TUTTOSCIENZE 21 luglio 99


SALUTE Al bando il sigaro di Fidel Castro Ora è dimostrato: non è meno dannoso delle sigarette
Autore: GIACOBINI EZIO

ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

QUANDO i cubani si accorsero che Fidel Castro aveva smesso di fumare il sigaro si resero conto di due cose: primo, che poteva rappresentare un vizio pericoloso alla salute del loro capo e, secondo, che sarebbe mancato un gesto promozionale importante per la seconda industria del Paese. Dal 1993 al 1997 la vendita dei sigari in Usa è aumentata del 50%. Un aumento simile si è verificato anche in molte nazioni europee. Si tratta principalmente dei grossi sigari chiamati ««Premium»» che hanno visto un aumento del 70% bilanciando così la diminuzione del consumo di sigarette verificatasi dai primi Anni 70. Due sono i fattori principali che hanno contribuito all'aumento del consumo di sigari. Il primo è che malgrado fosse già noto dagli Anni 70 che fumare il sigaro si associasse ai tumori del tratto digestivo superiore (cavo orale, faringe ed esofago), dei polmoni e a malattie polmonari croniche (bronchiti) il pubblico ha continuato a nutrirsi dell'illusione che il sigaro fosse meno dannoso della sigaretta. Secondo, i sigari sono fortemente reclamizzati dai mass media che contribuiscono a creare un'immagine particolare di virilità, potere personale e benessere economico del consumatore. Il maggiore studio mai intrapreso sui rischi del fumo da sigaro è ora completato negli Stati Uniti e pubblicato nella rivista medica New England Journal of Medicine. Si tratta di una popolazione di circa 18.000 individui maschi di età compresa tra i 30 e gli 85 anni (dei quali 1500 fumatori di sigaro) seguita per quasi 25 anni (1971-1995) da uno dei maggiori programmi sanitari privati. Le conclusioni dello studio confermano pienamente i dati degli studi minori compiuti negli Anni 70 e 80. Il fumare il sigaro rappresenta un notevole fattore di rischio per malattie coronariche (angina ed infarto cardiaco), malattie ostruttive polmonari croniche (bronchiti), tumori del tratto digestivo superiore (cavo orale, faringe ed esofago) e molto significativamente per il tumore dei polmoni. E' stata pure dimostrata un'azione cosidetta sinergistica (cioè facilitante) tra consumo di bevande alcooliche, fumo del sigaro e sviluppo dei tumori oro-faringei e delle vie aeree superiori (laringe, trachea). Paragonato al rischio relativo da fumo di sigarette il fumo da sigaro è leggermente più basso per quanto riguarda il tumore del polmone(tumore killer numero uno negli uomini). La percentuale dei decessi per malattie cardiovascolari o polmonari è direttamente proporzionale al numero dei sigari fumati al giorno e tra i fumatori di sigari sono più esposti coloro i quali inalano anche moderatamente il fumo. Particolarmente preoccupante è il fatto che sia in Usa che in Europa il sigaro stia diventando sempre più popolare tra i giovani e le donne. Al contrario della sigaretta più fumata da classi socio-economiche medio-basse, il sigaro è una prerogativa delle medio-alte (tenendo conto del prezzo molto alto dei sigari di buona qualità!). Quali sono le ragioni della tossicità del sigaro? Il fumo del sigaro contiene gli stessi prodotti tossici di quello della sigaretta. Si calcola che una persona che fumi 4 sigari al giorno sia esposto a una tossicità pari a quella di 10 sigarette. L'equazione sigaro/sigaretta è quindi di 1 a 2,5. Il fumo proveniente dalla parte del sigaro presente nella cavità orale contiene una concentrazione di nicotina che è più alta di quella di una sigaretta e così di benzene, idrocarburi aromatici del tipo benzopirene, idrossicianuro, piombo, monossido di carbonio, ammonio e N-nitrosamine. Come nel fumo della sigaretta, sono state individuate 4000 sostanze diverse, tra le quali 60 ad elevata azione cancerogena. Tale informazione non viene mai fornita al pubblico dai fabbricanti o dalle autorità. Non solo vengono introdotte sostanze fortemente cancerogene ma si aumenta notevolmente la concentrazione della carbossiemoglobina che non può essere utilizzata dai polmoni come portatrice di ossigeno. Quest'ultimo fenomeno spiega l'effetto cardiovascolare negativo del fumo da sigaro. Lo studio dimostra infine che anche i fumatori di sigaro che non inalano sono esposti egualmente al fumo ambientale creato dal loro sigaro aumentando così il rischio di malattie cardiovascolari e polmonari. La lezione per i fumatori è chiara e univoca; quella per le autorità è di informare il pubblico e munire il sigaro della medesima dicitura già usata per le sigarette indicante il rischio. E' pure importante che il fumatore di sigaro si renda finalmente conto che espone non solo se stesso ma anche chi lo circonda e inala il fumo del suo sigaro a maggior rischio di morte prematura e di affezioni cardiovascolari prevenibili. Ezio Giacobini


LE INSIDIE DEL MARE Meduse all'assalto delle nostre vacanze
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. MEDUSA

CHI va al mare pregusta già il piacere di tuffarsi in acqua tra un turbinio di spuma bianca. E' una sensazione così piacevole, quella frescura che ti avvolge mitigando il calore rovente della spiaggia... Ma non sempre tutto va per il verso giusto. Capita spesso che il nuotatore si veda improvvisamente davanti una folla di tremolanti meduse. La prudenza gli consiglierebbe di fare dietro-front e di uscire dall'acqua al più presto possibile. Ma se non fa in tempo a invertire la rotta e senza accorgersene sfiora una di quelle graziose creature dall'apparenza così innocua, allora sono guai. E come se avvertisse improvvisamente una staffilata bruciante e subito la parte colpita si arrossa e si gonfia. Le meduse che in queste estati invadono le nostre acque costiere appartengono alla specie Pelagia noctiluca. Sono medusine dall'ombrello largo otto centimetri, ma i loro tentacoli trasparenti e lunghissimi nascondono le invisibili ««armi segrete»», tipiche non solo delle meduse ma anche degli anemoni di mare e dei coralli (in pratica di tutto il phylum dei Cnidari(dal greco ««knydè»»=ortica). Che cosa sono queste misteriose ««armi segrete» »? Sono i ««cnidoblasti»», celluline a forma di vescica ripiene di un liquido urticante, entro cui pesca un filamento cavo avvolto a spirale. Da ciascuna di queste cellule sporge all'esterno un minuscolo peluzzo. Basta che un corpo estraneo lo sfiori perché lo stimolo si trasmetta alla vescicola. E, in tempo variabile dai tre ai cinque millesimi di secondo, scatta all'infuori il filamento che si conficca nelle carni del disturbatore come un ago da siringa, iniettandogli il veleno. Naturalmente queste armi non sono rivolte contro l'uomo, intruso nel dominio marino. Sono strumenti per la cattura delle prede. Nulla da paragonare comunque al veleno di altre meduse che vivono lontano da noi, in acque tropicali o polari. Come il gigante della famiglia, la terribile Cyanea arctica che, come dice il suo nome, vive nei mari artici. Ha un ombrello largo due metri e centinaia di tentacoli lunghi fino a quaranta metri. E' una spaventosa trappola di morte per le creature che hanno la disavventura d'incontrarla. Non meno pericolse le cubomeduse dei mari tropicali il cui veleno è così potente che può provocare nell'uomo una morte quasi istantanea. Ci sono poi i veleni prodotti da molte specie di pesci - circa trecento - e da altri animali marini. Va detto subito però che la stragrande maggioranza dei più temuti produttori di tossine vive nei mari tropicali. La splendida Caravella portoghese (Physalia phisalis) colonia di celenterati dai tentacoli lunghi fino a 40 metri ha un veleno paragonabile per tossicità a quello dei cobra. Il pesce leone (Pterois volitans) che fa il largo intorno a sè per i velenosissimi raggi della pinna dorsale o il tremendo pesce sasso (Synanceia verrucosa), ritenuto il pesce più velenoso del mondo, abitano tutti nei mari caldi. Da noi la disavventura più frequente è quella di mettere il piede su uno scoglio subacqueo ricoperto di ricci di mare. Gli aculei che li proteggono sono seghettati e fragili, sicché facilmente si spezzano rimanendo incastrati nella nostra pelle. Ma anche se l'estrazione è un tantino fastidiosa, non c'è da temere dalla specie più comuni lungo le nostre coste, il Paracentrotus lividus, di cui mangiamo gli organi sessuali. Sono quei cinque spicchi carnosi color arancione che si mettono a nudo spaccando in due la corazza, come fanno gli ostricari sulle loro bancarelle. Diverso sarebbe il discorso se avessimo a che fare con il temibile Toxopneustes pileosus che vive nel Pacifico occidentale. Basta sfiorarlo perché le minuscole ganasce delle sue innumerevoli pinze (le ««pedicellarie»») si rinserrino, iniettando un veleno molto tossico per l'uomo. Le pedicellarie dei nostri ricci sono troppo deboli per penetrare nella pelle umana. Nelle nostre acque, per fortuna, gli avvelenatori temibili sono una sparuta schiera. Ci si può imbattere in una Pastinaca (Dasyatis pastinaca) dal corpo largo e piatto, che sulla flessibile coda a frusta ha impiantato un robusto aculeo velenoso capace di provocare ferite dolorose, o si può calpestare inavvertitamente un pesce-ragno, un trachinide che se ne sta semisepolto nella sabbia del fondo. E' un' esperienza che non si dimentica facilmente, perché il doloro è lancinante, specie se l'esemplare calpestato è la tracina drago (Trachinus drago) o la tracina vipera (Trachinus vipera) che feriscono con l'aculeo degli opercoli branchiali e i raggi spinosi della prima pinna dorsale. Di solito però l'infortunato guarisce entro una decina di giorni. Ma speriamo che tutto vada bene, che il nostro bagnante riesca a farsi una bella nuotata senza inconvenienti e ritorni a riva gocciolante e ritemprato. E' allora che gli viene la voglia di farsi una passeggiata lungo la spiaggia, dove può incontrare altre creature, questa volta assolutamente inoffensive. Se smuove la sabbia col piede, ecco che ne sbuca fuori un nugolo di animaletti che per la forma compressa e per la buffa maniera d'incedere a salti fanno pensare alle pulci. E infatti le chiamano ««pulci di mare»». Sono in realtà crostacei anfipodi appartenenti alle specie Talitrus saltator. Vivono queste minuscole creature nascoste nella sabbia, approfondendosi quel tanto che basta per trovare un po' di umidità. Ma quando escono allo scoperto, si dirigono senza esitazioni verso il mare, scegliendo la via più breve. E non è detto che il mare lo vedano, perché se li si trasporta dietro una duna, da dove il mare non lo vedono certo, puntano ugualmente nella giusta direzione. Si è scoperto che si orientano usando come bussola il sole, la luna e la luce polarizzata. La selezione naturale condanna a morte gli individui che scelgono la direzione sbagliata. Il che dimostra come sia fissata geneticamente nella specie la direzione che conduce al mare. E' una delle tante sorprese che ci riserva una rapida escursione lungo il confine tra terraferma e mare, un habitat difficile, eppure fittamente popolato. Isabella Lattes Coifmann


ARTICOLO SU ««NATURE»» L'elefante dall'oceano alla savana Nell'embrione la prova della sua origine acquatica
Autore: PATERLINI MARTA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

DICONO che gli elefanti abbiano una grande memoria. Chissà se si ricordano di avere avuto un passato sotto l'acqua del mare, quando avrebbero utilizzato la proboscide come boccaglio. Una recente ricerca ha dimostrato infatti che gli elefanti (Loxodonta africana) si sono evoluti da mammiferi simili alla mucca marina (Dugong), che ancora nuota in alcune aree dell'oceano Pacifico. Stiamo parlando del primo studio embriologico su questi animali, eseguito da Ann Gaerth e Roger Shot, dell'Università di Melbourne, in Australia, dopo avere ottenuto il prezioso materiale proveniente dal Kruger National Park in Sud Africa. E' infatti molto raro riuscire a lavorare con materiale simile: un embrione e sei feti di elefante che vanno dai 58 ai 166 giorni di gestazione. L'idea sull'insolito passato degli elefanti è stata suggerita da una curiosità fisiologica, i nefrostomi, vale a dire dotti cigliati renali a forma di imbuto che si aprono sulla superficie del mesonefro e che connettono la cavità celomica alla capsula del glomerulo renale. Essi permettono lo scambio osmotico tra il fluido celomico e il sangue. Il mesonefro rappresenta il rene definitivo in alcuni vertebrati e una forma transitoria dell'organo escretore in altri, in cui, a sviluppo completato, permane con alcune strutture accessorie o vestigiali: ne sono provvisti i pesci d'acqua dolce e le rane, alcuni rettili e tutti gli uccelli nel primo stadio del loro sviluppo ma nessun mammifero viviparo. Di solito ciò che compare solo a livello embrionale è un retaggio con ogni probabilità di un periodo ancestrale; al contrario le fattezze che compaiono più tardi nel corso dello sviluppo sono facilmente relative a un adattamento più recente. Negli elefanti queste vestigia - i nefrostomi - compaiono ad uno stadio precoce dell'embrione per poi scomparire. Inoltre la proboscide compare ed è ben sviluppata anche nel più giovane feto, in concomitanza con la comparsa dei nefrostomi nel mesonefro. Gli elefanti moderni utilizzano ancora la proboscide come boccaglio. E' frequente infatti che gli elefanti, soprattutto in Asia, viaggiando da un'isola all'altra, debbano nuotare, ma il collo troppo corto non permetterebbe loro di respirare con la bocca. I loro polmoni, d'altra parte, permettono di immagazzinare un'incredibile quantità d'acqua nella proboscide per poi farla finire in bocca. Queste scoperte vanno ad aggiungersi al fatto che - come è noto dai tempi di Aristotele - contrariamente agli altri mammiferi terrestri, gli elefanti hanno i testicoli intraddominali, come le balene e le foche. Lo studio dei ricercatori australiani è stato rafforzato da altre prove. Se si dà un'occhiata ai fossili, la testimonianza paleontologica suggerisce che gli avi degli elefanti erano acquatici e recenti studi biochimici, immunologici e molecolari mostrano una incredibile affinità tra gli elefanti moderni e la Sirena acquatica (Dugong e Manatees), facendo pensare che gli elefanti potrebbero avere lasciato la vita acquatica 30 mila anni fa. Il biologo Ernst Mayer ha scritto che lo sviluppo embriologico offre preziosi indizi per ricostruire la storia evolutiva delle diverse specie. Se questo non funziona per tutti gli animali, di sicuro calza perfettamente per gli elefanti. Marta Paterlini Università di Cambridge


SCIENZE FISICHE. CIVILTA' MAYA Alla scoperta del calendario di Venere
NOMI: ROMANO GIULIANO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «I MAYA E IL CIELO»

BENCHE ' eserciti un fascino intenso, in Italia la civiltà Maya non è molto divulgata. Giuliano Romano ha rimediato un vuoto bibliografico pubblicando il primo saggio dedicato alla matematica, alla cosmologia e all'astronomia di questo popolo dell'America centrale che ebbe il suo massimo splendore culturale tra il 250 e il 900 dopo Cristo (««I maya e il cielo»», Cleup, 277 pagine, 50 mila lire). Ispirato da Anthony Aveni, pioniere degli studi di archeoastronomia Maya, Giuliano Romano (Università di Padova) approfondisce in particolare il ruolo del pianeta Venere nella religione, nell'astrologia e nel calendario maya: le conoscenze erano così accurate da portare all'identificazione di un ciclo di 104 anni collegato alla rivoluzione del pianeta.


SCIENZE FISICHE. INGEGNERIA Torino, il ponte della sfida Si celebra l'opera dell'architetto Mosca
AUTORE: RATTI CARLO
ARGOMENTI: TECNOLOGIA
PERSONE: MOSCA CARLO BERNARDO
NOMI: MOSCA CARLO BERNARDO
LUOGHI: ITALIA

NEL 1992 il bicentenario della nascita di Carlo Bernardo Mosca, protagonista indiscusso della storia dell'ingegneria italiana, passò quasi inosservato. A riparare il torto hanno contribuito però in anni più recenti una mostra organizzata nel comune natale di Occhieppo Superiore, in provincia di Vercelli (««Carlo Bernardo Mosca, ingegnere architetto tra illuminismo e restaurazione»», catalogo Guerini e Associati, 1997) e numerose pubblicazioni, tema, qualche settimana fa, di una giornata di studio e di dibattito al Politecnico di Torino. Il nome di Carlo Bernardo Mosca rimane legato soprattutto ad un celebre ponte in pietra sulla Dora Riparia a Torino, in corrispondenza dell'attuale Corso Giulio Cesare. ««Un monumento - scrisse Pietro Giuria - che da solo sarebbe bastato a ornare la più grande capitale»». Realizzato nel 1830 con un unico arco ribassato di 45 metri di luce, un record per l'epoca, si distingueva per due importanti innovazioni tecniche: l'assenza di malta tra i conci in pietra, tagliati di misura seguendo forme geometriche complesse e pertanto più stabili; e l'utilizzo in chiave e alle imposte di tre giunti deformabili, in gergo ««cerniere plastiche»», per ottimizzare la distribuzione delle sollecitazioni nella struttura. La leggenda racconta che al momento del disarmo Mosca imbandì una tavola sotto il ponte. E per fugare ogni dubbio sulla stabilità dell'arco si mise a banchettare mentre i carpentieri smontavano le centine. Un aneddoto forse non vero ma certo verosimile. Impregnato di certezze positivistiche in seguito agli studi all'Ecole Polytechnique e all'Ecole des Ponts et Chaussèes di Parigi, Mosca credeva nella moderna scienza delle costruzioni e nella possibilità di verificare con le leggi della fisica la resistenza delle strutture. All'allora ministro degli Interni Falquet, che lo interrogava perplesso sulla sua opera, rispose seccamente: ««Il ponte sta e starà in piedi»». In veste di Primo Architetto Idraulico del re Carlo Alberto Mosca seguì molti progetti ingegneristici d'avanguardia, come la sistemazione dei Murazzi sul Po a Torino e la pianificazione del sistema ferroviario del Regno di Savoia, allora in fase di decollo. Progettò inoltre la sala da ballo del Palazzo Reale, seppure controvoglia. All'architettura di corte preferiva, da buon ingènieur des Ponts et Chaussèes, ponti, strade, canali e ferrovie. Inseguendo, in anticipo sul suo tempo, un ideale di perfezionamento tecnico che facesse ««concorrere gli sforzi comuni al bene della nazionale famiglia»». Carlo Ratti Università di Cambridge


SCIENZE FISICHE. CELEBRAZIONI Trent'anni dallo sbarco sulla Luna Mostre e conferenze mentre ci si prepara all'eclisse
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: TRENTESIMO ANNIVERSARIO DELLO SBARCO SULLA LUNA

ESATTAMENTE trent'anni fa, il 21 luglio 1969, alle 4,57 ora italiana, Neil Armstrong e ««Buzz»» Edwin Aldrin imprimevano le prime impronte umane sulla Luna. Le iniziative per ricordare l'impresa sono innumerevoli. Ecco qualcuna. Oggi a Torino ««Serata Luna»» con l'astronauta Maurizio Cheli: conduce Giovanni Caprara, centro congressi Torino Incontra (via Costa 8, ore 21); ai presenti verrà dato in omaggio un poster che riproduce la prima pagina de ««La Stampa»» con la notizia dell'allunaggio. A Padova da ieri fino al 17 ottobre, nel Palazzo della Ragione, si può visitare la mostra ««Quella notte sulla Luna»». Fra le attrazioni, una pietra lunare che risale a 3,9 miliardi di anni fa. Per altre informazioni: telefono 049-820.45.01. Un ciclo di conferenze è in corso presso il Planetario di Ravenna, organizzato dal direttore Franco Gàbici. Tel. 0544-62.534. Un Cd-Rom del ««Corriere della Sera»» dedicato al Programma Apollo e a tutto quanto riguarda la conoscenza scientifica del nostro satellite sarà in edicola fino all'inizio di agosto. Una videocassetta intitolata ««Apollo 11»» (Discovery Channel, durata 90 minuti) è distribuita dalla Cinehollywood di Milano. Anche l'eclisse totale di Sole che interesserà l'Europa e una parte dell'Asia il prossimo 11 agosto contribuisce ad attirare la curiosità del pubblico sui fenomeni celesti. La rivista mensile di astronomia ««Orione»», diretta da Walter Ferreri, è attualmente in edicola insieme con un fascicolo curato da Giancarlo Favero interamente dedicato alla prossima eclisse. Lo stesso Ferreri è autore del volumetto ««Le eclissi di Sole»» (Paim, Firenze, tel. 055-368.410), mentre Gabriele Vanin ha pubblicato il saggio ««Le eclissi»» recensito qui accanto. Editoriale Scienza (040-364.810) offre comodi occhiali scuri per un'osservazione sicura. ««Sandokan»», ««mensile dei liberi viaggiatori»», ha dedicato gran parte del numero di giugno alle località dove l'eclisse sarà totale, con particolare attenzione all'Iran, all'Austria, all'Ungheria e alla Romania. Sull'eclisse esistono innumerevoli siti Internet italiani e stranieri. Ci limitiamo a segnalare quello dell'Osservatorio di Padova: www.pd. astro.it/eclisse


SCIENZE FISICHE. METEOROLOGIA Fulmini e parafulmini "Gabbie di Faraday" per difendersi
Autore: CERVINI GIAN CARLO

ARGOMENTI: METEOROLOGIA
LUOGHI: ITALIA

A mezzanotte e mezza del 27 giugno 1999 un fulmine si è scaricato su Palazzo Madama, a Torino. Ha fuso il piombo del cornicione e ha distrutto una fioriera alta quasi tre metri. Ben di peggio era successo nel 1745 a Venezia. Allora i Veneziani dovettero spendere più di ottomila ducati per riparare il campanile di San Marco. Un fulmine lo aveva colpito e, aprendo in esso trentasette crepe, ha rischiato di farlo crollare. Nell'arco dei tre secoli precedenti il campanile aveva attirato altri sei fulmini. I primi due lo avevano quasi sgretolato, oltre a fondere sette campane del campanile dei frati minori conventuali. Il Senato Veneto decise di installare un parafulmine e, da allora, il campanile non ebbe altri danni. Crollò poi due secoli dopo, ma questa è un'altra storia. Oggi si parla poco di fulmini e parafulmini. Invece nel Settecento e nell'Ottocento l'interesse era vivissimo per la curiosità che si aveva verso tutti i fenomeni elettrici, la cui natura era ancora misteriosa. I Romani e i Greci pensavano che fossero scagliati da Giove e che il tuono fosse il rumore prodotto dal rotolare del carro con cui il Nume irato percorreva il cielo. Nel Cinquecento il grande Cartesio immaginava che il tuono si producesse quando le nubi poste più in alto cadevano su quelle sottostanti, comprimendo l'aria tra loro interposta. Da allora sino alla metà del Settecento l'opinione prevalente fu che si trattasse dell'esplosione di sostanze emanate dalla terra e accumulatesi nelle nuvole. I fisici del Settecento, tra cui l'abate Nollet, cominciarono a pensare che il fulmine fosse una scarica elettrica simile, molto più in grande, alle scintille che ricavavano dai loro esperimenti. Fu l'americano Beniamino Franklin a indirizzare le ricerche decisamente verso l'elettricità, anche se le prove più rigorose furono fatte in Europa. Si usavano aste di ferro più o meno lunghe da cui si facevano scoccare scintille quando l'aria temporalesca era piena di cariche elettriche. Le aste erano in parte o del tutto isolate elettricamente da terra e gli esperimenti potevano essere pericolosi. Il professore Richmann, dell'Accademia imperiale di Pietroburgo aveva avuto tanta cura nell'isolare l'asta rispetto al tetto cui era fissata che il fulmine, non trovando altra strada, passò attraverso il suo corpo, fulminandolo. Altre prove si facevano con un aquilone trattenuto da una corda di rame ed è insieme commovente e ammirevole immaginare questi signori giocare con il "cervo volante" anche a rischio della vita. Si usava l'aquilone perché i palloni sono stati inventati solamente nel 1783. Gli italiani si facevano onore: Verra e Marino a Bologna, Della Guardia a Firenze e soprattutto Beccaria a Torino. Nel 1760, Franklin costruì il primo parafulmine e l'installò a Filadelfia. La gente ne fu terrorizzata e, nel 1783, un giovane avvocato di nome Robespierre, dovette difendere il Signor di Boisvallè dall'accusa di avere messo in pericolo la città di St. Omer innalzandone uno sulla sua casa. Ma in seguito la sua utilità fu riconosciuta senza dubbio e si passò all'estremo opposto. Sembra che le signore alla moda di Parigi portassero cappelli parafulmini con un nastro metallico collegato a una catenella d'argento che scendeva lungo la schiena sino a terra. Oggi il parafulmine sembra privato del suo interesse di novità e non se ne vedono più le aste sui tetti. Ciò non significa che il fulmine abbia perso la sua pericolosità. Ogni anno diverse migliaia di persone in tutto il mondo perdono la vita fulminate. E non sono pochi gli amministratori di condomini che devono affrontare il problema di una folgore che, colpita l'antenna della televisione, scende lungo il cavo e danneggia i televisori collegati. Tanto più che spesso le società di assicurazione sono restie a rimborsare questi danni se la casa non è protetta da un parafulmine. Inoltre una legge recente prescrive l'obbligo del parafulmine per gli edifici più a rischio. Esistono formule complesse per stabilire la probabilità della folgorazione. Sono usate insieme a mappe ricavate da macchine contafulmine. L'area di Torino ha una densità di fulmini piuttosto alta. Sono a rischio soprattutto gli edifici alti e isolati. Quelli vicino alla Mole Antonelliana corrono pochi rischi. I parafulmini moderni non usano l'asta verticale che, più che parare i fulmini, li attira. Sono piuttosto simili a una gabbia di Faraday. Si tratta di una gabbia di materiale conduttore che scherma dall'elettricità ciò che si trova al suo interno. Un'autovettura o un aereo ne sono due buoni esempi. Nel caso dell'aereo il pericolo viene dai disturbi che la folgore può provocare negli strumenti di controllo del volo. I parafulmini attuali si dividono in tre categorie secondo il grado di protezione che forniscono. Nella prima è sufficiente un tondino o un conduttore messo orizzontalmente per tutta la lunghezza dell'edificio. Nelle altre due si usano maglie di conduttori con lati sino a 16 metri che danno una protezione del 99, 8%. Una protezione così elevata è indispensabile solamente per casi molto particolari. Ad esempio per le fabbriche di glicerina esplosiva. Per gli escursionisti, un consiglio sempre utile: lasciar perdere il cappello parafulmine ed evitare di ripararsi sotto gli alberi durante i temporali. Gian Carlo Cervini


SCIENZE DELLA VITA. TUMORI DELLA PELLE Tutti i pericoli dell'abbronzatura Labrutale esposizione al sole favorisce i melanomi
Autore: DI AICHELBURG ULRICO

ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. I FOTOTIPI

NON c'è persona che non abbia nella sua pelle un tumore, e nel corso della vita forse anche una dozzina di tumori. Cos'è: una battuta terroristica di dubbio buon gusto? No, è una constatazione: esistono almeno un centinaio di tipi di noduli cutanei classificabili per la loro struttura microscopica come tumori - benigni dal punto di vista clinico, ben inteso - quali per esempio fibromi, emangiomi, nèi, per citare i più frequenti. I nèi compaiono già qualche settimana dopo la nascita, crescono di numero durante l'adolescenza, regrediscono a poco a poco nell'età adulta: ne favoriscono la moltiplicazione i raggi solari e caratteristiche personali (pelle chiara, colore dei capelli e degli occhi, fattori genetici). Il punto essenziale, ovviamente, è che i tumori benigni rimangono tali, non si trasformino in maligni (epiteliomi, melanomi). Diciamo subito che questa trasformazione, per esempio di un neo in un melanoma, fortunatamente è rara; tuttavia certo non è trascurabile, tanto è vero che il numero dei casi di melanoma, il tumore più grave, è in aumento. Il principale fattore ambientale favorente la trasformazione è l'irradiazione da parte dei raggi ultravioletti A e B che ci raggiungono durante l'esposizione della pelle nuda al Sole. Schematicamente si possono riassumere così le nostre attuali conoscenze: il cumulo delle esposizioni al Sole a partire dalla nascita ha un ruolo chiave per quanto riguarda gli epiteliomi, mentre le esposizioni brutali intermittenti, tipiche delle vacanze, favoriscono soprattutto i melanomi, tumori maligni derivanti dai melanociti epidermici, le cellule pigmentarie della pelle. I tumori cutanei sono teoricamente che possiamo prevenire più facilmente. Basterebbe una soluzione: cambiare gli standard estetici della nostra società, centrati sull'abbronzatura come espressione di bellezza, di salute, di stato sociale. Ormai si sa che l'irradiazione solare intermittente è la più dannosa; dunque è opportuno evitare una rapida e intensa esposizione totale, una full immersion, ai raggi ultravioletti (UV) per correre poi al riparo sotto l'ombrellone. Invece prendere il sole a piccole dosi e frequentemente: in questo modo le cellule della cute responsabili dell'abbronzatura, i melanociti, hanno la possibilità di riparare gli eventuali danni provocati dagli UV. Altri accorgimenti: non soggiornare troppo a lungo sulla spiaggia fra le ore 11 e le 16; meglio praticare gli sport all'aperto ricoperti da un abbigliamento anziché nudi - si portano vestiti anche ai tropici senza per questo morire di caldo; tutta la pelle dei bambini, e non soltanto il capo, deve essere riparata. Le creme solari proteggono dagli UV ma non rappresentano certo una soluzione taumaturgica: la loro efficacia nella prevenzione dei tumori è discutibile. L'ineguaglianza degli individui di fronte all'aggressione dei raggi solari è di comune osservazione: ecco dunque l'importanza della genetica. A questo proposito si sono compiuti negli ultimi tempi notevoli progressi nella conoscenza dei meccanismi genetici implicati nella comparsa di tumori cutanei maligni. Per esempio si sono osservate mutazioni del gene p53 nel 30-50 per cento degli epiteliomi spino- e baso-cellulari: il gene p53 è considerato un vero guardiano del genoma poiché la proteina che codifica permette di riparare le conseguenze d'uno stress genotossico inferto dagli UV. Diversi geni implicati in malattie cutanee predisponenti ai tumori maligni sono stati identificati, i due principali tipi di epiteliomi cutanei presentano anomalie distinte il che permette di comprendere almeno in parte le loro differenze di aggressività. La migliore comprensione dell'insorgenza di tumori maligni cutanei fa sperare in un futuro di cure più efficaci. E' possibile che l'identificazione di fattori genetici nei prossimi anni permetta di meglio individuare i soggetti bisognosi d'una intensa fotoprotezione. Ulrico di Aichelburg


SCIENZE DELLA VITA. PSICOANALISI Seduzione e terapia
Autore: CAROTENUTO ALDO

ARGOMENTI: PSICOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

IN una lettera pubblicata recentemente su un quotidiano di Roma si parlava di uno psichiatra torinese che, nell'accomiatarsi dalla paziente, l'abbracciava con un'enfasi a dir poco sospetta. Sul caso sono intervenuti alcuni addetti ai lavori con vari argomenti ai quali vorrei aggiungere anche la mia opinione. Il giudizio di molti analisti nei confronti dei ««colleghi che sbagliano»», rispecchia a mio parere una visione paternalistica del rapporto medico-paziente. Viene infatti proposta una prospettiva che nega a quest'ultimo dignità, autonomia e capacità di discernimento. In particolare, le donne vengono considerate ancora come il ««sesso debole»», indifeso e bisognoso di tutela, come i bambini. Non a caso, lo psicoterapeuta che ««approfitta»» della situazione può essere paragonato, secondo alcuni specialisti della psiche, ad un vero e proprio pervertito sessuale. Accostamento, questo, opinabile anche se ben sappiamo che in un momento particolarmente fragile della propria esistenza, qualsiasi persona viene a trovarsi in uno stato di subordinazione e di influenzabilità. Chi esercita il mestiere di analista da vero professionista sa bene che esiste un reciproco rapporto di seduzione tra analista e paziente, intessuto non solo, come si sarebbe ingenuamente portati a pensare, dal paziente che nel suo transfert ripete modelli infantili, ma anche dall'analista stesso. Qualche volta, in dipendenza da situazioni di vita dell'analista, quest'ultimo non è capace di interpretare adeguatamente questa seduzione. Non riesce quindi a trasformarla in un sentire empatico che accolga e contenga il desiderio del paziente utilizzandone l'energia per la sua trasformazione. Talvolta, purtroppo, e tutto ciò non è accettabile, accade che egli risponda alla richiesta di amore e comprensione formulata dal paziente, chiedendo a sua volta affetto e tenerezza. Certamente, questo sottile e inquietante gioco al rialzo è marcatamente più visibile e destabilizzante quando paziente e analista sono di sesso opposto. Sedurre un paziente per ottenerne affetto - un affetto che non sia riferito solo al suo ruolo ma anche al lato umano che si nasconde dietro la sua professione - significa in definitiva chiedergli proprio ciò per cui ha deciso di intraprendere una terapia. La capacità di coinvolgimento dell'analista, sia in termini di attenzione sia di comprensione, in tal caso tenderebbe, quasi sempre erroneamente, a creare le condizioni attraverso le quali il paziente possa curare le sue parti ferite, crescere e così emanciparsi da quel rapporto. Tuttavia il coinvolgimento dell'analista è inconscio ma molto bene finalizzato. E' vissuto nella segreta speranza di ricevere e, al contempo, di essere curato dal paziente. In una lettera a Sabina Spielrein, Jung scriveva: ««In questo momento Lei dovrebbe rendermi un po' di quell'amore, di quel debito, di quell'interesse spassionato che ho potuto darLe al momento della Sua malattia. Ora sono io l'ammalato» ». Dunque, il segreto di ogni seduzione analitica si può dire che sia racchiuso in questo bisogno, in quest'aspettativa nei confronti del paziente, non meno e non diversamente da quanto esso stesso si attenda dall'analista. Purtroppo, molto spesso, invece che salvare ed essere salvati si finisce solo con il distruggere il rapporto. Quando nel contesto analitico l'eros raggiunge una concreta realizzazione attraverso il corpo dell'altro, è molto facile che vengano meno i presupposti dell'efficacia terapeutica. Infatti non si crea un mondo di immagini per le quali proprio la rinuncia alla attualizzazione del sentimento prende forza. Va in frantumi quella dimensione in cui i nodi più intimi e indicibili vengono forse per la prima volta espressi e vissuti, anche se attraverso un piano fantasmatico. Al contrario è possibile che ci si imprigioni in una dinamica di recriminazioni e di richieste sempre più eccessive. Solo ritornando dolorosamente a se stessi e alle proprie ferite si può elaborare l'accaduto e, se non riparare, riuscire almeno a utilizzare la dinamica all'interno del proprio cammino di crescita. In questo modo, assumendosi il peso doloroso dei fatti, paziente e analista possono leggerli come un momento importante della loro storia personale. Ogni bravo analista, se è degno di questo nome, ha dovuto imparare da queste esperienze. Aldo Carotenuto Università di Roma


SCIENZE DELLA VITA. IL ««CASO MOLINETTE »» A TORINO Legionella, batterio subdoloInfezione difficile da identificare e da combattere e con una frequenzaampiamente sottostimata
Autore: FRANZIN LAURA, GIOANNINI PAOLO

ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: OSPEDALE MOLINETTE
LUOGHI: ITALIA
NOTE: INCHIESTA SU CASI DI LEGIONELLA NEGLI OSPEDALI DI TORINO

LA legionellosi, venuta di nuovo alla ribalta in seguito ai casi verificatisi all'ospedale Molinette di Torino, è una infezione provocata da batteri appartenenti al genere Legionella, bacilli aerobi Gram-negativi. Sono state isolate 41 specie, di cui circa la metà possono causare infezione nell'uomo. Questi batteri sono stati identificati dopo l'epidemia di Filadelfia del 1976, da cui deriva il nome ««malattia o morbo del legionario»»; la loro esistenza tuttavia era stata già documentata nel 1943. La Legionella può causare polmonite, febbre di Pontiac, oppure infezioni asintomatiche. La malattia del legionario è un'infezione delle vie aeree inferiori con polmonite, febbre elevata (oltre 39°C), tosse, nausea, vomito, diarrea, confusione mentale, interessamento simultaneo di vari apparati. Il periodo di incubazione è di 2-10 giorni. Legionella pneumophila sierogruppo 1 è responsabile di circa l'85% delle infezioni. Altri sierogruppi possono colpire soprattutto individui immunodepressi. Sono fattori predisponenti: età oltre i 50 anni, sesso maschile, fumo, presenza di deficit immunitario o di malattie metaboliche (diabete). Sono fattori epidemiologici di rischio: soggiorno in albergo o in ospedale nelle due settimane precedenti l'inizio dei sintomi. L'infezione è più frequente nel periodo estivo.Le Legionelle sono diffuse nell'ambiente acquatico naturale (acqua di pozzo, fiume, lago) dove vivono in simbiosi con amebe, protozoi e alghe. Nell'ambiente acquatico artificiale costruito dall'uomo, ad esempio condutture dell'acqua, possono trovare le condizioni idonee per lo sviluppo. Nell'acqua tra 20° e 50°C si moltiplicano, favorite dall'assenza di altri microrganismi, e dalla presenza di icrostazioni calcaree, biofilm, alcuni materiali plastici. Le legionelle sono state trovate nell'acqua calda potabile, nell'acqua termale, nelle fontane ricreative, nell'acqua per idromassaggio. La trasmissione dell'infezione avviene mediante inalazione di aerosol contaminato da Legionella, proveniente da acqua di doccia o di rubinetto o da impianti di aria condizionata, o più raramente per microaspirazione di liquidi in pazienti debilitati con sondini nasogastrici. L'ingestione di acqua in cui siano presenti questi microrganismi non comporta alcun rischio. Non è documentata trasmissione da persona a persona. La diagnosi clinica di legionellosi non è facile in quanto la malattia non dà sintomi specifici. In questo caso può apparire all'inizio come una sindrome influenzale. Nei pazienti immunodepressi o debilitati l'infezione è più severa e può portare a insufficienza respiratoria acuta. La diagnosi di laboratorio, può essere effettuata solo con esami specifici (ricerca di anticorpi nel siero, coltura del batterio da secrezioni respiratorie, ricerca dell'antigene nelle urine) che devono essere eseguiti tempestivamente e su campioni idonei. Gli esami devono essere richiesti espressamente dal medico, in quanto non sono eseguiti di routine e inoltre Legionella ha esigenze nutrizionali particolari e non cresce sui comuni terreni di coltura. La terapia antibiotica deve essere tempestiva, mirata e prolungata. La frequenza delle legionellosi è ampiamente sottostimata, soprattutto in Italia. In base ai dati dell'Oms nel 1997 sono stati notificati in Italia 80 casi (contro 212 in Francia che ha una popolazione simile), corrispondenti a 1,4 casi per milione di abitanti all'anno. Legionella è presente quasi ovunque nell'ambiente acquatico. Da uno studio condotto a Parigi già nel 1985, il 44,2% dei campioni di acqua prelevati nelle case o negli uffici conteneva Legionella. Risultavano contaminati il 64% dei campioni di acqua calda, il 75% dei serbatoi di acqua calda e 11 su 14 impianti di condizionamento dell'aria. Molti impianti idrici ospedalieri possono essere contaminati da Legionella (es. 68% a Quebec, Canada), ma la presenza del microrganismo non è sempre associata alla comparsa di infezione e non è stato stabilito un valore di concentrazione massima ammissibile di Legionella nell'acqua. E' evidente che in Ospedale vi sono soggetti più suscettibili. Sono a maggior rischio pazienti immunodepressi o in terapia immunodeprimente o cortisonica, diabetici, neuropatici, cardiopatici, oncologici, trapiantati. In ambiente ospedaliero sforzi particolari dovrebbero essere dedicati ai fini preventivi, soprattutto nei reparti che accolgono i pazienti a rischio. E' necessaria una revisione igienica, accurata e periodica degli impianti di distribuzione dell'acqua calda, allo scopo di ridurre il ristagno d'acqua e impedire la formazione di sedimento e di concrezioni calcaree. Occorre adottare alcune misure preventive, es. usare solo acqua distillata sterile nei gorgogliatori di ossigeno, per il lavaggio dei sondini nasogastrici e per apparecchiature a potenziale rischio (nebulizzatori, umidificatori). E' indispensabile attivare una sorveglianza epidemiologica per individuare casi di polmonite nosocomiale e diagnosticarli correttamente. La bonifica è complessa e difficilmente si riesce a eliminare completamente le Legionelle dall'impianto idrico. La decontaminazione dell'acqua è obbligatoria nei casi di legionellosi nosocomiale confermata. Possono essere adottati la superclorazione o l'innalzamento termico dell'acqua a più di 65° C. Entrambi i metodi presentano inconvenienti (valori di cloro alti non consentiti, corrosione di tubazioni oppure rischio di ustioni) e non sempre sono definitivamente efficaci. Laura Franzin Paolo Gioannini Università di Torino


SCIENZE DELLA VITA.. STUDI SULLA MICORRIZAZIONE Vita misteriosa del tartufo Una ricerca del Cnr sul genoma del ««Tuber»» Analisi biotecnologiche sul ciclo vitale e per riconoscere le diverse specie L'Italia ne ha 25 sulle 60 conosciute
Autore: BONFANTE PAOLA

ARGOMENTI: BOTANICA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: D. ALCUNE PORZIONI DI GENI RIBOSOMALI VENGONO AMPLIFICATE USANDO LA REAZIONE POLIMERASICA A CARENA (PCR)

LA retorica del tartufo vuole che si parli di questi funghi quando le giornate diventano brevi, la nebbia sale sui colli, iniziano i riti della vendemmia. Ma la scienza non è stagionale, i progetti seguono altri calendari, per cui i risultati del progetto ««Tuber: biotecnologia della micorrizazione»» sono stati presentati a Roma in una scintillante giornata estiva. La ricerca, finanziata dal Consiglio Nazionale delle Ricerche e da dieci regioni italiane e coordinata da Vilberto Stocchi di Urbino, ha impegnato 9 gruppi universitari e del Cnr (Urbino, Bologna, Parma, Perugia, Milano, Pisa, L'Aquila, Roma e Torino). Perché biotecnologia della micorrizazione? In tempi pieni di sospetto per le biotecnologie, diventa importante spiegare le tecniche che permettano l'analisi del genoma di Tuber e la costruzione di strumenti molecolari sono essenziali per comprendere il complesso ciclo vitale dei tartufi. Obiettivo del progetto era infatti in primo luogo fornire degli strumenti molecolari che permettessero il riconoscimento sicuro delle specie di tartufo, sia di quelle naturalmente presenti in Italia, sia di quelle commercializzate ma provenienti da altri paesi. Il riconoscimento deve essere efficiente non solo per il tartufo vero e proprio, ma anche per le "micorrize", strutture che il fungo forma sulle radici delle sue piante ospiti (quercia, tiglio, pioppo, salice, nocciolo). Se da un punto di vista economico, il tartufo è una voce in assoluto non imponente, le sue ricadute sul turismo, sulla ristorazione sia alta sia rurale sono tutt'altro che secondarie. Certificare l'identità dei Tuber in un paese come l'Italia che possiede almeno 25 delle 60 specie conosciute diventa interessante anche per la descrizione/conservazione della biodiversità. Un secondo obiettivo del progetto era più complesso, in quanto si proponeva di decifrare le regole basilari che comandano lo sviluppo del fungo e lo stabilirsi della sua fase di simbiosi con la pianta (fase di micorrizazione). L'ipotesi era che solo in questo modo fosse possibile aumentare la produzione del tartufo, intervenendo nel modo più naturale, cioè migliorando il contatto tra pianta e fungo e favorendo di conseguenza lo sviluppo del corpo fruttifero. Nei tre anni del progetto il primo obiettivo è stato ampiamente raggiunto grazie allo sviluppo di sonde molecolari che permettono la sicura identificazione delle specie di tartufo. Queste sonde per la diagnosi sono basate su particolari geni presenti nel tartufo come in tutti gli altri organismi viventi (i geni ribosomali). Poiché all'inizio del progetto, il genoma di Tuber (circa 0,15 picogrammi di Dna per nucleo) era una sorta di scatola nera, è stato produttivo studiare questi geni grazie a semplici tecniche basate sulla "reazione polimerasica a catena" (Pcr). Essi infatti sono numerosi, molto conservati durante l'evoluzione e rappresentano il punto di partenza per analisi di sistematica molecolare. In questi geni si sono identificate alcune sequenze di Dna che mostrano maggiore variabilità e che sono specifiche per i diversi Tuber. Si sono così sviluppate sonde per distinguere ben 9 Tuber diversi. Ad esempio estraendo il Dna dal Tuber magnatum (tartufo bianco d'Alba) si ottiene un'impronta che è esclusiva di questa specie e che permette di riconoscerla anche quando il fungo è associato alle radici di pioppo o di tiglio. Abbiamo verificato come le piantine micorrizate dal tartufo d'Alba siano molto rare: in un'indagine compiuta nell'ultimo anno su decine di campioni provenienti da tutta l'Italia ed etichettati come micorrizati da T. magnatum non più di 3-4 campioni sono risultati positivi. I ricercatori di Perugia, che si sono occupati di tartufi neri, hanno dimostrato che le piantine micorrizate da T. melanosporum sono molto più comuni e che in genere c'è una buona corrispondenza tra etichetta, analisi morfologica e controllo molecolare. La messa a punto di tecniche più avanzate (multiplex Pcr) ci permette infine di evidenziare come in condizioni di campo le radichette siano micorrizate da più tartufi contemporaneamente, oltre che da altri funghi. Capirne le ragioni (T. magnatum è meno competitivo di altri tartufi?) sarà un prossimo importante obiettivo. Un sito webb (http://irisbioc.bio.unipr. it/tuber/tuberkey.html) curato dal gruppo di Parma e di Bologna e disponibile anche su cd-rom (Tuberkey) riassume i caratteri morfologico-molecolari dei Tuber, mentre un volume redatto come manuale da laboratorio mette a disposizione protocolli per i laboratori degli enti locali che vogliano subito effettuare questo tipo di analisi. Decifrare i meccanismi del ciclo biologico del tartufo si è ben presto rivelato un obiettivo arduo e molte domande sono ancora senza risposta. I ricercatori si sono trovati ad affrontare una duplice difficoltà: un basso livello di conoscenza sui meccanismi biologici nel settore dei funghi micorrizici e difficoltà sperimentali nell'usare funghi appartenenti al genere Tuber come materiali di laboratorio. Tuber borchii, un bianchetto non pregiato, ma comerciabile in base alle leggi italiane, è stato scelto come modello sperimentale perché disponiamo ora di miceli in coltura pura e di micorrize in vitro, materiali che permettono una approfondita analisi in laboratorio. Partendo dall'ipotesi che era fondamentale capire le vie metaboliche che permettono la crescita del fungo e che queste vie erano verosimilmente simili a quelle che controllano lo sviluppo negli altri funghi, abbiamo concentrato la nostra attenzione su geni che sono importanti nella crescita di funghi ben noti come Neurospora o come Aspergillus. Si sono così clonati geni coinvolti nella ramificazione delle ife o nella sintesi della chitina, la molecola che forma lo scheletro dei funghi. Si è aperta così per la prima volta una finestra su un mondo sconosciuto: quello del genoma dei Tuber. Ma i gourmet che temono che la scienza tolga al tartufo la sua poesia (o il suo profumo) si rassicurino. I tartufi possono essere ora identificati con certezza, (e questo è una garanzia per tutti), possiamo fare serie ipotesi per migliorare la micorrizazione, ma il tuber transgenico non sembra essere alle porte nè è l'obiettivo di un serio progetto di ricerca. Paola Bonfante Università di Torino


SCIENZE DELLA VITA.. FISIOGNOMICA Il corpo, l'anima e il volto
Autore: BODINI ERNESTO

ARGOMENTI: PSICOLOGIA
NOMI: CENTINI MASSIMO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «FISIOGNOMICA, NEI SEGNI DEL VOLTO I DESTINI DELL'UOMO»

E' una disciplina antichissima, che ha trovato applicazioni nella medicina, nella psicologia e nella criminologia. Stiamo parlando della fisiognomica (dal greco physis, natura, e gnomon, conoscitore, interprete), una disciplina para-scientifica (a cavallo tra scienza e antropologia) che con il tempo è stata parzialmente istituzionalizzata e portata in una traiettoria proto-scientifica a partire dal XVI secolo. Su questo tema Massimo Centini, antropologo torinese, ha recentemente pubblicato Fisiognomica, nei segni del volto i destini dell'uomo, collana ««Altra medicina»», Red Edizioni. La fisiognomica adotta un metodo di analisi che, sia pure ancora rozzo e condizionato da empirismi di tradizione magica e astrologica, è diretto a fini che furono propri dell'antropologia positivista. Un dato di fatto sul quale sembra non ci siano perplessità ermeneutiche riguarda la ««certezza»» della fisiognomica in relazione alla presunta solidarietà tra corpo e anima, tra apparenza ed essenza, tra forma visibile e spirito. La ««scienza fisiognomica»» si è basata sulla credenza che in ogni volto vi fosse stampata la storia e il sentire dell'individuo. La conoscenza della persona osservata è raccolta in quella ««segnica»» complessa che il Petrarca definiva ««aria»», in grado di ««produrre quella somiglianza che ci richiama alla mente il padre non appena abbiamo visto il figlio, pur risultando diverse tutte le misure, se si facesse una misurazione»». Centini, che recentemente ha curato anche il volume Della fisionomia dell'homo di Giovan Battista della Porta (Nino Aragno Editore, 660 pagine), suggerisce un percorso di approccio all'argomento che dal passato remoto giunge all'epoca moderna passando per scuole, metodi e teorie, offrendo così scorci di notevole interesse riguardo ai rapporti tra la fisiognomica, la criminologia e la psicologia. Ernesto Bodini


SCIENZE DELLA VITA. INCENDI ESTIVI L'elusiva dinamica delle fiamme Studio israeliano sul comportamento del fuoco
Autore: VALERIO GIOVANNI

ARGOMENTI: ECOLOGIA
NOMI: MOSES ELISHA, ZIK ORY
ORGANIZZAZIONI: WEIZMAN INSTITUTE OF SCIENCE DI ISRAELE
LUOGHI: ITALIA, ASIA, ISRAELE, TEL AVIV

IN estate la scena si ripete sempre con lo stesso copione. Un bosco prende fuoco. Le fiamme avanzano rapidamente in modo imprevedibile, e per i soccorsi è difficile contrastarne il procedere. Il finale potrebbe essere diverso se si potesse anticipare il comportamento del fuoco. E' ciò che hanno provato a studiare alcuni ricercatori dell'israeliano Weizmann Institute. Prima di questo lavoro, si credeva che la propagazione delle fiamme seguisse sempre modelli caotici, regolati cioè dalle leggi del caos. Da anni, con la teoria del caos si cerca di spiegare fenomeni complessi, come quelli economici e atmosferici, o come la distribuzione degli errori nelle trasmissioni telefoniche. Ma si tratta di eventi elusivi, nei quali basta una piccolissima variazione delle condizioni iniziali per ottenere alla fine risultati completamente diversi. Così è per il fuoco. Impossibile trovare una legge fisica semplice per predirne l'avanzata: basta osservare la legna che arde per rendersene conto. Responsabile del comportamento caotico delle lingue di fuoco è la convezione, uno dei modi in cui si propaga il calore. E' un processo nel quale l'avanzare delle fiamme è legato allo spostarsi dell'aria calda verso le zone più fredde. Questo spostamento è descrivibile soltanto con le leggi del caos. Per studiarne il comportamento, i ricercatori Ory Zik e Elisha Moses hanno ««schiacciato»» il fuoco, costringendolo a muoversi solo in due dimensioni. Nel loro esperimento, le fiamme si propagano attraverso un foglio di carta contenuto in una scatola trasparente, dove è possibile controllare la quantità di ossigeno introdotta. Con sorpresa, gli scienziati del Weizmann Institute hanno scoperto che il fuoco brucia il foglio lasciando dietro di sè tracce di cenere lunghe come tentacoli, con dinamiche assai più semplici dei modelli caotici. La propagazione delle fiamme, almeno in certe condizioni, è quindi governata da leggi che descrivono fenomeni molto più stabili, come la penetrazione di un liquido in un materiale poroso. I risultati a cui sono giunti i ricercatori del Weizmann Institute sono simili a quelli ottenuti dagli scienziati della Nasa. Parallelamente (e indipendentemente) alle ricerche a terra degli israeliani, l'ente spaziale americano ha lanciato un esperimento a bordo dello Space Shuttle per studiare come il fuoco si propaga nello spazio. Anche in questo caso gli scienziati hanno rilevato che le fiamme avanzano molto lentamente, in maniera costante, lasciandosi dietro lunghe ««dita»» nere e sottili, come i tentacoli del mostro di un film horror degli Anni Cinquanta. La spiegazione è semplice: gli astronauti americani hanno osservato esattamente lo stesso modello ««a dita»» degli esperimenti del Weizmann Institute, ma in tre dimensioni invece che in due. Quindi la scatola bidimensionale dei ricercatori israeliani fornisce subito un'alternativa a basso costo, da usare comodamente a terra, per lo studio della diffusione delle fiamme a bordo di veicoli spaziali. Siamo ancora lontani dal prevedere il comportamento del fuoco per intervenire negli incendi. Ma i risultati dei ricercatori israeliani (pubblicati sulla rivista Physics Today) consentono di capire meglio le fiamme che si muovono lentamente e in assenza di convezione, particolarmente pericolose perché non generano abbastanza fumo e calore per attivare i tradizionali rivelatori di incendi. Una migliore comprensione della dinamica del fuoco potrebbe aiutare a rilevare le fiamme che si propagano attraverso superfici chiuse da pannelli, come negli aerei. Dove anche una piccola scintilla può condurre alla catastrofe. Giovanni Valerio


SCAFFALE Richard P. Feynman: «Il senso delle cose», Adelphi
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ITALIA

FORSE il più geniale fisico teorico dopo Einstein, premio Nobel per la sua elettrodinamica quantistica, Richard Feynman fu anche uno straordinaio conferenziere e un brillante divulgatore della scienza. In questo libro scopriamo in più la sua attitudine a riflettere filosoficamente sulla validità della ricerca e sui suoi rapporti con il mondo dei valori morali e religiosi. Ne esce una immagine della scienza ««forte»» ma non scientista, nella quale l'incertezza, il dubbio, la perfettibilità sono le caratteristiche essenziali per distinguere il sapere scientifico dalle altre forme di conoscenza. Lettura agile e profonda, dimostra come la consapevolezza filosofica sia compagna del grande scienziato.


SCAFFALE Gabriele Vanin: «Le eclissi», Mondadori
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ASTRONOMIA
LUOGHI: ITALIA

L'atteso 11 agosto, giorno di una eclisse totale di Sole che interesserà una popolosa striscia d'Europa, è ormai vicino: munirsi di questo libro è il miglior modo di prepararsi allo straordinario fenomeno astronomico. Gabriele Vanin, astrofilo appassionato e autore di vari altri libri dedicati alla scienza del cielo, parte da una rassegna storica delle osservazioni di eclissi, ne descrive tutti gli aspetti scientifici e conclude con un ampio repertorio di informazioni sull'eclisse imminente.


SCAFFALE Pascal Duris e Gabriel Gohau: «Storia della biologia», Einaudi
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: BIOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Densissima di informazioni, questa storia della biologia, un po' come la storia della letteratura italiana di Francesco De Sanctis, è costruita intorno ad alcune idee-cardine che conferiscono solidità al discorso: continuità e discontinuità della natura, il codice genetico come fattore unificante del vivente, il ruolo di alcuni meccanisimi fondamentali come la respirazione, la circolazione del sangue, il sistema nervoso, i messaggi ormonali. Idee e fatti, osservazioni e interpretazioni, viste nella dialettica stessa che ha portato alla biologia moderna.


SCAFFALE Alfredo Cattabiani: «Planetario», Mondadori
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: ANTROPOLOGIA ETNOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Il cielo e le stelle non sono dominio esclusivo degli astronomi, ma patrimonio della cultura intera: le costellazioni, per esempio, sono un'affascinante testimonianza della mitologia e della visione del mondo degli antichi. Alfredo Cattabiani ricostruisce questo patrimonio di conoscenze e di tradizioni che affonda le sue radici fino alla civiltà assiro-babilonese. Talvolta correndo il rischio di attribuire ad esse una validità che va oltre quella antropologica.


SCAFFALE Robert Silverberg: «Navigatori dell'ignoto», Piemme
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: GEOGRAFIA GEOFISICA
LUOGHI: ITALIA

E' difficile per noi, oggi, immaginare quale sfida all'ignoto furono le esplorazioni dei grandi navigatori, compiute in un tempo in cui molti ancora credevano che la Terra fosse un disco piatto circondato dall'oceano. Magellano, con il suo primo giro del mondo, fu l'uomo che inaugurò la concezione moderna del nostro pianeta: in certo senso la sua impresa fu rivoluzionaria quanto la cosmologia di Copernico, e il suo viaggio non fu meno avventuroso di quanto potrà essere una futura spedizione verso Marte. Così non c'è da stupirsi che a scrivere questo avvincente e documentato resoconto delle navigazioni di Magellano, Diaz e Drake sia stato uno dei più apprezzati scrittori di fantascienza, Robert Silverberg, nonché studioso del tardo medioevo. Elegante la versione di Franca Genta Bonelli, tanto da far dimenticare che ci si trova di fronte ad una traduzione.


SCAFFALE Ivar Ekeland: «A caso», Bollati Boringhieri
AUTORE: BIANUCCI PIERO
ARGOMENTI: MATEMATICA
LUOGHI: ITALIA

Il caso, il calcolo delle probabilità, la teoria dei giochi sono campi affascinanti e fortemente controintuitivi: ci sembra di capire come funzionano, ma il più delle volte ci inganniamo. Ivar Ekeland , con dovizia di aneddoti, introduce il lettore a una visione non ingenua del caso.




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