TUTTOSCIENZE 15 dicembre 99


VERRA' COSTRUITA A TORINO In anteprima la ««finestra»» della nuova Stazione Spaziale Servirà a rendere sicuro l'attracco, a seguire i lavori del braccio-robot e a osservare l'universo
Autore: RAVIZZA VITTORIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
ORGANIZZAZIONI: ALENIA AEROSPAZIO, ESA, NASA
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, TO, TORINO

SARA' una fantastica camera con vista al disopra della Terra, a 450 chilometri di altezza, dalla quale gli astronauti della Stazione spaziale internazionale potranno guardare giù verso casa, di tanto in tanto, per mitigare la nostalgia. Ma da essa potranno anche, e questa è la funzione principale, manovrare il braccio robotizzato con cui compiere operazioni all'esterno della stazione. Anche gli astronomi potranno usarla come una specola sull'universo. Una specola tecnologicamente molto complessa, la cui costruzione è stata affidata dalla Nasa e dal'Esa, all'italiana Alenia Aerospazio. Il costo per due esemplari, 20 milioni di Ecu pari a 39 miliardi di lire, sarà sostenuto dall'Esa come corrispettivo del trasporto con gli shuttle di attrezzature, astronauti e esperimenti europei verso la Stazione. Il lavoro inizia formalmente con una riunione di tecnici in questi giorni a Torino; il trasporto in orbita è previsto nell'agosto del 2003 con uno shuttle, quando la stazione sarà già in uno stadio di montaggio avanzato e sarà ormai stabilmente abitata da astronauti e scienziati. Le cupole, esagonali, hanno un diametro di circa due metri e un'altezza di uno e mezzo, spazio sufficiente per ospitare due astronauti e contenere la consolle del braccio robotizzato. Un primo esemplare sarà inserito in corrispondenza di uno dei boccaporti del Nodo numero 1, l'elemento di giunzione tra i diversi moduli già messo in orbita come primo nucleo di quel gigantesco meccano spaziale che è la Stazione; in seguito, quando questa si sarà arricchita di altri elementi, sarà collocato il secondo sul Nodo numero 3, più decentrato (in costruzione presso Alenia), da dove gli astronauti avranno una visione a 360 gradi sulla loro casa orbitante. Il progetto di Alenia prevede una struttura esagonale di alluminio, ricavata da un unico forgiato in modo da evitare le saldature, con sei finestrini trapezoidali più uno rotondo alla sommità. Quando la cupola è in attività i vetri multistrato spessi dieci centimetri sono in grado di proteggere gli astronauti dalle radiazioni e di resistere all'impatto di eventuali piccole meteoriti; quando non viene utilizzata entrano in funzione 7 "tapparelle" esterne che ripiegandosi coprono i finestrini. Al progetto della cupola aveva cominciato a lavorare la Boeing; poi, però, è stata rivista la ripartizione del lavoro tra Usa ed Europa e l'incarico di costruirla è toccato agli europei; a questo punto la scelta di Alenia è stata quasi obbligata dato che l'azienda italiana ha ormai acquisito un'incontestata posizione di leader nella progettazione e costruzione di grandi strutture spaziali. Per la cupola dovranno essere affrontati alcuni problemi costruttivi inediti; rispetto ai pochi e piccoli oblò dei veicoli spaziali attuali, come gli shuttle, la Mir russa e i moduli della stessa stazione spaziale in costruzione, si tratta di un passo avanti impegnativo sia per le dimensioni della costruzione sia per la sua forma, non inserita nella struttura principale ma sporgente all'esterno. Con Alenia, capocommessa, collaborano altre sei imprese europee; la spagnola Casa che fabbrica le "tapparelle", la belga Verhaert che fornisce la struttura secondaria, la svizzera Apco che lavora al sistema di protezione dalle meteoriti, la svedese Lindholmen che ha costruito il modello della cupola e studiato i problemi ergonomici e la tedesca Dasa-Dornier che farà l'analisi dei sistemi di sopravvivenza. Alla presentazione del modello alcuni astronauti hanno detto di apprezzare molto le possibilità offerte dala cupola, come quella di compiere dall'interno attività che, per esempio sulla Mir, dovevano essere svolte uscendo nel vuoto, di seguire a vista l'attracco dei veicoli in arrivo dalla Terra guidandoli con precisione ai boccaporti e la possibilità di dare un'occhiata fuori verso Terra: per chi è impegnato in lunghe missioni, un grande conforto psicologico. Vittorio Ravizza


LIBRI&ANIMALI Che bravo quel gatto! E' psicologo
Autore: BIANUCCI PIERO

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
NOTE: ANIMALI, PSICOLOGIA

CHIUNQUE abbia avuto in casa anche solo per qualche giorno un gatto o un cane lo sa benissimo: come intelligenza forse noi li battiamo, ma sul piano affettivo siamo incredibilmente simili. La comune appartenenza alla classe dei mammiferi fa sì che ci sia un analogo linguaggio del corpo - strusciamenti, carezze, ricerca del contatto fisico - e una forte somiglianza nell'espressione dei sentimenti - gioia, tristezza, paura, amicizia, ostilità -, come del resto già Darwin aveva notato, gettando le basi dell'etologia. Stando ben alla larga dalle tante medicine alternative che così bene attecchiscono in questi anni di ritorno all'irrazionale, non c'è quindi da stupirsi se la compagnia di un cane o di un gatto svolge una funzione benefica, quasi psicoterapeutica, come si riferisce qui accanto. Magari anche indirettamente: per esempio avere un gatto in casa offre ai ««single»» una motivazione esistenziale (perché ci si deve occupare di lui) mentre nei rapporti di coppia, in sè bipolari, il micio rappresenta un terzo polo, che offre una via d'uscita alle tensioni. Per capire meglio somiglianze e differenze, ci vengono in aiuto alcuni libri freschi di stampa che vale la pena di segnalare, tanto più in giorni di corsa ai regali di Natale. ««Vita segreta degli animali»» di Giorgio Celli (Piemme, 188 pagine, 28 mila lire) tratta ampiamente proprio il tema delle somiglianze e delle differenze. Un capitolo è dedicato alle scimmie che dipingono, e la conclusione di Celli è eloquente: ««Se è vero che Leonardo, e non Cita, ha dipinto la ''Giocondà', è vero pure che una scimmia, nella foresta, non avrebbe saputo che farsene di quel capolavoro»». Pure di Giorgio Celli è ««Bestiario postmoderno»», edito da Muzzio, dove, tra tante notizie, ne troverete una sorprendente: ci sono più specie di mosche in Italia che mammiferi sull'intero pianeta (molte, purtroppo, sono cocchiere...). Sui gatti, due ottime proposte: la ««Guida pratica al comportamento del gatto»» di Alexa Capra, Patrizia Messeri e Daniele Robotti (De Agostini, 49 mila lire) e ««L'enciclopedia del gatto»» di Bruce Fogle (Mondadori, 236 pagine, 75 mila lire). Entrambi i volumi hanno splendide illustrazioni, come pure ««La vita degli uccelli»» di David Attenborough, il più noto naturalista inglese (De Agostini, 320 pagine, 59 mila lire). Due proposte, ora, per imparare a prenderci cura dei nostri compagni domestici: ««Rimedi casalingi per cani e gatti»», opera della redazione scientifica di ''Prevention'' (Longanesi, 412 pagine, 38 mila lire) e ««La medicina naturale per cani e gatti»» (Zelig, 524 pagine, 34 mila lire). Fuori tema, ma solo in apparenza, è infine ««Formicai, imperi, cervelli»» di Alberto Gandolfi (Bollati Boringhieri, 296 pagine, 45 mila lire). Il libro è in effetti una introduzione alle scienze della complessità. Ordine, caos, evoluzione biologica, cervello, ecologia, economia sono i temi toccati. Leggendolo, ritorna in mente il fisico premio Nobel Murray Gell-Mann, che fin dal titolo di un suo libro di qualche anno fa individuava nel quark l'oggetto più semplice esistente in natura e nel giaguaro il simbolo dei più complessi. Ma chi conosce la psicologia dei gatti sa che forse sono ancora più complicati dei giaguari... Piero Bianucci


CURIAMOCI CON UN CUCCIOLO
AUTORE: SCANDURRA MAURIZIO
ARGOMENTI: ZOOLOGIA
NOMI: BUTTRAM DEBRA, GALIMBERTI MARCELLO, TAVIAN NICO
ORGANIZZAZIONI: CSE
LUOGHI: ITALIA, ITALIA
NOTE: ANIMALI, PSICOLOGIA, MEDICINA

NEGLI Stati Uniti scodinzolano ormai da qualche anno nei reparti di alcuni ospedali. Sono cani dell'età di due-tre anni che vengono consigliati dai medici quasi come se fossero farmaci: pare che siano la soluzione ideale per tenere alto il morale dei pazienti e accompagnarli sulla via della guarigione. A modo loro, ««assistono»» i malati, si fanno accarezzare, portano giornali e ciabatte la mattina in cambio di qualche buffetto. Piccoli gesti che, come è stato accertato da molti psicologi, aiutano le persone a guarire più in fretta. Una ricerca presentata nei giorni scorsi negli Stati Uniti ha dimostrato che la compagnia di animale o di un gatto abbassa la pressione negli ipertesi e diminuisce lo stress. E ora quella che in inglese viene chiamata Pet Therapy (terapia con il cucciolo o Fido-terapia), approda anche in Italia. Per quanto riguarda il nostro Paese, i cani non sono ancora entrati in ospedale (occorrono ovviamente cautele igieniche e non solamente igieniche), ma hanno già fatto il loro ingresso al Centro Servizio Educativo (Cse) di Lainate, in provincia di Milano, una struttura dove sono ricoverati ragazzi con gravi handicap di tipo fisico (tetraplegia e paraplegia), sensoriale (non vedenti, disturbi del linguaggio), affetti da cerebropatia e da quel grave disturbo psichico che impedisce qualsiasi normale rapporto affettivo e intellettuale con il mondo esterno noto come ««autismo»». L'iniziativa viene realizzata in collaborazione con l'Associazione Dimensione Animale, coordinata dal veterinario Nico Tavian e da tempo impegnata anche sul fronte dei maltrattamenti e dell'abbandono degli animali. E' Tavian a selezionare di persona i cuccioli ritenuti idonei a sostenere uno stretto contatto sociale con i giovani pazienti del Cse. Inoltre, i controlli periodici effettuati dalla veterinaria Noemi Mandelli verificano lo stato di salute degli animali impiegati, il carattere docile e la facilità di rispondere ai comandi impartiti. ««Abbiamo iniziato a praticare la Pet Therapy tre anni fa con conigli, gatti e cani di piccola taglia»», dice Angela Riva, una delle educatrici professionali che insieme con Chiara Crippa e con il volontario Giovanni Angeletti (un laureando in veterinaria) coordina l'intero progetto. ««Con il tempo, però, ci siamo accorti che questi animali non riuscivano a instaurare un contatto diretto con i nostri ragazzi, stimolando al contempo il movimento degli arti - spiega ancora Angela Riva -. Tutti risultati, questi, che abbiamo raggiunto già da un anno con l'ingresso nel centro di Zucchero, un Barbone Gigante dotato di grande intelligenza e docilità che si presta molto bene alle attività con i pazienti»». Certo, non è facile. Anche cani e gatti, prima di trasformarsi in piccoli infermieri, hanno bisogno di lunghi e faticosi addestramenti che durano anche più di un anno. A Bosisio Parini, in provincia di Lecco, c'è un posto dove gli amici a quattro zampe vengono addestrati a essere eroi tutti i giorni. Sono cani pronti a portare le stampelle al padrone con difficoltà motorie, ad accendere la luce e ad abbaiare in caso di bisogno per attirare l'attenzione e ottenere aiuto, a destare dal sonno chi non può sentire la sveglia, come accade nel caso delle persone audiolese. E, ancora, sono capaci di aprire porte e armadietti, di raccogliere oggetti caduti e renderli al proprietario, di avvertire i vicini di casa qualora il loro padrone e assistito venga colto da malore. A promuovere l'iniziativa in Italia sono Marcello Galimberti, 38 anni, e Debra Buttram, di 42, che dal 1990 addestrano cuccioli di Labrador e Golden Retriver. Oggi, dopo molti sforzi, assaporano le prime meritate soddisfazioni. Cinque dei loro cani sono stati infatti affidati ad altrettanti disabili. ««Il problema è che in Italia non si vuole comprendere quanto sia importante l'aiuto offerto da un cane»», dice Galimberti. ««In America questi animali, una volta addestrati e con le opportune garanzie, vengono lasciati girare nei reparti ospedalieri ormai da molti anni. A distribuire affetto.»» . Lo sa bene lui che, per conoscerne a fondo la Pet Therapy, ha trascorso due mesi negli Stati Uniti grazie alla vincita di una borsa di studio. Ha anche fondato un'associazione, l'Aiuca, con il compito di diffondere i risultati raggiunti nel campo della Pet Therapy. I cani vengono addestrati meticolosamente per due anni. Scelti per il loro carattere mansueto e la loro pazienza, i Labrador e i Golden Retriver imparano una ottantina di comandi: tutto ciò che può servire ad aiutare il loro futuro padrone viene loro insegnato accuratamente. Poi, dopo un lungo tirocinio, vengono dati in affidamento. ««Quella che comunemente viene chiamata Pet Therapy, genera in realtà accese polemiche tra gli studiosi»», aggiunge Debra Buttram, laureata in pedagogia. ««Alcuni psicologi sostengono che affidare un cane, un gatto o un altro animale domestico a una famiglia con persone disabili creerebbe solo altri disagi. Altri medici, invece, credono che il solo fatto di regalare un cucciolo a un portatore di handicap sia sufficiente per il buon successo della terapia. Due errori, questi, gravissimi, che in America sono stati corretti da una quindicina d'anni. Negli Usa, infatti, l'addestramento degli animali viene sempre più spesso integrato con idonee terapie psicofisiche per i malati»». Il guaio è che un cane-infermiere può costare fino a venti milioni di lire. In Italia, senza sponsor o convenzioni, presto questa utile esperienza attualmente solo ai suoi primi passi potrebbe essere completamente abbandonata. Maurizio Scandurra


MONUMENTO ASTRONOMICO DA SALVARE Palermo, un pulpito dimezza la meridiana Progettata e costruita da Giuseppe Piazzi nella Cattedrale due secoli fa
Autore: BATTAGLIA PIPPO

ARGOMENTI: METROLOGIA
NOMI: PIAZZI GIUSEPPE
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, PA, PALERMO

CHI visita la Cattedrale di Palermo s'imbatte in un pulpito senza storia nè gloria, di cui tuttavia non si può far a meno di ammirare l'ordinaria fattura: anzi, lo si osserva con estrema attenzione, poiché è collocato sull'antica e splendida meridiana progettata dall'astronomo Giuseppe Piazzi. Il turista cerca invano di comprendere quali preziose doti artistiche fanno del pulpito - per l'esattezza, propriamente si tratta di un ««ambone»» - un oggetto così importante da poter occultare e dimezzare la meridiana: un enigma che si pone a chiunque entri nella chiesa dove riposa Federico II, che fu Stupor Mundi e che certamente stupito resterebbe del mondo se potesse vedere un simile insulto all'ingegno. Il pulpito - continueremo a chiamarlo così - è parte integrante di una vasta pedana che va dall'altare maggiore fino alle prime file di banchi e sedie dei fedeli ed è situato esattamente sulla meridiana del Piazzi da più di dieci anni. Dunque nella nostra terra è più che mai provvisorio: siamo certi che qualche prelato si accorgerà di avere a disposizione centinaia di metri quadrati tra l'altare maggiore e le sedie dove poter sistemare il pulpito ridandoci integra la meridiana. Quest'ultima fu realizzata dallo scopritore di Cerere per un'effettiva necessità pratica e non per abbellire la chiesa nè tanto meno per lasciare un segno della sua conoscenza della meccanica celeste. Nella metà del Secolo dei Lumi si avviarono diverse riforme sociali, e tra queste quella del tempo, che determinò la sostituzione della misura italiana con quella francese, fissando l'inizio del giorno civile col passaggio del Sole all'antimeridiano. Il nuovo metodo di scandire il tempo rese necessario pubblicizzare l'istante del mezzogiorno, compito che fu affidato agli astronomi: così quelli di Brera nel 1786 realizzarono la meridiana del Duomo di Milano mentre quella della Cattedrale di Palermo, costruita sui calcoli del Piazzi, fu inaugurata il 4 giugno 1801. Essa appartiene a quel tipo di meridiane dette a camera oscura, che a quell'epoca furono disposte all'interno di grandi fabbriche, soprattutto chiese, e consistono in una verga metallica o marmorea di solito incastonata nel pavimento che rappresenta un tratto del meridiano locale: quando è toccata da un fascio di luce solare indica con estrema precisione il mezzogiorno. Nelle meridiane l'ora si ricava tramite uno gnomone: in quella progettata dal Piazzi lo gnomone è un foro praticato quasi alla base di una delle cupole che costellano il tetto della navata laterale della Cattedrale. Di qui entra un fascio di raggi solari che cade sulla verga nel momento in cui il Sole transita sul meridiano locale. Giorno dopo giorno il fascio di luce solare tocca punti diversi della meridiana in funzione del variare dell'altezza del Sole sull'orizzonte: allo stato attuale nella Cattedrale di Palermo succede che nel periodo autunno-inverno il fascio di luce non cade più sulla verga ma sul pulpito che la occulta. La verga della meridiana di Palermo è abbellita, nei suoi 18,726 metri di distanza tra i punti solstiziali, dalla raffigurazione dei dodici segni zodiacali in marmi policromi e dovrebbe essere un monumento nazionale; e come tale dovrebbe esser curato e preservato. In realtà non è così: infatti non vi è alcun cartello nè fuori nè dentro la Cattedrale che ne indichi la presenza e la funzione; anzi visitando questo luogo di culto tutto lascia pensare che sia ritenuta dalle autorità ecclesiastiche locali un inutile orpello, tanto da occultarlo. Inaspettatamente però, la meridiana di Palermo sta assurgendo alle cronache appunto per il fatto che è dimezzata, questa peculiarità attribuitale dalla curia locale la fa unica al mondo e fintantoché resterà in questo stato sarà una singolare attrazione turistica. Pippo Battaglia


OSSERVAZIONI CONTROVERSE I fulmini globulari sono ancora un mistero Un fenomeno elettrico che i fisici stentano a spiegare
Autore: CARBOGNANI ALBINO

ARGOMENTI: FISICA
LUOGHI: ITALIA

I fulmini globulari, o Ball Lightning (BL), sono uno dei fenomeni atmosferici meno compresi e manca una teoria che li descriva con cura. Uno dei maggiori problemi nello studio dei BL viene dal fatto che le osservazioni sono di tipo visuale, raccolte da testimoni occasionali. Le osservazioni strumentali sono scarse: finora non si sono individuati luoghi privilegiati dove i BL compaiono con maggiore frequenza. Le testimonianze russe da sole costituiscono quasi il 60% delle osservazioni. In ordine sparso seguono altri paesi. L'Italia è assente. Nel 90% dei casi i BL sono descritti come sfere. Le dimensioni vanno da pochi centimetri a diversi metri. Il diametro più comune è compreso fra 10 e 40 centimetri. Di solito le sfere sono colorate, i colori più frequenti sono il rosso il giallo o un insieme dei due. Il bianco è riportato in circa 1/5 delle testimonianze. Un BL può apparire solido (con un involucro che sembra riflettere la radiazione dell'ambiente esterno), rotante o in "combustione". Quest'ultimo aspetto è tipico dei BL con piccolo diametro. I BL rotanti sono multicolori e circondati da un involucro semitrasparente. Il moto è una delle proprietà caratteristiche dei BL. Può essere da nube a nube, dal suolo alle nubi (rarissimo), dalle nubi verso il suolo, orizzontale vicino al suolo, casuale in prossimità del terreno, o stazionario. Alcuni BL sembrano attratti dagli oggetti metallici e ci sono testimonianze di BL in moto controvento. Le velocità tipiche dei BL sono fra 0,1 e 10 metri al secondo. Certe testimonianze parlano di sibili e odori emessi dai BL. Gli odori descritti sono quello dell'ozono e dello zolfo. Nel 40% dei casi la durata di un BL è inferiore ai cinque secondi, mentre nel 7% la durata è superiore ai 100 secondi: più un BL è grande, maggiore è la sua durata. E' proprio la lunga vita dei BL la maggiore sfida per qualsiasi teoria che tenti di spiegarne la natura. Nel 50% dei casi l'osservazione del BL avviene dentro edifici. Spesso il BL penetra nelle abitazioni attraverso porte e finestre chiuse. Questa proprietà è piuttosto sorprendente, perché in una parte dei casi non si registrano danni ai vetri a causa dell'attraversamento. Il 90% dei BL è associato a temporali, solo il 10% avviene a cielo sereno. La distribuzione annuale del numero di BL osservati nell'emisfero nord segue quella dei temporali, con un massimo nel mese di luglio, quando i temporali sono più frequenti. Le teorie sui BL si dividono in due grandi filoni: quelle con la sorgente di energia esterna al BL e quelle con la sorgente all'interno del BL stesso. Ognuna ha pregi e difetti. Vediamo la teoria più nota, quella elettromagnetica, formulata da Kapitza negli anni '50. Per Kapitza la lunga vita dei BL è dovuta alla presenza di onde elettromagnetiche stazionarie fra nubi e suolo emesse durante i temporali. Le regioni dove le onde hanno un minimo di intensità (interferenza distruttiva) sono dette nodi, mentre quelle dove l'intensità è massima (interferenza costruttiva) sono dette antinodi. Negli antinodi l'onda elettromagnetica può essere così intensa da separare gli elettroni dalle molecole dell'atmosfera, producendo una piccola regione di gas allo stato di plasma. Un plasma può assorbire onde elettromagnetiche di frequenza opportuna aumentando l'energia cinetica delle cariche e provocando ulteriore ionizzazione dell'aria. Da questo processo a cascata nasce il BL, che emette radiazione grazie alla interazione ioni-elettroni. Il BL continua ad esistere fino a quando persiste il sistema di onde stazionarie che lo rifornisce di energia dall'esterno. Di recente sono stati rilevati dei brevi impulsi radio molto intensi originati da fulmini di eccezionale potenza e della frequenza circa giusta per dare luogo ai BL secondo il meccanismo di Kapitza. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che sistemi di microonde stazionarie possono dare luogo a "sfere luminescenti". I tentativi di riprodurre i BL in laboratorio sono innumerevoli. Gli esperimenti più interessanti sono quelli di Barry degli anni '70. Barry riuscì a riprodurre BL applicando una tensione elevata a due elettrodi filiformi posti in atmosfera standard con piccole percentuali di idrocarburi. In questo modo furono ottenute sfere luminose di qualche centimetro di diametro, vita media di qualche secondo e moto casuale. Gli esperimenti di Barry sono stati ripresi dai Giapponesi Ofuruton e Ohtsuki, che hanno ottenuto BL con vita media più lunga aggiungendo delle fibre di cotone nella miscela. Ma strada per capire i BL, sia dal punto di vista teorico sia sperimentale, è ancora lunga. Albino Carbognani Ist. Naz. di Fisica Nucleare


DIBATTITO Teologia in laboratorio Un libro fa discutere ricercatori e fedeli
Autore: ODIFREDDI PIERGIORGIO

ARGOMENTI: EPISTEMOLOGIA
NOMI: GUITTON JEAN, VATTIMO GIANNI
LUOGHI: ITALIA
NOTE: SCIENZA E RELIGIONE

LA riformulazione delle domande teologiche in termini fisici, logici e matematici, lungi dall'essere un delirio di potenza e un tentativo di estendere impropriamente l'indagine scientifica ad ambiti metafisici che non le competono, non è che un naturale sviluppo di tendenze implicite in entrambi i campi della fede e della ragione. Gli scienziati non possono ignorare i fatti: diversamente da certi filosofi, che si nascondono dietro il fragile paravento del motto di Nietzsche che ««ci sono solo interpretazioni»». E i fatti della storia della religione occidentale sono, anzitutto, che il Dio degli Ebrei si presentava in una forma antropomorfa e personale nelle prime versioni del Pentateuco, anteriori al 622 a.C., e acquistò un carattere cosmico e astratto soltanto nell'ultima versione, posteriore al 458 a.C., alla quale appartiene il famoso inizio della Genesi. Quanto invece al Dio del Cristianesimo, mille anni dopo la Sua incarnazione la Scolastica si concentrò su versioni disincarnate e puramente intellettuali, alle quali si riferiscono le famose prove di esistenza: da quella ontologica di Sant'Anselmo, alle ««cinque vie»» di San Tommaso d'Aquino. Sbaglia dunque Gianni Vattimo, che in Credere di credere identifica l'essenza del Cristianesimo nella progressiva personalizzazione della divinità. E ha ragione Jean Guitton, che in Dio e la scienza identifica Dio con l'osservatore quantistico dell'universo, procedendo nel percorso storico di una sua spersonalizzazione e astrazione. Terzo fra cotanto senno, il mio libro Il Vangelo secondo la Scienza segue un percorso tracciato da un filo di Arianna che intesse la storia del pensiero teologico-scientifico, da Pitagora a Spinoza, da Newton ad Einstein, e va alla ricerca di riformulazioni dei concetti teologici che parlino non più attraverso miti adeguati ai pastori della Palestina di duemila anni fa, bensì attraverso metafore scientifiche comprensibili all'uomo tecnologico dell'Occidente contemporaneo. Naturalmente si possono capire le resistenze delle istituzioni religiose, che non hanno mai visto di buon occhio l'impresa di razionalizzare la teologia. Ad esempio, i concili di Soissons del 1121 e di Sens del 1140 condannarono Abelardo, che voleva applicare la ragione alla fede, e Innocenzo II lo scomunicò. Il vescovo di Parigi condannò invece nel 1277 Tommaso d'Aquino, benché nella Fides et ratio Giovanni Paolo II dica oggi di lui che ««è sempre stato proposto dalla Chiesa come maestro di pensiero e modello del retto modo di fare teologia»». ««Si parva licet componere magnis»», niente di strano, dunque, se ««Avvenire»» e ««Osservatore Romano»» hanno attaccato il mio libro. Resistenze uguali e contrarie si possono prevedere dall'ambiente scientifico, che non ama nè ammettere nè ricordare che la scienza e la matematica si fondano su basi metafisiche. Volendo dirla con un motto: la ragione dimostra i teoremi a partire dagli assiomi, ma questi devono essere giustificati e accettati per fede. Rimuovendo i postulati metafisici sui quali si fondano i risultati fisici, si rischia però di far passare per verità di ragione quelle che spesso sono soltanto, appunto, conseguenze di verità di fede. L'esempio più tipico è forse la teoria del Big Bang, che gli scienziati amano presentare come l'ineluttabile conseguenza della teoria relativistica e dell'osservazione astronomica, e che persino Pio XII riteneva una conferma della Bibbia. In realtà, alla base della teoria del Big Bang sta un postulato fortemente metafisico: il principio cosmologico formulato da Nicola Cusano e Giordano Bruno, secondo il quale l'universo appare in un dato istante allo stesso modo, da qualunque parte e in qualunque direzione lo si guardi. Poiché però tutto ciò che sappiamo dell'universo è ciò che vediamo dalla Terra, il principio cosmologico è solo una comoda professione di fede su come esso appaia altrove. E' proprio in queste professioni di fede che il mio libro identifica il significato teologico della scienza moderna, prima fra tutte la duplice ipotesi che l'universo è razionale, e la sua razionalità è comprensibile all'uomo. Ciò che Anassagora chiamava l'Intelligenza del mondo, Platone l'Anima mundi, i confuciani la Grande Armonia, gli stoici pneuma e i cristiani Spirito Santo, si chiama oggi campo gravitazionale o quantistico. E la sua rivelazione sta scritta non sulle tavole di Mosè, ma nelle equazioni di Einstein e Schrodinger. Piergiorgio Odifreddi Università di Torino


««IL VANGELO SECONDO LA SCIENZA»» A chi appartengono i concetti di Nulla e di Creazione? Un matematico fa da arbitro
Autore: P_BI

ARGOMENTI: EPISTEMOLOGIA
NOMI: ODIFREDDI PIERGIORGIO
LUOGHI: ITALIA
NOTE: SCIENZA E RELIGIONE

STA nascendo un ««caso Odifreddi»». Nello stagno dei rapporti tra scienza e fede, che già furono tempestosi - Giordano Bruno, Galileo, Darwin... - e poi sono divenuti forse fin troppo diplomatici, il sasso è ««Il Vangelo secondo la Scienza»», che Piergiorgio Odifreddi ha pubblicato presso Einaudi (215 pagine, 16 mila lire). Sarà che Scienza nel titolo ha l'iniziale maiuscola come Vangelo, sarà che la diplomazia è pur sempre un modo, sia pure beneducato, di fare la guerra, ma ««L'Osservatore Romano»» e prima ancora ««Avvenire»» hanno attaccato questo libro. Altri, invece, lo hanno osannato. Poiché i cerchi nello stagno continuano ad allargarsi, abbiamo chiesto a Odifreddi l'intervento che pubblichiamo qui accanto, dove l'autore stesso cerca di fare chiarezza sulle proprie posizioni. Non entreremo nella polemica, che è già abbastanza vivace di per sè. Ci limitiamo a notare che anche gli scienziati, se abitassero in una Città-Stato e potessero scrivere recensioni su ««L'Osservatore Scientifico»», forse avrebbero le loro doglianze nei confronti di Odifreddi. Il quale, da brillante logico matematico - 49 anni, studi in Italia, Russia e Stati Uniti, docente alle Università di Torino e di Cornell, autore di ««Classical Recursion Theory»» - nel suo libro usa sì la scienza come reattivo per sondare la teologia, ma mostra anche quanta teologia possa nascondersi sotto concetti come il ««nulla quantistico»» (virtualmente pienissimo), o paradigmi come quello del Big Bang, o - ancora - principi-guida come quello dell'Unità che ispira le ««Teorie del Tutto»». Ma si sa, le scienze (meglio la minuscola) sono perennemente provvisorie, e in questo hanno la loro forza. Tranne forse, sembra suggerire Odifreddi, la scienza delle scienze: la matematica, con i suoi principi logici. Del resto un vecchio motto dice che i fisici parlano con i matematici, e i matematici con Dio. p.bi.


MEDICINA Bibbia della salute Le 3000 pagine del manuale medico più diffuso negli Usa da oggi sono disponibili anche in una versione italiana
Autore: BASSI PIA

ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
NOMI: BERKOW ROBERT
ORGANIZZAZIONI: MEDICOM ITALIA, MERCK SHARP & DOHME
LUOGHI: ITALIA
NOTE: «MANUALE DELLA MEDICINA»

ECCO un centenario che permette di misurare i progressi della scienza: è appena uscita l'edizione italiana del ««Manuale della medicina»» della Merck Sharp&Dohme che riassume un secolo di medicina. La prima edizione vide la luce nel 1899 e aveva 192 pagine, quella attuale ne ha 3000. Una crescita travolgente: negli Anni Venti aveva 600 pagine, negli Anni Trenta 1379. L'edizione italiana è stata tradotta da specialisti delle varie scienze biomediche che, con un linguaggio semplice, hanno tenuto conto della realtà italiana, assai diversa da quella americana dal punto di vista sia geografico sia legislativo. Un esempio: alla voce ««Morsi dei rettili»» si è tradotto quanto riguarda il terribile crotalo che abita nei territori nordamericani ma si è aggiunta la realtà italiana dell'altrettanto pericolosa vipera nostrana. Ogni malattia è corredata dalla terapia aggiornata e integrata con una sezione di farmacologia clinica, oltre a suggerimenti di prevenzione e di educazione sanitaria. Il responsabile del manuale, giunto alla 17a edizione e tradotto in 16 lingue, è Robert Berkow, responsabile della sezione letteratura medica della Merck, mentre l'edizione italiana è stata diretta e coordinata da Bruno Pieroni, presidente Unamsi e di Medicom Italia. Il volume costa 180 mila lire ed è corredato da una copia anastatica del 1899. In essa si trovano molte curiosità su come venivano curate alcune malattie, a volte con sostanze e pratiche allora ritenute efficaci ma che con le conoscenze attuali sono ritenute gravemente dannose per la salute. Succedeva ad esempio che a un asmatico venisse somministrata una bella sigaretta per dargli sollievo, la bronchite acuta veniva curata con salassi e la calvizie con applicazioni di ammoniaca e un po' di arsenico. Il manuale è in vendita nelle principali librerie e si può richiedere alla Medicom Italia, tel. 02-6709956, fax 02-6709959, e-mail medicom@medicom-italia.it. Pia Bassi


PSICHIATRIA Una cura per gli attacchi di panico Colpito un italiano su tre almeno una volta nella vita
Autore: QUAGLIA GIANFRANCO

ARGOMENTI: PSICOLOGIA
NOMI: BORGNA EUGENIO, MONACO FRANCESCO
ORGANIZZAZIONI: LIDAP
LUOGHI: ITALIA

IN gergo gli specialisti li chiamamno ««dappisti»». Sono i malati del disturbo da attacco di panico (Dap), sindrome che si sta diffondendo ma le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Il nome stesso è antico, deriva dal dio Pan. Quell'essere mitologico, corna e piedi di capra, oggi è stato sostituito dalle paure di fine Millennio. Sarà l'ansia che ci divora, saranno le angosce per un futuro che ci spaventa, sarà l'onda che accompagna il Millennium bug. Un fatto è certo: il panico a volte scoppia, incontrollato, tanto che si deve ricorrere alle cure dei medici. Ne sanno qualcosa i sanitari di turno al pronto socorso degli ospedali. E le statistiche ci confermano: un italiano su tre, almeno una volta nella vita, è stato colto dal ««Dap»». Come dire che circa 1.800.000 persone devono ricorrere alle cure degli specialisti. Più esposte sono le donne. Ma, consoliamoci, non è una sindrome latina o tipicamente italiana. Il fenomeno rappresenta una patologia diffusa in tutto il mondo, indipendentemente dalle diversità culturali. Il 3,5% degli adulti in Usa avrebbe denunciato i sintomi. Leggermente inferiori le percentuali europee: 2,9 in Italia e 2,6 in Germania. L'insorgenza del disturbo si manifesta fra i 15 e i 35 anni, ma soltanto dopo 5-10 anni s'interpella uno specialista. E' stato anche elaborato un ««identikit»» sociale del soggetto colpito: il disturbo appare più frequentemente nelle donne, tra gli sposati, in particolare fra coloro che arrivano da ambienti urbani. Le categorie professionali? Imprenditori, impiegati, insegnanti, studenti. A Novara si è tenuto recentemente un convegno sul disturbo da attacco di panico, moderato dal professor Eugenio Borgna, responsabile del servizio di psichiatria dell'Ospedale Maggiore e dal professor Francesco Monaco, direttore dela clinica neurologica dell'Università del Piemonte orientale. E' stata illustrata l'esperienza di un medico, Maria Teresa Ferla, che ha elaborato la casistica relativa ai disturbi d'ansia in un ambulatorio di psichiatria ospedaliera. Il ««caso Novara»» è emblematico: tra i colpiti dal panico ci sono anche coloro che hanno perso il lavoro. Anzi, la percentuale di insorgenza è doppia rispetto agli altri. Un altro dato significativo: su 44.360 accessi al pronto soccorso, il 5% è in condizione ansiosa, con un aumento negli ultimi cinque anni. Ma come si manifesta il dap? I sintomi più usuali, quelli fisici, sono: tachicardia, dificoltà respiratorie, sbalzi della pressione, sudorazione, tensione muscolare. Quelli psichici: apprensione e preoccupazione ingiustificate, senso di pericolo, difficoltà di memoria. Le cure. Un 9% si risolve attraverso il colloqui (l'intervento psicoterapeutico); un 5 per cento dei pazienti viene ricoverato per approfondimenti. Il resto è curato con trattamento farmacologico (antidepressivi). Ansia e panico, mali oscuri di fine millennio, che certamente ci porteremo anche nel prossimo. La Lidap (Lega italiana per i disturbi da attacco di panico) sostiene che la sindrome colpisce almeno il 15% della popolazione, ma la maggior parte non lo confessa e sfugge alla statistica. La stessa Lidap ha creato un gruppo di auto-aiuto (il self-help) attraverso un centro d'ascolto con operatori specializzati. Gianfranco Quaglia


BIOLOGIA Nelle piante l'evoluzione è più veloce
Autore: KRACHMALNICOFF PATRIZIA

ARGOMENTI: BIOLOGIA
ORGANIZZAZIONI: WEIZMANN INSTITUTE
LUOGHI: ITALIA

LE piante hanno un'evoluzione molto più rapida dei mammiferi. Può sembrare strano, visto che i mammiferi sono al massimo livello della scala gerarchica in natura, ma non è così assurdo, se si pensa all'enorme numero di funghi e batteri contro cui i vegetali devono combattere. Alcuni studiosi del Weizmann Institute in Israele stanno svolgendo ricerche sull'argomento, con risultati interessanti. Negli ultimi 300 milioni di anni, solo 4000 specie di mammiferi si sono evolute, contro le circa 200.000 specie di piante. Le piante mostrano anche una variabilità molto maggiore dei mammiferi nella quantità di Dna presente in ogni specie. Questa particolare plasticità potrebbe essere la risposta della natura alla principale debolezza delle piante in confronto ai mammiferi; le piante non possono fuggire di fronte al pericolo e devono quindi trovare altri modi per difendersi. L'èquipe del Weizmann sta appunto indagando sui meccanismi che permettono alle piante di essere così versatili. Essi hanno scoperto che - in confronto ai mammiferi - le piante hanno una maggiore tendenza a commettere errori quando riparano il Dna danneggiato e questa tendenza potrebbe essere un tipico caso di ««non tutto il male vien per nuocere»», in quanto porta avanti l'evoluzione incrementando la variabilità genetica. Le piante tendono a ««improvvisare»», dicono al Weizmann. Mentre i loro meccanismi ««riparano»» uno strappo nel Dna, come peraltro fanno quelli dei mammiferi e del lievito, le piante spesso ««riscrivono»» o cancellano parti del Dna stesso durante il processo di riparazione. Il Dna ««riparato»» è raramente identico all'originale. Il Dna danneggiato, se non viene riparato, può portare a conseguenze disastrose, particolarmente in organismi soggetti a sviluppare il cancro. Nelle piante, invece, le mutazioni si possono accumulare senza pericolo, in quanto le cellule non possono muoversi all'interno della pianta. Fortunatamente, tutti gli organismi dispongono di ««squadre di emergenza per le riparazioni»», capaci di invertire o mitigare i danni prodotti dalla mutazione. Gli studiosi israeliani hanno scoperto che i sistemi di riparazione delle piante compiono un'alta percentuale di errori. Nel 70% circa dei casi, le piante si limitano ad appiccicare le parti di Dna lacerate, usando, come ««nastro adesivo»», un enzima biologico noto come ligasi Dna. Questa tecnica un po' rozza non tiene conto delle numerose complicazioni che ne possono derivare. Infatti le lacerazioni del Dna, a differenza dei tagli netti fatti con le forbici, provocano la perdita di pezzi interi, oltre al fatto che i lembi di Dna così esposti vengono immediatamente localizzati e attaccati da enzimi distruttivi. Quindi un semplice ricongiungimento con legatura porta ad una mescolanza del codice genetico e ad una perdita di informazioni. Le piante addirittura ««cuciono»» insieme Dna di varia provenienza, ottenendo una specie di ««patchwork»», a differenza del lievito, che sostituisce i frammenti mancanti con materiale identico. La strana attività delle piante quando si presenta la necessità di una ««riparazione»» può condurre a nuove e importanti scoperte dell'ingegneria genetica. La riparazione errata del Dna può, in molti casi, dar luogo ad effetti positivi. L'approccio è quello di assorbire la perdita di mutazioni ««cattive»» in modo da ricevere le mutazioni ««buone»», utili all'aumento dell'adattabilità. La strategia dominante per superare il problema dell'immobilità potrebbe essere quella di diventare i migliori atleti nella corsa all'evoluzione. Patrizia Krachmalnicoff


IL DIAVOLO ORSINO DELLA TASMANIA Predatore, ma pacifico Marsupiale dalla cattiva fama immeritata
Autore: LATTES COIFMANN ISABELLA

ARGOMENTI: ZOOLOGIA
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: T. LA VITA DEL DIAVOLO DI TASMANIA

SUCCEDE abbastanza spesso che l'etichetta di "cattivo" si appiccichi a un animale come un marchio indelebile. Gli rimane addosso anche quando ci si accorge che proprio non se la merita. Emblematica a questo proposito è la storia di un piccolo marsupiale, che vive oggi una vita sempre più stentata in Tasmania, l'isola situata a sudest dell'Australia, tra Oceano Indiano e Oceano Pacifico. Nel l8O8 uno zoologo chiamato Harris scoprì questa nuova specie di marsupiali (perciò il suo nome scientifico è Sarcophilus harrisi) e lo battezzò col nomignolo di "diavolo orsino". Ma, questo povero diavolo, di satanico non ha proprio nulla, nè corna, nè aspetto mefistofelico. Per poterlo studiare meglio, Harris ne catturò una coppia e la ficcò dentro una botte, dove la tenne per un bel pezzo. Chiunque diventerebbe furioso, relegato in una simila prigione. E' quindi più che naturale che i due animali, una volta liberati, fossero schiumanti di collera e aggressivi al massimo grado. Fu così che il Sarcophilus si guadagnò quel nome infamante e nacque la falsa credenza della sua malvagità. Non che sia uno stinco di santo, intendiamoci. E' un carnivoro, un predatore come la martora o il visone. Ma allevatori e zoologi assicurano che si può allevare e addomesticare con grande facilità. E diventa allora il più pacifico animale della Terra. Ha su per giù la taglia di un tasso e gli somiglia anche per la forma della testa. Al tempo stesso ha qualcosa nella sagoma che ricorda un orsacchiotto (da qui il nomignolo di "diavolo orsino). E' una creatura squisitamente notturna. Di giorno dorme come un ghiro. Di notte è vispo e arzillo. Sembra che abbia l'argento vivo addosso. Igienista ad oltranza, ama l'acqua e ci sguazza dentro con evidente piacere, facendosi anche delle belle nuotate. Per lavarsi la faccia, usa la stessa tecnica che usiamo noi: se la strofina ripetutamente con le zampe bagnate. Ha una voce piuttosto potente, che rintrona nel cuore della notte. Ricorda alla lontana il latrato di un cane. Lo zoologo Bernhard Grzimek racconta che quando il guardiano voleva pulire la gabbia di un diavolo orsino ospite dello zoo di Francoforte, aveva preso l'abitudine di farlo "cantare". Gli dava l'attacco con una nota giusta e l'animale continuava sullo stesso tono a gola spiegata. Nell'autunno australe, che corrisponde alla nostra primavera, i diavoli orsini sono in amore. Si formano le coppie e si celebrano le nozze. La gestazione è breve. A fine maggio o ai primi di giugno la femmina partorisce da due a quattro piccoli. Mai più di quattro, perché tanti sono i capezzoli materni disponibili. Secondo la tradizione di famiglia, i piccoli diavoli alla nascita sembrano più feti che neonati. Sono lunghi solo dodici millimetri, un quarantesimo della lunghezza dell'adulto, che misura circa mezzo metro. Come tutti i marsupiali anche questi esserini minuscoli nascono già "istruiti". Appena vengono alla luce, conoscono esattamente la strada da percorrere nella selva di peli materni per raggiungere il marsupio. Una volta arrivati in quella tasca calda e confortevole, si attaccano ciascuno a un capezzolo e non lo mollano più. Così, poco alla volta il bebè cresce e si trasforma, cambiando sembianze. Si ricopre di peli, mentre prima era nudo come un verme. E apre gli occhi che alla nascita erano chiusi. Tutto questo avviene nel buio del marsupio che, subito dopo l'ingresso dei piccoli, si chiude ermeticamente per azione di un muscolo circolare. Solo allo spuntare della primavera succede il grande evento. E' come se i diavoletti nascessero un'altra volta, tre mesi dopo la nascita vera e propria. Il marsupio sinora sigillato si dischiude e i diavoletti incominciano ad affacciarsi dalla sua apertura e a guardarsi intorno, in quel mondo ignoto tutto da scoprire. La madre però continua ad allattarli. Del latte, di questo cibo insostituibile i diavoletti continueranno a nutrirsi per circa cinque mesi. A questo punto i piccoli ne hanno abbastanza di restare al chiuso. E sembra che i genitori se ne rendano conto. Perché si danno subito da fare a costruire una tana molto accogliente, tutta per loro. Per questo vanno a cercare la cavità di un tronco o il riparo di una roccia o magari s'impossessano della tana già bell'e fatta di un vombato o di un altro marsupiale. In questo caso i genitori si limitano a rimettere a posto, per così dire, l'appartamento. Se invece scelgono una cavità naturale, la imbottiscono di erbe e di foglie. Fino al secolo scorso, diavoli orsini ce n'erano in abbondanza in tutta l'Australia. Lo testimoniano i resti ossei ritrovati in varie regioni del Continente Nuovissimo. Ma l'Australia è la parte del mondo in cui l'uomo ha inciso in maggior misura nel sovvertimento dell'equilibrio ecologico, con l'incauta introduzione di specie estranee. Per i diavoli orsini il nemico numero uno si chiama "dingo". E' il cane selvatico - secondo alcuni studiosi rinselvatichito da domestico - introdotto nel continente dai primi coloni. Lo chiamano anche "cane muto"perché, a differenza dei cani domestici, non abbaia. I dinghi, oltre a diventare predatori di pollame e di canguri, se la presero anche con i diavoli orsini e ne fecero una vera carneficina. Il resto lo fecero gli stessi coloni, accusando i poveri diavoli non solo di assomigliare a Satana, forse per via della pelliccia nera (interrotta in realtà da qualche macchia bianca) e per la mania di urlare nel buio della notte, ma più concretamente perché divoravano polli e altri animali da cortile. E questa è una colpa che l'uomo non perdona. In conclusione, il piccolo innocuo marsupiale è completamente scomparso dall'intero continente australiano sin dall'inizio del secolo. Sopravvive oggi soltanto nelle zone più inaccessibili, aspre e rocciose della Tasmania, l'isola quasi ai nostri antipodi. Isabella Lattes Coifmann


NOVITA' DAL CNR DI PALERMO Il miglioramento genetico dei limoni Selezionate nuove varietà
Autore: ACCATI ELENA

ARGOMENTI: GENETICA
ORGANIZZAZIONI: CNR
LUOGHI: ITALIA, ITALIA, PA, PALERMO

DA quando il limone giunse in Sicilia prima dell'anno mille, con gli arabi, non soltanto la sua diffusione è stata costante, ma anche notevolissima la quantità di ricerche condotte su queste specie (Citrus limon) in tutto il mondo, e in particolare presso istituti di ricerca dell'Italia Meridionale e della Florida (Usa). Parlando di limone è d'obbligo citare un trattato del 1756 in più volumi, ««Instructions pour les jardins»», scritto in modo assai piacevole da Monsieur De La Quintinie, intendente alle cure dei frutteti e degli orti di Versailles, personaggio eccentrico definito però un artista dal Re Luigi XIV. I consigli circa il tipo di vasi da impiegare, le tecniche del rinvaso, della concimazione, dell'irrigazione sono attualissimi e utilissimi anche perché numerosi parchi (da Agliè a Boboli, dalle ville del Brenta a Villa Doria Pamphili a Roma) possiedono nel nostro Paese collezioni più o meno importanti di limoni in vaso. I ricercatori si pongono però sempre nuovi traguardi: attualmente alcuni temi affascinanti interessano il settore del miglioramento genetico. Si cerca, e sembra ci siano riusciti presso il Cnr di Palermo, di costituire individui triploidi ossia aventi il 50% in più dei cromosomi degli individui normali quindi apireni, in quanto tali piante offrono la possibilità di incrementare notevolmente la variabilità genetica tra i limoni e di selezionare individui dotati di resistenza o di tolleranza nei confronti del malsecco, la più grave malattia causata da un fungo, di ottenere frutti con caratteristiche migliori quanto a colore, dimensioni, qualità organolettiche, contenuto in vitamina C ed epoca di maturazione. D'altra parte nella famiglia a cui appartengono i limoni per effetto della notevole apomissia esistente (fenomeno per cui si producono i frutti senza il ricorso alla meiosi e alla fecondazione), sono inibiti i processi di ibridazione naturale, fatto che rappresenta un grosso limite nell'evoluzione del genere. L'ottenimento di progenie triploidi di Citrus offre ampie opportunità di ricombinazione di pool genici in grado di tollerare ambienti sfavorevoli. Il ricorso alle biotecnologie come la coltura di endosperma (una porzione del seme) in vitro e la costituzione diretta di triploidi attraverso la fusione di protoplasti pur promettenti necessitano di ulteriori messe a punto. I triplodi una volta ottenuti sono stati innestati su diversi portainnesti per iniziare le prime valutazioni sulle caratteristiche agronomiche. Le piante ottenute, che sembrano simili al genitore femminile, il Femminello comune, soprattutto per la forma e la consistenza della foglia, sono state sottoposte a misurazione una per una. E' stata valutata la colorazione dei germogli con opportuni colorimetri, la lunghezza degli internodi e altri parametri da cui si è potuto affermare che le piante mostrano un elevato vigore. Per caratterizzare i triplodi è stato impiegato uno strumento molto efficace per una rapida ed accurata stima del contenuto di Dna nucleare in Citrus. Le operazioni sono state condotte con un citofluorimetro a flusso, equipaggiato con un laser ad argon predisposto per una emissione nel verde, metodologia che ha il vantaggio di richiedere un quantitativo molto modesto di tessuto fogliare. Elena Accati Università di Torino


IL SAN MARCO 1 Fu il primo satellite italiano Lanciato il 15 dicembre del 1964
Autore: LO CAMPO ANTONIO

ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
NOMI: BROGLIO LUIGI
ORGANIZZAZIONI: SAN MARCO 1
LUOGHI: ITALIA
TABELLE: C. LA PIATTAFORMA SAN MARCO E LA PIATTAFORMA SANTA RITA NELL'OCEANO INDIANO

QUELLA mattina del 15 dicembre 1964, al Poligono di lancio americano di Wallops Island, in Virginia, soffiava un vento gelido che faceva sventolare tante bandierine italiane testimoni di un appuntamento storico per il nostro paese: il lancio del primo satellite artificiale italiano, che ci avrebbe consentito di diventare la quinta nazione, dopo Urss, Usa, Regno Unito e Canada, a vantare un proprio satellite in orbita attorno alla Terra. La brezza non impedì al piccolo razzo vettore americano ««Scout SV-137»» di salire nel cielo terso per immettere regolarmente in orbita equatoriale bassa, il ««San Marco 1»», piccola sfera di alluminio destinata a fornire informazioni all'epoca sconosciute sulla densità dell'alta atmosfera. Fu il primo piccolo ma importante passo di una serie di lanci che finora conta un centinaio tra satelliti, sonde e moduli spaziali realizzati dall'Italia singolarmente o con altre nazioni. Dentro il ««San Marco 1»» c'era un originale strumento chiamato ««bilancia»» che consentì di registrare istante per istante le piccolissime forze che agivano sulla superficie di un satellite in orbita. Lo ««Sputnik tricolore»», come venne battezzato allora dai giornali, in un periodo di grande entusiasmo per i lanci spaziali, che era anche il primo satellite costruito da un paese europeo, fu ideato e realizzato sotto la guida di Luigi Broglio, un ingegnere, classe 1911, pioniere delle attività spaziali italiane, che aveva iniziato a sperimentare lanci alla base di Perdasdefogu, in Sardegna, nel 1959-60. Promotore delle prime convenzioni con la Nasa e con le europee Eldo ed Esro (che più tardi si fonderanno e daranno origine all' Esa), Broglio ancora oggi si entusiasma per quell'impresa e conserva qualche rammarico: ««La speranza era di valorizzare di più il nostro poligono di lancio in Kenia ancorato nelle acque al largo di Malindi - racconta il pioniere spaziale italiano - ma è stato assai complicato ottenere investimenti. Peccato, perché, essendo prossima all'equatore, quella base rende più facile lanciare satelliti in orbita equatoriale. Non a caso da circa un anno è operativa una base di lancio off-shore europea per lanci di piccoli satelliti: il sistema evidentemente funziona»» . La piattaforma italiana San Marco, anch'essa promossa da Broglio, servì per il lancio dei successivi satelliti ««San Marco»», dal numero 2 al 5, e di piccoli satelliti come gli storici SAS americani, il primo dei quali, poi battezzato ««Uhuru»», per primo rilevò nei raggi X la presenza di buchi neri. All'inizio degli Anni 90 si pensava di riutilizzare la base San Marco per ospitare il nuovo vettore ««San Marco Scout»», che prevedeva di utilizzare la tecnologia del vecchio vettore americano integrata con quella italiana. Ma con la recente crisi di questo progetto, la piattaforma italiana sembra destinata a rimanere inattiva. Antonio Lo Campo


LA LEZIONE / LINGUISTICA Perché studiare il latino Una cultura cui è debitrice l'Europa
Autore: QUAGLIA LUCA

ARGOMENTI: DIDATTICA
LUOGHI: ITALIA

LE civiltà e le lingue greca e latina sono le fondamenta su cui si basano sia la cultura e la terminologia artistico-letteraria e storico-filosofica, sia la terminologia scientifica delle lingue moderne, particolarmente del mondo occidentale. Non si deve dimenticare, poi, che le lingue del gruppo romanzo, o neolatine, derivano dalla corruzione del ««sermo cotidianus»» dei legionari e dei mercanti dell'Impero; nè che le stesse lingue celtiche e quelle germaniche tutte assimilarono molte parole dalla lingua latina sia in epoca antica, sia, soprattutto, in quella cristiana. Tramite questi imprestiti siamo anche in grado di sapere quale fosse la pronuncia del Latino nelle diverse epoche. Quando una lingua germanice ha conservato la velare latina, significa che l'imprestito, piuttosto antico, avvenne quando il Latino non aveva ancora sviluppato delle palatalizzate, che nelle lingue germaniche hanno dato origine ad affricate , come in kellari, da kellariu-, di contro a zirkil, da circulu-. Il Latino - che fa il suo ritorno nella prova scritta all'esame di maturità classica del Duemila - veicolò in altre lingue anche molti termini presi dal greco. D'altra parte, molta terminologia latina, specie giuridico-amministrativa, passò alla Grecia, dopo che questa, sconfitta dai Romani, li ebbe conquistati con la forza della propria sublime civiltà, allo stesso modo in cui, secoli più tardi, attrarrà a sè tutto il mondo slavo orientale e gran parte di quello meridionale. E' a causa di questo intenso rapporto culturale, e per tradizione già antica, ben più che per stretta comunanza nelle forme grammaticali, che lo studio congiunto delle lingue di Atene e di Roma si è imposto nei corsi di studi umanistici. Praticamente, si studiano il Greco e il Latino, perché la cultura latina, cui è debitrice l'intera Europa, è, a sua volta, debitrice della cultura greca. Eppure non si deve dimenticare che sia le lingue celtiche, germaniche, slave, baltiche, tocariche, anatoliche, italiche, indiraniche ecc., sia la greca e la latina, altro non sono che il prodotto d'infiniti processi di disgregazione - e di successive riaggregazioni con altre lingue sia della medesima famiglia linguistica, sia d'altre - a partire da una lingua comune. Questa favella comune è detta indeuropea o indogermanica, e trae le proprie denominazioni dai territorii in cui sono o erano parlate le lingue da essa derivate - dall'India all'Europa; o da quella alla Germania, paradigma dell'Europa tutta, per i teutonici-. Non è azzardato considerare l'indeuropeo come una lingua - solcata o no da maggiori o minori isoglosse - effettivamente parlata, durante circa dieci secoli - tra il IV e il III millennio a. C. - da un popolo di pastori guerrieri stanziato in un'area non troppo sicuramente definibile, ma, probabilmente, quella del basso corso del Volga: la regione dei Kurgani. Nè è azzardato pensare che, da tale sede, in un susseguirsi di vera sacra, ossia, di primavere in cui i giovani in esubero della tribù partivano alla ricerca di nuovi territori, abbia avuto inizio tutta una serie di movimenti migratori verso quelle terre, a oriente, occidente, settentrione, meridione, che sarebbero divenute, dal II millennio a. C. in avanti, le sedi storiche degl'Indi, degl'Irani, degl'Elleni, dei Latini, dei Celti, degl'Italici, dei Germani ecc. Se si privilegiassero, invece che i legami culturali di tipo artistico-letterario e storico-filosofico, piuttosto i legami di natura morfosintattica tra le lingue d'origine indeuropea, potremmo sperimentare come sarebbe molto più coerente studiare la lingua greca in comparazione con quella indiana (vedica, preferibilmente che classica!) e, financo, con quella gotica, piuttosto che con la latina. Parimenti, il Latino potrebbe essere vantaggiosamente studiato insieme all'antico Irlandese o al Gallese, o alle lingue del gruppo italico... Infatti, le forme, massimamente, ma pure gli usi del verbo greco sono assai più simili a quelli dell'Indiano che non a quelli del Latino; mentre molti aspetti morfologici e sintattici delle cosiddette lingue indeuropee occidentali, avvicinano tra loro, nelle forme e negli usi, Latino, lingue italiche e lingue celtiche. Si pensi alle molte classi del presente, ai congiuntivi, agli ottativi, agli aoristi, ai perfetti, alla diatesi media, all'uso dei participii... E, ancora, al ruolo dell'apofonia, di primaria importanza nel Sanscrito, nel Greco e nelle lingue germaniche; quasi ininfluente e in via d'estinzione in Latino, Osco Umbro e antico Irlandese...Se lo studio delle lingue antiche, non solo classiche, avesse il fine precipuo di conoscerne le strutture fonomorfosintattiche e l'evoluzione storica, si potrebbero comprendere meglio i rapporti che intercorrono tra le varie lingue di uno stesso gruppo, e, al contempo, si chiarirebbero quelle forme che, all'interno di una lingua, per varii motivi, non sono immediatamente comprensibili. Chi conosce l'antico Irlandese e la sua evoluzione non ha difficoltà a capire le mutazioni consonantiche che rendono ostiche ai più le favelle celtiche. In tal modo si eviterebbe di insegnare balordaggini quali quella che spiega il latino "esse" come forma nata per evoluzione da "esre", quando sappiamo che avvenne tutto il contrario! Sono le forme infinite dei verbi in cui la si trovava in posizione intervocalica che, intorno al III secolo a. C., per il fenomeno detto di rotacismo, mutarono detta sibilante sorda in laterale vibrante rotata , tramite il passaggio a sibilante sonora . Con il ricorso alla linguistica storica si potrebbero spiegare anche certe forme particolari, sia verbali, sia nominali, apparentemente folli, che fanno spesso delle lingue -non solo antiche- un vero rompicapo. O il caso di paradigmi verbali come quello del greco bl''sk'', molo mai, èmolon, mèmbloka; del latino fer'', fers, tuli, latum, ferre. Si tenga, oltretutto, conto che, spesso, sono assai più spaventosi certi testi grammaticali scolastici ad uso dei Ginnasii, ermetici e pasticciati in modo sommo, che non le ricchissime ed eccellenti grammatichette storiche come quella greca di Heilmann o quella latina del Pisani.. . Luca Quaglia


IN BREVE Il satellite ««Xmm»» lanciato da Ariane 5
ARGOMENTI: AERONAUTICA E ASTRONAUTICA
LUOGHI: ITALIA

««Xmm»», satellite europeo per l'osservazione dell'universo nei raggi X, è stato messo in orbita con perigeo a 827 chilometri e apogeo a 113.946 da un razzo ««Ariane 5»» il 10 dicembre alle 15,30 ora italiana. E' un duplice successo per l'Europa: ««Xmm»» è infatti l'osservatorio più avanzato nel suo genere e ««Ariane 5»», al primo volo operativo, ha avviato felicemente la sua attività di lanciatore commerciale per grossi carichi (vedi ««Tuttoscienze»» di mercoledì scorso).


IN BREVE Tumori e Survivina altri progressi
ARGOMENTI: MEDICINA FISIOLOGIA
NOMI: ALTERI DARIO, MARCHISIO PIER CARLO
LUOGHI: ITALIA

A un anno dalla loro scoperta del gene della survivina, molecola implicata nella vita e nel ««suicidio»» delle cellule, Pier Carlo Marchisio (Istituto S. Raffaele, Milano) e Dario Alteri (Boyer Center, Yale, Usa) hanno pubblicato sulla rivista ««Nature Cell Biology»» nuovi risultati. Poiché la survivina abbondanda nelle cellule cancerose rendendole in pratica immortali, si cerca di bloccarla, coinvolgendo il tumore stesso nel suicidio: nei loro esperimenti Marchisio e Alteri hanno dimostrato che, in provetta, si riesce a inattivare il gene che codifica la survivina.


IN BREVE Decodificato il cromosoma 22
ARGOMENTI: GENETICA
LUOGHI: ITALIA

Nell'ambito del Progetto Genoma Umano è stato interamente decodificato il cromosoma 22. Ne riferiremo sul prossimo ««Tuttoscienze»».


IN BREVE Diluvio universale in mostra a Trento
ARGOMENTI: ECOLOGIA
LUOGHI: ITALIA

Fino al 21 maggio 2000 è aperta a Trento, Palazzo Sardagna, la mostra ««il Diluvio Universale»»: promuove una ideale moderna ««arca di Noè»» che traghetti nel nuovo millennio il patrimonio di biodiversità (flora, fauna, ecosistemi) oggi da più parti minacciato. Informazioni, Museo Tridentino Scienze Naturali, tel. 0461-270.311.




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