INTRODUZIONE
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In questo volumetto, che non vuol essere un trattato di linguistica, per parlare con sufficiente chiarezza di un argomento così complesso, basteranno alcune considerazioni di carattere generale, tenendo presente che «lingua e dialetto sono entità complementari legate da un rapporto che muta nel tempo» [1].
Nel proporre la lettura di queste pagine dialettali l'autore si è ben guardato dall'attribuirle esclusivamente alla parlata di Ceggia; anzi, poiché esse rappresentano un po' genericamente la parlata popolare delle «Basse», intende attribuirle a coloro che le accettano perché vi sentono risuonare il proprio idioma, non a coloro che le rifiutano come estranee alla parlata del loro ambiente.
A questo proposito sarà bene ricordare che il dialetto è mutevolissimo non solo nel tempo, come è detto sopra, ma anche e soprattutto nello spazio, da un paese all'altro (per esempio, per indicare «un piccolo bicchiere di vino bevuto all'osteria» a Ceggia si dice comunemente ombra, ombréta, a Torre di Mosto si dice caniòl, canioét, a S. Stino dicono un tajét), da una famiglia all'altra e perfìno da persona a persona; anzi, essendo il linguaggio un fatto soggettivo che nel parlante riceve stimolo dai vari stati d'animo quali l'umore, il capriccio, la sensibilità, il grado di cultura e così via, il modo di parlare è per così dire condizionato da tutti questi fattori e diventa quindi mutevole in una stessa persona; ciascuno di noi infatti si accorge che per dire le stesse cose oggi, domani, di là a qualche giorno, non usa sempre le stesse parole, gli stessi modi di dire, lo stesso tono di voce.
Fatta dunque una prima distinzione tra lingua e dialetto, se ne può fare una seconda all'interno del dialetto stesso, poiché esiste qualche differenza, talora sostanziale, fra la parlata del centro abitato e quella dei luoghi posti fuor di mano.
E ciò non deve destar meraviglia, se già il buon padre Cicerone (106-43 a.C.) e il grammatico Quintiliano (30/33-96 d.C.) distinguevano ai loro tempi la urbanitas, cioè l'eleganza della parlata cittadina, dalla rusticitas, cioè la rustichezza delle parlate dei quartieri popolari e dei sobborghi di Roma. Il loro orecchio delicato avvertiva certe stonature nella lingua di quegli scrittori che se non erano nativi di Roma o ne erano stati per molto tempo lontano, non potevano essere raffinati come loro; negli scritti, per esempio, del grande storico padovano Tito Livio (59 a.C.-17 d.C.) essi sentivano quella patavinitas, l'accento padovano che faceva loro arricciare il naso perché dal suo modo di scrivere affioravano qua e là certi suoni, certi vocaboli o imperfezioni regionali propri del latino di Padova che era difforme da quello di Roma, e quindi non ortodosso perché non rispondente alle regole della buona lingua.
Poiché il dialetto che si parla oggi, per mille e una ragioni, è sofisticato, ed anche la lingua lo è (ma che cosa non è sofisticato oggi?), certi vocaboli del nostro dialetto ormai dimenticati o non più intesi sono stati inseriti in un contesto il più adatto possibile a metterne in luce il significato e, con l'aiuto di qualche nota, anche l'origine.
Si è cercato cosi di salvare dall'oblio almeno una parte di quel patrimonio linguistico che va scomparendo con la vecchia generazione. Stiamo infatti assistendo alla graduale scomparsa di molti dialetti, ma soprattutto del nostro il quale offre ben poca resistenza agli svariati mezzi che favoriscono la diffusione della lingua nazionale che, naturalmente, assorbe le lingue locali.
Le principali cause della scarsa resistenza del dialetto sono, come pare, le seguenti:
Ché anzi, a questo punto verrebbe quasi la tentazione di riportare un passo di Italo Calvino che in un suo scritto [2] accenna di passaggio anche al dialetto:
«Era ormai nata la civiltà del turismo, e la striscia della costa prosperò, mentre l'entroterra immiseriva e prendeva a spopolarsi. Il dialetto divenne più molle, con cadenze infingarde; il noto intercalare osceno perse ogni violenza, assunse nel discorso una funzione riduttiva e scettica, cifra d'indifferenza e sufficienza».
La parlata di Ceggia va inquadrata nella grande famiglia dei dialetti veneti, e più particolarmente tra quelli dell'estuario veneziano. Ceggia, situata in una zona intermedia tra il Piave e il Livenza, risente della cadenza veneziana, pur avendo il sottofondo in comune con le parlate dell'entroterra, e cioè parole tronche quali, per esempio, bèl, brut, nèt, sporc, guarì, benedì, in concomitanza con le corrispondenti parole piane, più proprie del veneziano: bèo, bruto, nèto, sporco, guario, benedio.
Abbiamo poi la consonante th uguale all'ottava lettera dell'alfabeto greco theta che si chiama interdentale perché la si pronuncia mettendo la punta della lingua fra i denti davanti e soffiando.
Ma qui ci vorrebbe un discorso a parte per illustrare questo particolare aspetto del nostro idioma. Basti dire che la lettera theta da sola conferisce al nostro parlare quotidiano un carattere di tale rustichezza che molti, per non sentirsi dire: «Ih, sinti: 'l parla ancora col th!», la ingentiliscono sostituendola con z, c, s, secondo i casi; per esempio: non Théja ma Zéja, Céja, Séja, Cegia e poi, venezianeggiando: «'L xé andà, la xé stada, 'l gà finio, i gà scrito...» anziché: «'L é 'ndat, la é stata, 'l à finì, i à scrit...».
Queste e poche altre particolarità di minor conto distinguono il nostro dialetto che è dolce, chiaro, scorrevole, comprensibilissimo alle persone delle più diverse estrazioni sociali e dei più vari idiomi italiani; non che gli manchino gli accenti forti o le esplosioni vivaci e improvvise come i fuochi d'artificio: sono il condimento, per così dire, della immaginosa ed espressiva parlata ciliense.
Una certa cantilena poi distingue tale parlata da quelle dei paesi vicini; ed è questa forse la nota caratteristica che la accosta di più al veneziano. Il quale, si sa, è come una musica dolce, casalinga, che fiorisce spontanea e aggraziata sia sul labbro dei barcaioli e delle donne al mercato, sia su quello della gente colta. I Veneziani amano il loro dialetto, ne sono gelosi e non disdegnano di servirsene anche nelle grandi occasioni e nei momenti più solenni della vita. In passato, anzi, esso fu la lingua ufficiale della Repubblica di San Marco: - Giova qui ricordare il grido di quel Doge che si rivolgeva ai sudditi per ammonire: «Strenzé el mondo e slarghé la Dominante-» (Gius. Marchesini, Annali per la storia di Sacile, Sacile 1957, p.588; le parole tra virgolette sono riferite sotto la data 2 gennaio 1381). Quando, nel 1507, Piero Tascal detto il Fornaretto, accusato di assassinio, fu impiccato, il Consiglio dei Dieci, riconosciuta in seguito la sua innocenza, ordinò che più non si pronunciasse sentenza di morte se prima uno dei giudici non avesse detto ad alta voce queste parole: «Recordéve del pòvaro Fornareto!» [3].
Pare dunque naturale che l'idioma ciliense possa essere ravvicinato, sia pure con le debite riserve, a quello veneziano. I non Veneti e i non Ciliensi perdonino questi fugaci richiami del lontano passato, e cioè che se con Venezia dividiamo un pochino la parlata, con l'antica vicina Eraclea (ora Cittanova) che della civiltà veneziana fu la culla, ci sia consentito di dividere una parte di quel vanto che le spetta per aver dato a San Marco i primi quattro Dogi (Paoluccio Anafesto, 697-717; Marcello Tegalliano, 717-726; Orso Ipato, 726-737; Domenico Leone, 737) e le prime norme dei suoi civili ordinamenti.
A titolo di curiosità si può qui ricordare che la saggezza dei reggitori della Serenissima acquistò tale fama che, per dirimere difficili questioni giuridiche o amministrative o per regolare rapporti diplomatici particolarmente delicati, i reggitori di altri stati ricorrevano a loro dicendo: «Eamus ad bonos Venetos! »: Rivolgiamoci ai buoni (saggi) Veneti! [4].
Poiché il frettoloso ritmo della vita moderna non ci lascia tempo per ascoltare la parola dei vecchi, del dialetto non si sa che farsene, e capita di pensare se non proprio di dire: «Anche il dialetto, adesso! Ci mancherebbe altro! A che serve? C'è ben altro da fare!».
Ma pare invece che esso debba essere tenuto in altrettanta considerazione della lingua letteraria perché è la grande riserva, il vivaio, per così dire, al quale gli scrittori attingono a piene mani allorché avvertono una certa stanchezza nella lingua, inadatta ormai ad esprimere con forza determinati concetti; proprio come fanno i giardinieri, gli ortolani, gli agricoltori i quali applicano i loro innesti su piante selvatiche e boscherecce, che sono ben più resistenti di quelle degli orti e dei giardini alle malattie e alle calamità naturali.
Sarebbe dunque opportuno fare qualcosa per salvare il prezioso patrimonio del linguaggio locale che costituisce una specie di ambiente ecologico della lingua.
Per conseguire questo scopo pare auspicabile la istituzione di un Circolo stabile di ricerca, composto di persone, dalle più colte alle più illetterate, disposte a riunirsi periodicamente per parlare di questo argomento, per mantenere viva la fiamma dell'amore al luogo nativo, per raccogliere, schedare, registrare, spiegare vocaboli, espressioni, modi di dire, proverbi, filastrocche, per segnalare usanze e tradizioni delle nostre borgate e della nostra terra [5].
E perché non paia inutile questa proposta, ascoltiamo le parole stimolanti di Giovanni da Schio (1798-1868):
«Il raccogliere le voci del mio paese era una nobile e utile impresa, la quale non solo aggiungeva al Dizionario della illustre famiglia dei Veneti una eletta appendice, ma illuminava eziandio la storia della immaginazione dei popoli, e il progresso logico e sentimentale della civiltà».
A conclusione, ecco quanto scrive a proposito di lingua e dialetto l'insigne linguista, recentemente scomparso, Giacomo Devoto (Genova 1897-Firenze 1975):
«Di fronte a questa lingua letteraria, fondata su modelli temperati e aperti, il dialetto non è destinato ad essere né un marchio di inferiorità né un simbolo romantico di gentili età scomparse, né un malinteso simbolo di degenerazioni autonomistiche o separatistiche. Esso rimane valido come legittimo termine di confronto, permanente, antidogmatico nei confronti della lingua letteraria. È una alternativa, liberatrice, alla spersonalizzazione e banalizzazione irradiante dalla lingua letteraria, generalizzata nell'uso».
Un grazie cordiale vada a tutti coloro che hanno contribuito al buon esito di questa raccolta, mentre chiediamo venia a quanti essa non è riuscita di pieno gradimento: credano che non s'è fatto apposta.
Ceggia, 9 aprile 1975. Francesco Artico
[1] C. Schick, Il linguaggio, Torino 1964, p. 342.
[2] I. Calvino, La speculazione edilizia, Torino 1958, p. 83.
[3] Grande Dizionario Enciclopedico, UTET, II ediz., vol. V.
[4] Citato dal prof. Luigi Balestra in Atti del LVIII Congresso Internazionale della Soc. Dante Alighieri, Padova 1-15 settembre 1966, p.6.
[5] Per obbedire a un imperativo così pressante l'autore di questo libretto sta preparando la pubblicazione di un Vocabolario del nostro dialetto, che è il frutto di minuziose ricerche condotte da un trentennio a questa parte fra i più vari strati sociali della nostra popolazione.
© 2001-2005 Giuliano Artico.