. In base al piano di controllo degli incendi deciso nel 1972 (il Wildland Fire Management Plan) che delegava ai Park Ranger la decisione di intervenire o meno nel caso di fuochi naturali, gli esperti monitorarono le prime combustioni lasciandole bruciare liberamente. Pensavano che si sarebbero estinte (come le precedenti) nel giro di pochi giorni e con pochi danni. Tutt'al più ci sarebbe stato un ringiovanimento della foresta. Era già successo. Ma ben presto altri fronti caldi s'accesero in tutta la zona. La mancanza di precipitazioni, la straordinaria presenza di forti venti e alcune altre coincidenze sfavorevoli (un incendio, il North Fork Fire, venne accidentalmente causato da alcuni taglialegna che lavoravano nella Foresta di Targhee), fecero sì che le fiamme si propagassero velocemente per tutto il parco. Il Clover Mist Fire, l'Huck Fire, l'Hell roaring Fire, il Lava Fire, il Mink Fire e un'altra mezza dozzina di focolai, si aggiunsero ai primi due cominciando a preoccupare seriamente ranger e opinione pubblica. Dall'istituzione del Wildlife Fire Plan 16 anni prima, appena 34 mila acri di boschi protetti erano andati bruciati. Nel 1988, in un solo giorno a Yellowstone andarono in fumo ben 160 mila acri di verde, ben 5 volte tanto. Ormai divenne chiaro che tutta l'area era fuori controllo. Le zone di Mammoth Spring, Old Faithful, Madyson, Canyon, Norris, West Yellowstone e Tower Roosevelt dovettero essere evacuate. In molti casi la strategia di spegnimento poteva risultare confusa a osservatori esterni. In realtà la drammatica decisione di lasciar estinguere alcuni fronti naturalmente e concentrarsi sulla salvaguardia delle strutture del parco (alberghi, magazzini e stazioni d'osservazione) fu dettata dall'impossibilità oggettiva di soffocare le fiamme. Evitare gli sforzi inutili, fu il verdetto. Quasi 800 mila acri di foresta (un acro = 4046,85 metri quadrati) subirono danni causati dal fuoco, ma i rimanenti 2 milioni e duecentomila che componevano il parco rimasero pressoché inattaccati. Meno dell'un per cento del totale fu bruciato così gravemente da sterilizzare il terreno. Il 35 per cento delle foreste risultò essere danneggiato all'interno di Yellowstone, ma molti alberi vennero solo parzialmente bruciati. Nessun hotel, campeggio o centro visitatori fu colpito dalle fiamme. La direzione del parco riuscì addirittura a tener aperte ai visitatori alcune aree della riserva. Delle 93 mila alci censite solo 367 rimasero uccise insieme a 36 cervi, 6 orsi e 9 bisonti. Nessun dato venne raccolto per uccelli e insetti. Le perdite umane consistettero in un impiegato dell'amministrazione morto a causa della caduta di un albero nella foresta di Shoshone e di tre persone uccise in due diversi incidenti d'elicottero negli Stati del Wyoming e Washington. Tutto sommato venne giudicato un bilancio accettabile viste le dimensioni dell'evento. Gli ultimi fuochi furono spenti alla fine di settembre e le ultime tracce di fumo vennero cancellate dalle prime piogge e nevicate di ottobre. Il governo statunitense spese circa 120 milioni di dollari per domare e circoscrivere gli incendi utilizzando 25 mila pompieri, 77 elicotteri e 12 aerei cisterna. Un paio di miliardi di lire al giorno, più o meno. A un certo punto venne chiesto aiuto persino alla Nasa che concesse l'uso di satelliti e apparecchi di monitoraggio ad alta quota (una versione migliorata degli aerei spia U-2) per fotografare l'intera area. Vennero ripuntati gli scanner del satellite Landsat 4 e parecchie missioni di aerei Er-2 e C-130B vennero compiute per mappare agli infrarossi i boschi del parco. Vennero rovesciati 7 milioni di litri di liquido termo ritardante e 10 milioni di galloni d'acqua. In Italia di questi tempi non si riescono a trovare nemmeno sufficienti piloti per i Canadair. Figuriamoci. Cheryl Matthews, attuale vice capo delle relazioni pubbliche di Yellowstone, era una ranger alle prime armi quando suonarono gli allarmi. "Ero a Mammoth Hot Springs quel giorno - racconta - "Ci avvertirono di cominciare l'evacuazione della zona perché i fuochi erano ormai fuori controllo. Non ci furono mai scene di panico e noi seguimmo alla lettera le istruzioni via radio. Yellowstone è un'area geologicamente giovane, più o meno ha 600 mila anni. Metà dei geyser del mondo si trovano tra queste montagne. Eravamo abituati alle emergenze. Quando venimmo a conoscenza degli incendi non ci preoccupammo più di tanto. La nostra politica a riguardo era chiara per tutti: lasciar fare alla natura. Subito però ci attirammo le critiche di mezzo mondo. Ci accusarono di non contrastare tempestivamente i fuochi mandando in malora un patrimonio preziosissimo. Ma studi e statistiche seguenti ci hanno dato ragione. Yellowstone, come altri parchi molto grandi e vecchi, aveva bisogno di questi fuochi, e noi non avevamo il diritto, tantomeno la possibilità fisica, di intrometterci". Cheryl spiega ancora che nemmeno gli effetti dell'incendio furono mai cancellati. " Lasciammo tronchi bruciati, alberi abbattuti e prati carbonizzati esattamente come il fuoco li aveva ridotti. E' la nostra filosofia. Molti fusti morti sono diventati nuove case per formiche e insetti. Di conseguenza abbiamo notato anche un notevole aumento nel numero degli uccelli. Nuovi fiori e piante sono cresciuti sulle ceneri tra le radici dei pini che nonostante le fiamme non sono morte. Persino le carcasse dei pochi animali deceduti non sono state rimosse. Sono servite a nutrire aquile, orsi, coyote e altri carnivori, in un ciclo biologico normalissimo". Oggi il controllo sui fuochi è aumentato (Yellowstone dispone di 400 ranger permanenti che diventano 800 in estate a fronte di quasi tre milioni di visitatori l'anno), ma l'intervento è sempre molto limitato. "Noi lasciamo bruciare i piccoli incendi che si sviluppano naturalmente - continua Cheryl - Li controlliamo, seguiamo le condizioni del terreno, la densità della foresta, la direzione del vento, ma interveniamo solo in caso di fuochi dolosi o di roghi su aree troppo danneggiate". E anche se arrivare nel parco oggi lascia un poco sconcertati, a guardare bene si capisce cosa voglia dire rinascita e rinnovamento. Vastissimi tratti di foresta sono ancora inceneriti e migliaia di alberi grigi macchiano le aree verdi come cicatrici insanabili. Ma nel giro di 30/40 anni sarà tornato tutto come prima. Anzi meglio. I primi pini per esempio, nati tra le ceneri di 10 anni fa, hanno superato i due metri di altezza, rinverdendo il sottobosco. Non c'è stata nessuna riforestazione artificiale, ma il fuoco stesso paradossalmente ha aiutato a riseminare le aree che ha distrutto. Un pino adulto produce infatti due specie di pigne, una aperta e l'altra serotina. Se la pigna aperta sparge i semi appena raggiunta la maturazione, la serotina è sigillata dalle resine e necessita di una temperatura che sfiora i 113 gradi per l'apertura. Un incendio quindi non solo aiuta la schiusa delle pigne ma arricchisce il suolo fertilizzandolo con ceneri e residui vegetali. Spazio ad una nuova generazione quindi. Yellowstone è un grande laboratorio naturale che conserva 10 mila fornaci attive sotto la foresta e continua a cambiare aspetto ogni stagione. In fondo un incendio, per quanto grave, è solo una parte del processo di sperimentazione evolutiva. Davide Scagliola


SCIENZE DELLA VITA. EMICRANIA E CEFALEA Ultime notizie sul mal di testa Legami con epilessia e disturbi dell'umore
Autore: PINESSI LORENZO

LUOGHI: ITALIA

I medici che si occupano di cefalea sono spesso alle prese con una patologia non ancora adeguatamente studiata e di difficile trattamento: la cefalea cronica quotidiana (Chronic daily headache - Cdh). I pazienti manifestano crisi cefalalgiche estremamente frequenti (per definizione più di 180 giorni all'anno), quasi sempre abusano di analgesici e hanno una qualità di vita (studio, lavoro, attività sociali e di svago) compromessa dalla cefalea. L'American Academy for the Study of Headache ha dedicato il suo 40o congresso (San Francisco, 26-28 giugno 1998) proprio a questa tematica, discutendone gli aspetti neurobiologici e le prospettive terapeutiche. La cefalea cronica quotidiana colpisce circa il 4% della popolazione (in Piemonte circa 200.000 persone). In rari casi può iniziare come patologia autonoma ma è, spesso, la conseguenza di una lunga storia di emicrania (emicrania trasformata o trasformed migraine) o di una cefalea tensiva cronica. Il caso tipico è quello di una paziente con familiarità per emicrania, una storia clinica tipica per frequenti crisi emicraniche (con e senza aura), che presenta un costante aumento delle crisi tanto da abusare di analgesici sino a che la cefalea diventa quotidiana e non risponde più ai farmaci. I fattori che favoriscono la trasformazione dell'emicrania sono molteplici: i traumi cranici, gli stress emotivi, gli interventi chirurgici e, soprattutto, l'abuso dei farmaci. La neurobiologia delle cefalee croniche ha ricevuto, ad oggi, scarso interesse scientifico. Recentemente, sono state dimostrate numerose analogie patogenetiche tra l'emicrania, l'epilessia ed i disturbi dell'umore, analogie che possono spiegare il fenomeno della cronicizzazione di queste malattie. Queste malattie, pur se individualmente ben distinte, presentano una elevata comorbilità, sono cioè spesso presenti nello stesso paziente. Gli studi di biologia molecolare hanno dimostrato sia nell'emicrania che nell'epilessia mutazioni nei geni che codificano per specifici canali ionici di membrana spiegando, pertanto, la presenza di una " soglia" critica per la comparsa della crisi. Al congresso di San Francisco alcuni ricercatori hanno dimostrato che il fenomeno del " kindling" è un modello interpretativo sia per l'epilessia che per l'emicrania cronicizzata. Il termine kindling, di difficile traduzione in italiano, significa alla lettera la raccolta di piccoli rami e di foglie secche per poter accendere un fuoco. In neurofisiologia tale termine viene utilizzato per indicare il progressivo aumento della sensibilità dei neuroni conseguente alla ripetuta stimolazione di una piccola regione cerebrale. Concretamente, il ratto di laboratorio viene sottoposto alla stimolazione di nuclei cerebrali, quali l'amigdala o l'ippocampo, con correnti elettriche di basso voltaggio, tali cioè da non indurre crisi epilettiche. Dopo un adeguato periodo di tempo si verifica una modificazione delle caratteristiche biochimiche ed elettrofisiologiche del cervello tanto che l'animale presenta delle crisi epilettiche spontanee. La biologia molecolare ha dimostrato che il kindling è correlato all'attivazione di numerosi geni, sia ad effetto precoce che tardivo. Tra questi vi sono i geni che codificano per la sintesi di alcuni neuropeptidi quali il corticotropin releasing hormone (Crh), il tireotropin releasing hormone (Trh), il brain derived neurotrophic factor (Bndf) ma, soprattutto, i geni che codificano per i recettori del Gaba e dell'acido glutammico. L'acido glutammico è un neurotrasmettitore di particolare importanza nella trasmissione del dolore ed una alterazione dei sistemi cerebrali che modulano la soglia per il dolore spiega la trasformazione dell'emicrania da una condizione con crisi più o meno periodiche ad uno stato di dolore continuo. Le analogie tra i meccanismi patogenetici delle due malattie ha indotto diversi ricercatori a valutare gli effetti di alcuni farmaci antiepilettici nella profilassi dell'emicrania. L'acido valproico, uno dei farmaci maggiormente utilizzati nell'epilessia, è risultato particolarmente efficace nel prevenire le crisi emicraniche. Risultati preliminari provenienti dalla sperimentazione dei farmaci antiepilettici più recenti sono analogamente interessanti. L'emicrania è una malattia che presenta costi sociali enormi. Un gruppo di ricercatori statunitensi ha messo a punto un particolare indice di "disabilità lavorativa" e ha calcolato che ogni paziente cefalalgico non ben curato costa al sistema economico, nell'arco della sua vita, 100.000 dollari. Un trattamento adeguato della malattia permette una significativa riduzione di tali costi. La convinzione degli specialisti del settore è che si debba adottare nei confronti della cefalea cronica quotidiana un atteggiamento terapeutico più aggressivo e che, nei casi di particolare necessità, sia necessario fare ricorso anche al ricovero ospedaliero, spesso in regime di day hospital, per una terapia disintossicante. Lorenzo Pinessi Direttore Centro Cefalee Università di Torino


IL PARCO IN CIFRE
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, MONTANA, YELLOWSTONE

IL parco di Yellowsone, istituito nel 1872, fu la prima riserva naturale protetta al mondo. Comprende un'area di 2,2 milioni di acri composta per l'80 per cento da foreste, per il 15 per cento di praterie e per il 5 da laghi e fiumi. Il parco si estende per la maggior parte nello Stato del Wyoming, ma alcune porzioni toccano il Montana e l'Idaho. L'area ospita 12 differenti tipi di alberi, 80 generi di fiori e piante selvatiche, 58 razze di mammiferi e 290 specie di uccelli. Duemila chilometri di sentieri segnati portano a 110 cascate, laghi, geyser e a circa 10 mila sorgenti termali. Il geyser più famoso è l'Old Faithful (il vecchio fedele). Spruzza un getto di acqua bollente e vapore da 120 anni con cicli regolari di circa 79 minuti.


IN BREVE Selezionati due nuovi astronauti italiani
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: VITTORI ROBERTO, NESPOLI ANGELO
LUOGHI: ITALIA

Roberto Vittori, pilota collaudatore, maggiore dell'Aeronautica Militare, esperto di sicurezza e con un debole per l'astrofisica, nato a Viterbo 34 anni fa, sposato e due figli. Angelo Nespoli, ingegnere aerospaziale, ma anche paracadutista, incursore, esperto di esplosivi, con un anno e mezzo di Libano, alto 1,88, nato a Milano 41 anni fa, celibe. Sono i nuovi candidati astronauti italiani che col "veterano" Umberto Guidoni sono entrati a far parte del corpo astronauti europei. I due seguiranno a Houston un addestramento di un anno, e saranno i nostri uomini sulla prossima Stazione Spaziale Internazionale (che sarà operativa nel 2004), sopravvissuti di una selezione con 452 candidati italiani e di un gruppo finale di 12 (fra cui tre donne). Vittori e Nespoli sono stati presentati a Roma dal presidente dell'Agenzia spaziale italiana (Asi), Sergio De Julio, e dal direttore generale dell'Agenzia spaziale europea (Esa), Antonio Rodotà. Formare un astronauta costa all'Italia circa un miliardo all'anno, per due anni.


MENTRE IN ITALIA
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, MONTANA, YELLOWSTONE

NESSUN paragone è possibile tra gli incendi di Yellowstone e i roghi di casa nostra. In Usa la regione del parco è quasi del tutto disabitata, in Italia i roghi di boschi minacciano sovente luoghi antropizzati. Al di là di questo le cifre italiane sono impressionanti: secondo un recente rapporto di Legambiente in cinque anni, dal '93 al '97, è bruciata una superficie grande come la Liguria, ossia 540 mila ettari di bosco, con una spesa media per lo spegnimento, danni a parte, di mille miliardi all'anno. Le regioni più colpite, Sardegna, Calabria e Sicilia. Secondo la Forestale il 95 per cento degi incendi è di origine dolosa. Piromani identificati, denunciati, arrestati: quasi nessuno.


VECCHI ALBERI
LUOGHI: ESTERO, AMERICA, USA, MONTANA, YELLOWSTONE

I fuochi sono considerati da biologi e naturalisti come eventi naturali necessari. Spesso indispensabili all'ecosistema come la neve, la pioggia o le eruzioni vulcaniche. Una delle argomentazioni principali a favore del libero sfogo dei piccoli incendi consiste nella indispensabile diversificazione dell'età della foresta. Intervenire per soffocare piccoli roghi in aree verdi molto ampie non permette ai cicli biologici di modificarsi, portando a maturità tutta la foresta contemporaneamente. Avere una quantità di alberi tutti molto vecchi, carichi di rami e foglie, con un sottobosco rigoglioso, porterebbe, in caso d'incendio, all'impossibilità di controllare il fuoco che, alimentato da alberi secolari (più facili alla combustione) sarebbe impossibile da fermare. Questo è esattamente quello che successe a Yellowstone 10 anni fa. Un rapporto del 1987 denunciava che il 50 per cento dei 12 milioni di acri che formano la Greater Yellowstone Area aveva percentuali di infiammabilità che andavano da moderate a molto alte. Circa l'80 per cento delle foreste del parco erano composte da esemplari di pini ultracentenari. Potenziali torce che aspettavano solo di essere accese. Erano 400 anni che la foresta non subiva un attacco così radicale. Tonnellate di combustibile potenziale si era ammassato nel sottobosco. Era solo questione di tempo. Yellowstone era una bomba a orologeria. Se per i profani l'incendio fu una catastrofe immane, per madre natura fu un fenomeno positivo e improrogabile. (d. sc.)


SCIENZE DELLA VITA. GLI ANEMONI DI MARE Voraci fiori sottomarini I " petali" sono in realtà tentacoli velenosi
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

LA zona sottomarina costiera è la più ricca di vita. Animali delle più varie forme vi si affollano, strisciano, nuotano, si aggrappano alle rocce sommerse o si nascondono nella sabbia del fondo, stanno sospesi nell'acqua o vivono abbarbicati al suolo. E' un'orgia di colori e di immagini, è il mondo affascinante che si rivela al subacqueo quando s'immerge in un punto qualsiasi della costa, specie dove l'acqua è limpida. Qui fiorisce la fantastica fauna che emula la flora. Eccone i più tipici rappresentanti: gli anemoni di mare, stupendi "fiori" dalla ricca corolla policroma, che sbocciano qua e là sulla roccia sommersa. Ve ne sono di gialli e di rossi, di bianchi, di rosa e di arancione, che vivono isolati o in fittissime aiuole, animando con i loro meravigliosi colori la vivida tavolozza del paesaggio sottomarino. Hanno l'aria degli esseri più innocui del mondo. Ma l'apparenza inganna. In realtà sono animali tra i più voraci e aggressivi. Si ha l'impressione che sia il moto ondoso a far dondolare dolcemente nell'acqua la chioma di tentacoli che circonda la bocca. Ma è lui, l'animale, che volontariamente allarga i tentacoli in tutte le direzioni per estendere al massimo il raggio del suo territorio di caccia. Quella che a prima vista sembra una corolla di petali è in realtà un autentico arsenale di armi sofisticate con cui l'animale cattura, paralizza e uccide pesciolini, crostacei e molluschi di piccola taglia. Sono le stesse armi in dotazione agli altri Celenterati Cnidari (il "pylum" a cui appartengono anemoni di mare, meduse, coralli, madrepore). Le chiamano "cnidoblasti". Ciascuno cnidoblasto è un ovetto minuscolo (una singola cellula) che contiene una capsula, la "cnidocisti", piena fino all'orlo di liquido tossico. Al suo interno c'è un filamento cavo avvolto a spirale. Un peluzzo che sporge all'esterno fa da interruttore. Basta sfiorarlo perché in una frazione di secondo lo stimolo meccanico si trasmetta al filamento che scatta immediatamente iniettando nel disturbatore o nella preda il liquido velenoso. L'ago da iniezione serve una sola volta, come le nostre siringhe sterili, ma il tegumento dei tentacoli è una fabbrica che lavora a tempo pieno per sostituire le capsule esplose. L'anemone, così come la medusa, non rimane mai disarmato. Questi accaniti cacciatori sono anche fieri difensori del proprio territorio e si mostrano tutt'altro che teneri nei confronti dei concorrenti. Ci sono alcuni anemoni che, quando vengono a contatto con individui isolati o con colonie appartenenti ad altra specie, gonfiano a più non posso speciali vescicole a forma di sacco che stanno normalmente nascoste sotto i tentacoli. Sono gli "acroragi". Appena toccano un anemone estraneo, dagli acroragi si stacca la parte terminale che si incolla al corpo dell'antagonista. E siccome quella sorta di cappuccio è piena zeppa di cnidocisti velenose, viene iniettata in questo modo nei tessuti del vicino una dose massiccia di veleno. Quando gli anemoni forniti di acroragi si toccano, si può dire che vengano subito alle mani. Anzitutto ritirano i tentacoli per far posto agli acroragi, poi incominciano ad usarli contro l'avversario. A un certo punto però il perdente, che di solito è il più piccolo, pensa bene di desistere dal contrattacco, ritira tentacoli e acroragi e batte in ritirata. Questa espressione può suonare strana quando si parla di animali sedentari. In effetti però gli anemoni non sono completamente sedentari. Riescono a strisciare lungo le rocce e il suolo subacqueo, sia pure con movimenti lentissimi, impercettibili all'occhio umano. Tanto per darne un'idea, l'attinia equina, il comune "pomodoro di mare", percorre una quindicina di centimetri al giorno. Anche se non possiede un vero e proprio cervello, l'anemone di mare è in grado di riconoscere se l'individuo con cui viene a contatto appartiene al suo stesso ceppo genetico o a un ceppo diverso. Nel primo caso non reagisce. Nel secondo si risveglia il suo istinto battagliero. Di norma gli anemoni si riproducono asessualmente. Si dividono semplicemente in due parti. In certe specie gli anemoni figli si distaccano e restano isolati, in altre rimangono aggregati e, continuando a moltiplicarsi, formano colonie di numerosissimi individui. Solo una volta all'anno avviene di solito la riproduzione sessuale con emissione di uova e di spermatozoi. Così si comporta ad esempio la Anthopleura elegantissima, che forma grosse colonie, assai gelose del proprio territorio. Le zone "calde" sono quelle di confine tra colonie adiacenti. Carnivori voraci e difensori ad oltranza del proprio spazio vitale, dunque, gli anemoni. Ma anche, almeno in certi casi, madri tenerissime. Lo testimonia la ricerca della studiosa americana Daphne Fautin Dunn sulla Epiactis prolifera. Anche questa specie, tipica del Pacifico, si riproduce asessualmente. Ma ogni tanto ricorre alla riproduzione sessuale. In questo caso usa uno speciale trattamento di riguardo per i figlioletti. Nei primi stadi della vita adulta, tutti gli individui di questa specie sono di sesso femminile. Ma, continuando a crescere, diventano ermafroditi, fabbricano cioè elementi maschili ed elementi femminili che maturano però in epoca diversa. Quando una giovane femmina produce le uova (una cinquantina) penetrano nel suo corpo trasportati dal flusso dell'acqua gli spermatozoi di altri individui più maturi e quindi ermafroditi. Le uova fecondate, sputate fuori dalla bocca materna, non se ne vanno raminghe per il mare, ma si installano sul corpo della madre, in una culla sui generis, un solco circolare situato poco al di sopra del disco del piede (la parte che aderisce al suolo). Microscopici esseri fragili e delicati, rimangono allo scoperto quando la madre ritira la chioma dei tentacoli all'interno del corpo, ma di norma quei grossi petali carnosi formano una fitta cortina protettiva che nasconde i piccoli alla vista dei nemici. Solo dopo tre mesi, quando raggiungono i quattro millimetri di lunghezza, i figlioletti si staccano dal corpo materno e affrontano le insidie del mare. Isabella Lattes Coifmann


SCIENZE FISICHE. STELLE CADENTI Le lacrime di S. Lorenzo Particelle perse dalle comete
Autore: FERRERI WALTER

ARGOMENTI: ASTRONOMIA, FISICA
LUOGHI: ITALIA

OGNI anno, durante la notte di San Lorenzo (10 agosto), si vedono le stelle cadenti". Questa frase popolare è essenzialmente esatta, ma merita d'essere approfondita. Innanzi tutto, che cosa sono le stelle cadenti? Nell'antichità, quando si pensava alle stelle come a delle gemme incastonate sulla volta celeste, si credeva che fossero realmente delle stelle staccatesi dall'enorme sfera cristallina del cielo per precipitare sulla Terra. Solo quando ci si rese conto che le stelle sono Soli lontanissimi si capì che non era neppure pensabile un collegamento tra le stelle cadenti e quelle "fisse". La verità, cioè che esse sono causate da pietruzze che entrano nella nostra atmosfera, era dura da instillare: "Delle pietre che cadono sulla Terra dal cielo? E' assurdo pensare una cosa simile", era la risposta di molti dotti del 18o e 19o secolo. Ma, con l'accumularsi delle prove e col progredire delle conoscenze scientifiche, ci si rese conto che era proprio così. Verso la metà del secolo scorso si era ormai consolidata l'interpretazione corretta: le stelle cadenti sono pietruzze che incontrano la Terra e che, bruciando per attrito (detto in forma semplificata), si manifestano sotto forma di scie luminose. Ma da dove provengono e perché in certi periodi dell'anno, come tra il 10 e il 12 agosto, si assiste a "piogge" di questi oggetti? A questa domanda ha dato una risposta nel secolo scorso uno dei maggiori astronomi italiani: Giovanni Virginio Schiaparelli. Egli dimostrò che le maggiori manifestazioni di stelle cadenti si verificano quando la Terra, nel suo moto di rivoluzione attorno al Sole, attraversa l'orbita di una cometa. Esse sono dovute alle particelle perse dalle comete, soprattutto quelle disgregate. In particolare la pioggia che raggiunge il suo massimo l'11/12 agosto (e non il 10) è causata dalle particelle della cometa Swift-Tuttle 1862 III (così chiamata perché scoperta da questi osservatori e passata nel punto più vicino al Sole nel 1862, la terza dell'anno). Nell'ambiente scientifico le "lacrime di S. Lorenzo" sono più note come Perseidi, perché sembrano scaturire dalla costellazione di Perseo. Esse sono caratterizzate da tracce rapide e sottili e questo, oltre alla provenienza, ne consente il riconoscimento. In condizioni ideali se ne possono vedere fino a 150-200 l'ora, ma normalmente il numero è molto inferiore, circa una ogni due minuti. La loro visibilità è anche fortemente influenzata dall'ora e dalla presenza della Luna. Quest'anno, con la Luna che diventerà piena sabato 8 (in questa circostanza avrà luogo anche un'eclisse lunare di penombra; dalle ore 3,32 alle 15,18), le condizioni sono piuttosto sfavorevoli. Tra l'altro le notti migliori per l'osservazione di questo sciame sono quelle tra l'11-12 e il 12- 13. In entrambe queste notti una Luna calante quasi piena renderà lo spettacolo meno appariscente. Le ore in cui ne compaiono di più sono tipicamente quelle che precedono l'alba, ma quest'anno in quelle ore avremo anche una Luna alta sopra l'orizzonte. Quindi, tutto sommato, conviene cercarle verso le ore 23, quando il cielo è già ben buio ma la Luna ancora presso l'orizzonte o ancora sotto di esso. Queste circostanze fanno sì che in media non ci si possa attendere di vedere più di una meteora ogni 5 minuti. L'unica buona notizia è che negli ultimi anni lo sciame delle Perseidi ha prodotto una discreta percentuale di meteore molto brillanti, quindi ne vedremo poche ma alcune probabilmente molto brillanti. Dai calcoli emerge che il picco principale delle Perseidi si dovrebbe avere alle ore 17 del 12 agosto, quando in Italia è ancora giorno; noi saremo testimoni del secondo picco, quello che dovrebbe comparire verso l'una (purtroppo accompagnato dalla luce lunare). In ogni caso conviene recarsi in un luogo privo di illuminazione artificiale, possibilmente fuori dei centri abitati. Se le Perseidi quest'anno non saranno all'altezza della loro fama, dovrebbero esserlo invece le Leonidi, nelle ore che precederanno le albe del 17 e 18 novembre prossimo; addirittura in questa occasione se ne potrebbero scorgere anche diverse al secondo, sia pure per un breve tempo, ripetendo il grandioso spettacolo che manifestarono nel 1966. Walter Ferreri


SCIENZE DELLA VITA. DOLOMITI BELLUNESI Rischio zecche nel parco Il loro morso provoca la malattia di Lyme
Autore: CIMA CLAUDIO

ARGOMENTI: ECOLOGIA, ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

COME forse il lettore sa, le Dolomiti non sono tutte eguali: ad una fascia settentrionale con profili alpestri noti ai più, corrisponde una fascia meridionale, egualmente costituita da dolomia, poco nota al di fuori del Triveneto, molto estesa, poco frequentata e generalmente priva di impianti e stazioni turistiche di prestigio. Le altitudini sono minori, ma queste montagne spesso sono più difficilmente raggiungibili di un Sassolungo, di uno Sciliar, e del Sella, in quanto difese da altissimi barbacani rocciosi, fitti boschi e distese di pini mughi; sono monti isolati, mal descritti, ardui da percorrere perché i sentieri sono stati divorati dall'avanzata della vegetazione. Ma la bellezza dei siti rimane vieppiù esaltata da queste caratteristiche. Non a caso, da cinque anni a questa parte è operativo, in quel di Feltre (Belluno) l'Ente Parco delle Dolomiti Bellunesi che abbraccia una buona fascia di queste Dolomiti minori e non di maniera: sono 320 chilometri di terreno aspro ma, come vedremo, infestato da una specie che ne minaccia l'espansione e valorizzazione turistica e ambientale. Sono le zecche la spina nel fianco del Parco Nazionale. Come per tanti sintomi dell'Aids, prima che venissero ufficialmente riconosciuti, anche le punture delle zecche hanno sempre angariato chi, per lavoro e necessità, doveva frequentare questi monti: falciatori, boscaioli, pastori. Ma, fino all'insorgenza e riconoscimento ufficiale del primo morbo trasmesso da questi insetti (malattia di Lyme, prima segnalazione 1975, a Lyme, nel Massachussets), la gente sopportava e, se la malattia degenerava, soffriva e magari ci rimetteva la salute per motivi che i medici ascrivevano ad altre cause. In capo a poco più di vent'anni oggi ne sappiamo di più, molti articoli sono stati scritti (i bellunesi, ad esempio, ne sanno molto perché una rivista alpinistica locale ha ben affrontato l'argomento in questi anni), oggi sappiamo di molte altre affezioni causate dall'acaro: quindi, prima di illustrare il fenomeno, consigliamo il possibile visitatore delle Dolomiti Meridionali di scrivere all'Assl 2 di Feltre, via Bagnols-sur-Ceze 2 di richiedere il fascicoletto scritto da Domenico Grazioli sull'argomento: è una prima misura preventiva che raccomandiamo] Zecche, quindi: queste che descriviamo sono quelle che viaggiano e allignano al seguito degli ungulati (camosci, caprioli, cervi e, da queste parti, probabilmente anche i mufloni, introdotti disgraziatamente vent'anni fa). Ne consegue che ogni percorritore dei sentieri, ancorché segnalati e frequentemente percorsi, è a rischio. Non importa quanto ben coperto egli sia, le zecche raggiungeranno prima o poi la pelle. Se non fa un attento scrutinio dei suoi abiti in loco, a maggior ragione a casa, in occasione di una doccia, le zecche se le porterà anche in casa, o nell'auto. Le zecche sono ospiti anche di altre specie animali, come noto (cani, uccelli, roditori) e la loro proliferazione è aumentata più che geometricamente dato l'abbandono dei monti negli ultimi quarant'anni: quasi il 100 per cento delle specie alpine è portatrice del morbo di Lyme. Essa si attacca alla pelle mediante una boccuccia irta di dentini uncinati, che ne rendono difficile il distacco. Suggendo il sangue dell'ospite, la zecca introduce la prima malattia infettiva descritta (provocata da un germe, la Bor relia Burgdorferi). Sazia, si distaccherà da sola. Naturalmente l'escursionista che dispone di anticorpi sufficienti a combattere la malattia non avrà conseguenze: chi scrive appartiene alla felice minoranza di persone che sono indenni anche dalla sosta di zecche sui propri abiti: sangue repellente? Odore non grato? Di fatto, chi è morso da una zecca contrarrà la malattia di Lyme in tre stadi: 1) eritema (rigonfiamento attorno al morso); 2) dolori articolari (simili all'artrite) dopo varie settimane (nei casi più gravi già si avvertono paralisi agli arti colpiti); 3) disturbi articolari cronici, anche dopo mesi o anni. La diagnosi qui è semplice. Andare dal medico se si è stati morsi, e soprattutto se non si è riusciti ad estrarre del tutto la zecca dal suo alloggiamento nella cute: in sostanza si tratta di intervenire al primo stadio, a forza di antibiotici. Per l'estrazione del maligno ospite, molti raccomandano un batuffolo di cotone imbevuto di alcol o benzina, in modo da anestetizzare la zecca. Altri assicurano che un cubetto di ghiaccio allontana spontaneamente la zecca, mentre l'etere ucciderà l'animaletto. Chi tentasse laboriosamente di staccarlo con pinzette non riuscirà completamente nell'estirpazione. Qualcuno, notando come i cani infestati si rotolassero nello sterco di vacca per liberarsi dall'ospite sgradito, ha proposto rimedi in tal senso: ma per gli umani non paiono fattibili... Questi parassiti sono tanti e di tante varietà: quelle di cui discutiamo sono essenzialmente le Ixodes dammini, I. Pacificus, I Ricinus. Oltre al morbo di Lyme esse possono trasmettere anche altre patologie non completamente studiate (encefalite, meningoencefalite, tifo, addirittura la spirocheta, per non parlare della rickettiosi o della febbre "Q"). Ma, purtroppo, i guai non sono finiti: ed ecco che proprio nel 1995 nel Bellunese è stata identificata l'ultima malattia, la Tbe (Tick borne encephalitis, encefalite da morso di zecca). I lettori più attenti ricorderanno che una forma ben più letale di encefalite è quella della cosiddetta "mucca pazza" o morbo di Creuzfeldt-Jacobs. Questa nuova patologia, pare, colpirà solo il 30 per cento degli esseri umani (il 70 per cento se la caverà con un'infezione con scarsi sintomi): dopo 3-28 giorni si avvertiranno febbri, stanchezza, dolori muscolari e articolari per 2-4 giorni. Poi la temperatura dovrebbe calare e i dolori passare. Ma nel 10-30 per cento di questa fascia di pazienti colpiti tangibilmente dovrebbe iniziare una seconda fase più acuta, caratterizzata da disturbi del sistema nervoso centrale. L'esito mortale qui sarà dell'1 per cento. Grazioli afferma che le modalità di prevenzione sono le stesse, per la Tbe, del morbo di Lyme, vedi sopra. Esiste la possibilità di vaccinarsi con immunoglobine specifiche, ma il farmaco non è registrato, nè in commercio, in Italia: bisogna importarlo dalla Svizzera e Austria. Che fare? Il caso personale, vale a dire che il mio gruppo sanguigno non attragga più di tanto le zecche, non pare essere stato illustrato negli articoli da me consultati: probabilmente il medico o il più vicino Istituto Zooprofilattico potrebbero avanzare ipotesi sull'incompatibilità sanguigna nostra, e quindi sulla nostra sicurezza. Ma, da quanto si è visto in giro, le zecche attaccano tutti i miei compagni di gita. Considerarle un male necessario? Anche: del resto, se dovessimo pure avere paura delle zecche, senza contare i pericoli soggettivi e oggettivi dell'andare per monti, allora dovremmo restarcene in poltrona] Se si adotteranno le minime precauzioni, certamente le bellezze delle Dolomini Meridionali saranno alla nostra portata: oltre al corretto abbigliamento, segnaliamo solo che, purtroppo, effettuare gite nei gruppi delle Alpi Feltrine, dei famigerati Monti del Sole, della Schiara o di Belluno, nelle Prealpi Carniche, da marzo a ottobre non è consigliabile. Meglio farlo con il freddo: in tal caso l'escursionista godrà di stupende, ancorché brevi, giornate di aria frizzante, di panorami lontani e nitidi. E niente zecche] Claudio Cima


ECOVILLAGGI In armonia tra natura e tecnologia
Autore: GIULIANO WALTER

ARGOMENTI: ECOLOGIA, TECNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA, EUROPA, ITALIA, ALESANO (LE)

SALE in tutto il mondo, sull'onda della New Age, la sperimentazione di modi di vivere alternativi al modello dominante. Una ricerca da nuovo millennio, a metà strada tra fondamentalismi, aspirazioni a una vita più vivibile, utopia e necessità. Si incontrano, si parlano attraverso la rete delle reti, confrontano le reciproche esperienze. Il villaggio globale, una soluzione per il futuro del pianeta? E' uno dei percorsi di ricerca che hanno segnato l'ultimo incontro italiano, lo scorso anno, ad Alessano in provincia di Lecce, prima occasione nazionale di questo tipo per coloro che aderiscono alla rete europea dei villaggi ecologici costituitasi in Germania. Ma cosa sono gli ecovillaggi? Sono la risposta dimostrativa a una domanda che attraversa sempre più spesso la nostra società: è possibile vivere in armonia con la natura, dando soddisfazione ai nostri bisogni intellettuali e spirituali, in una società tecnologicamente avanzata? Su questa sfida si sono mobilitati molti gruppi di pensiero vicini all'ambientalismo. Tutti intenzionati a dare indicazioni concrete per realizzare esperienze moltiplicabili. I progetti si sono velocemente diffusi, ma architetti e costruttori hanno spesso incontrato la difficoltà di reperire spazi o insediamenti adatti a ospitare nuovi modelli di vita sociale ecocompatibile riproducibili, da replicare in situazioni differenti. Un aiuto venne nel 1990 quando, su iniziativa del Gaia Trust of Denmark, fu organizzata una rete di comunicazione tra gli ecovillaggi del mondo. Lo scopo era quello di contribuire allo sviluppo di una nuova coscienza planetaria di rispetto per la terra e di crescita spirituale. L'anno seguente fu organizzato il primo censimento globale degli ecovillaggi e comunità ecologiche esistenti. Per incarico del Gaia Trust, il Context Institute di Seattle realizzò l'"Ecovillage Report", cui fece seguito un primo raduno dei rappresentanti dei più significativi casi internazionali. Il modello danese, grazie anche ai venti anni di esperienza del " cohousing" presentò i risultati ottenuti in una quindicina di villaggi riuniti nella Danish Eco Village Association, madre della rete globale che con il nome di Global Ecovillage Network unisce oggi tutte le comunità di questo tipo, ed è rintracciabile su Internet (http://www.gaia.org) con oltre sessanta pagine di informazioni. Vi si trovano indicazioni riguardanti il "fai da te", la permacoltura, la ricerca di finanziamenti, di ditte specializzate in architettura bioclimatica ecc. Il Gen ha inoltre deciso di costruire tre network regionali capaci di garantire il sostegno e l'incentivo ai gruppi locali. Sono così sorte organizzazioni che coprono tutto il pianeta, con centri amministrativi a The Farm, in Tennessee (Usa), Lebensgarten (Germania) e Crystal Waters (Oceania) cui si sono aggiunti recentemente i nodi dell'Associazione Gaia di Buenos Aires, del Kibbutz Gezer in Israele e dell'International Institute for Sustainable Future di Bombay (India). Il sostegno si realizza in alcuni settori strategici: comunicazione, finanziamento, organizzazione strutturale, educazione, lobbyng, contatti internazionali, intermediazione, identificazione dei servizi. In Italia la rete dei villaggi ecologici è in crescita e conta una ventina di eperienze, distribuite in tutta la penisola. In molti casi l'interesse per queste comunità è accentuato dal fatto che si sono insediate in antichi borghi rurali o montani abbandonati che sono stati recuperati e riutilizzati. Nella ristrutturazione e nel riuso è stata posta grande attenzione ai materiali, mentre le tecniche costruttive hanno recuperato antichi saperi a rischio di scomparsa. Dunque la sfida degli ecovillaggi si gioca sulla possibilità di far convivere la tradizione e la sua conservazione con l'innovazione e tutto ciò che le tecnologie più avanzate possono mettere a disposizione. Da un lato quindi il recupero di tecnologie tradizionali, materiali naturali e manualità popolari troppo spesso scartati dai processi produttivi moderni, dall'altro la loro applicazione che tiene conto delle conquiste scientifiche nel campo della comunicazione (rete globale e locale, telelavoro...) del risparmio energetico, delle tecnologie dolci, della pianificazione biogenica, medicine naturali, bioedilizia, cicli chiusi delle risorse rinnovabili, controllo delle emissioni e riciclaggio dei rifiuti. Walter Giuliano


SCIENZE FISICHE. IL SEGRETO DEGLI STRADIVARI Un po' di succo d'uva e poi in salamoia
Autore: VALERIO GIOVANNI

ARGOMENTI: CHIMICA, MUSICA
NOMI: NAGYVARY JOSEPH
LUOGHI: ITALIA

AGGIUNGERE un goccio di succo d'uva e poi mettere tutto in salamoia: ecco la ricetta (finalmente quella autentica?) per ottenere un perfetto violino Stradivari. L'ha scoperta (e provata) il biochimico Joseph Nagyvary, risolvendo così un mistero che durava da almeno tre secoli. Da allora, è opinione di tutti i musicisti che i violini con le migliori sonorità siano quelli costruiti dai liutai cremonesi del 1600, come Nicola Amati e il suo celebre allievo Antonio Stradivari. Per decenni si è creduto che fosse merito della forma dello strumento. Ma oggi, con moderne tecnologie come il disegno CAD, un bravo liutaio riesce a copiare le forme di uno Stradivari con una precisione del centesimo di millimetro. Dov'è nascosto allora il segreto del suono perfetto? Nella formula segreta della vernice, nell'invecchiamento di tre secoli dello strumento, o nel modo in cui il legno è stato trattato? Per risolvere l'enigma, Joseph Nagyvary, professore di biochimica alla Texas University ma anche violinista dilettante, ha esaminato numerosi campioni di legno provenienti da strumenti a corda costruiti dagli artigiani italiani del 17o e 18o secolo. E ha scoperto che il mistero risiede nel trattamento dei materiali. Il legno utilizzato (di solito l'acero) fu praticamente messo a mollo nell'acqua salata. La salamoia permette ai microbi di creare sacche d'aria, aumentando così la risonanza. I minerali presenti nell'acqua rendono il legno più leggero e più rigido, conferendogli così una sonorità tipica e ineguagliabile. L'ipotesi è stata confermata anche dagli storici: l'acero giungeva alle botteghe dei liutai cremonesi flottando via fiume, restando quindi per molto tempo in acqua. Il tocco di classe della ricetta Stradivari è però una goccia di succo d'uva. Questa rimuove l'emicellulosa del legno, la sostanza chimica che serve alle piante come materiale di riserva ma che ne impedisce l'irrigidimento, fondamentale invece per le proprietà acustiche. Nagyvary non si è limitato a scoprire il trucco di Stradivari. Ha costruito alcuni violini trattando chimicamente il legno. Presentando le sue ricerche all'incontro annuale dell'American Chemical Society, ha sostenuto che è impossibile distinguere il suono di uno dei suoi violini "clonati" chimicamente da quello di un vero Stradivari. Anche per le orecchie di musicisti come Elizabeth Matesky, Zina Shiff e la giovane promessa Edith Hines, che hanno accettato la prova, suonando entrambi gli strumenti. Senza sentire differenze. Giovanni Valerio




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